
Si è stampato.
Ha esagerato, premuto troppo l’acceleratore e ha fatto il ciocco. Ne siamo felicissimi.
Forse dunque in questo Paese esiste ancora una realtà e non semplicemente la sua rappresentazione distorta. Nonostante il massiccio bombardamento a reti unificate, l’abnorme disparità di mezzi e risorse, i giochetti sporchi, le pagine sponsorizzate per il sì che apparivano ogni dieci click e la pletora di vips “desiderosi” di fare coming out a favore del governo che cadenzavano l’avvicinamento alla domenica referendaria e che ora scappano a gambe levate tra mille distinguo come fossero politici scafati – vero Bottura? – ecco, nonostante tutto questo “rumore di fondo” che sembrava stesse trasformando l’Italia in una nouvelle Corea del Nord informativa, a livelli che nemmeno il Berlusconi più furente all’apice del proprio potere avrebbe mai osato sognare; malgrado tutto questo ha vinto il No.
E come è potuto succedere?
“Non è difficile capire perché abbia vinto il NO.
Da due anni Renzi non poteva più parlare in una pubblica piazza: ben 117 contestazioni, estese anche ai suoi ministri, monitorate grazie all’hashtag #Renziscappa e rappresentate in una mappa interattiva. I media trattavano ogni contestazione come un «episodio», e invece era la tendenza. Tendenza facilmente spiegabile: con il «Jobs Act» e la lingua in bocca a Marchionne e compagnia, Renzi si era inimicato il mondo del lavoro dipendente; con la «Buona Scuola» si era inimicato buona parte del corpo docente italiano (e molti studenti); con lo «Sblocca Italia» e l’appoggio alle Grandi Opere si era inimicato movimenti forti e radicati nei territori; con il «Salvabanche» si era inimicato molti risparmiatori; con l’arroganza culturale e la volontà di fare tabula rasa di ogni retaggio di sinistra e antifascista, si era inimicato l’ANPI.” […] Tutti questi mondi hanno votato NO. Un trasversale, orizzontale rigetto della controriforma, del governo e di tutto il suo operato. Una parte di elettorato di sinistra che aveva smesso di votare è tornata a farlo per liberarsi di Renzi. Non bisogna guardare alle sigle, né ai personaggi che si vedono nei talk-show. Bisogna guardare alla società. L’espressione movimentista «NO sociale» era criptica prima del voto, ora è chiarissima.” (da qua)
Solitamente non si fanno i conti senza l’oste. Quando poi ordini una serie di “riforme” criminali e criminogene e distribuisci manganellate su studenti, operai, precari, senza casa, movimenti radicati sul territorio, antifascisti e semplici contestatori allora non puoi aspettarti che questo conto non sia salato. A chi è costretto ad avere a che fare con i voucher, a chi il lavoro non lo vede nemmeno più con un binocolo o a chi si è appeso con tutte le forze alla precarietà perché consapevole che oltre quella ci può essere solo il baratro puoi raccontare qualche episodio, non tutta la saga.Siamo nel 2015. Era il tempo del Rottamatore Trionfante: Matteo Renzi che dovrebbe dimettersi a ore perché il 60% degli italiani ha rifiutato la sua riforma costituzionale. E non solo. È l’anno preso in esame dal report dell’Istat sulla povertà e la diseguaglianze di reddito pubblicato ieri. Era il tempo in cui lo storytelling di regime celebrava un politico di successo, mentre 17 milioni 469 mila persone (28,7% della popolazione) erano a rischio povertà o esclusione sociale, l’11,5% era in grave deprivazione materiale, l’11,7% viveva con il lavoro povero e precario. Il dato complessivo (28,3%) era superiore di quattro punti rispetto alla media dell’Unione Europea: il 24,4%. La povertà in Italia è inferiore solo alla Romania (40,2%) e Grecia (36,0%) ed è superata da Spagna, Croazia e Portogallo. (da qua)
Sgomberiamo subito il campo da ogni equivoco. Nonostante sia bello affermarlo ogni tanto quella situazione che si è manifestata così platealmente già domenica intorno alle 23.00 non può essere considerata una vittoria tout court. Se vi è un vincitore in questa contesa questa è una vecchia carta, mai attuata fino in fondo, che per quanto apprezzabile, è già stata superata nei fatti dalla costituzione materiale del Paese. Che sia rimasta invariata è un ottimo segnale. Significa che non possono ancora tutto i nuovi sacerdoti del capitalismo ma che essa possa ancora tutelarci dalle derive di quest’ultimo è un sogno per ingenui o giusto per chi pensa di poter abolire il Jobs Act esclusivamente con l’arma referendaria – vedere alla voce Referendum sull’acqua pubblica o Loi Travail francese – per intenderci.
Se lo si guarda da un punto di vista europeo, questo referendum,ha molto più a che fare con l’Oxi greco che con la Brexit. Nonostante la vulgata mainstream e lo storytelling apocalittico tenti di spacciarlo ad ogni angolo come tale, recintando quel No in un confine fatto di populismo e destra varia e posto perennemente sotto i riflettori. Che quella croce sul No contenga un po’ di tutto, anche rigurgiti xenofobi, sovranisti e destre in generale è sicuramente vero ma cancellarne la componente forte, decisiva e di sinistra è più un’operazione di marketing politico che un’analisi.
I dati raccontano che a votare per il No sono state in larga parte le fasce più giovani della popolazione, mentre il Sì spopolava esclusivamente tra i pensionati.
Che al Sud e nelle isole il No ha raggiunto percentuali elevate mentre il Sì ha vinto giusto all’estero, in Trentino-Alto Adige, in Emilia-Romagna e in Toscana.
Quello del 4 dicembre è stato un voto di classe. Difficile far digerire una riforma costituzionale svenduta contemporaneamente una volta come “mezzo per il cambiamento” e un’altra come “necessaria per la stabilità” a chi quotidianamente vede i propri interessi calpestati e sabotati dai provvedimenti governativi.
Not every exasperated petty bourgeois could have become Hitler, but a particle of Hitler is lodged in every exasperated petty bourgeois.
Trotsky
All’indomani della Brexit un chiacchiericcio livoroso, arrogante ed elitario sgorgava dai social network. Ciò che tracimava era uno sdegno pelosissimo che non si faceva nessuna remora a mettere in discussione “robette da niente” tipo il suffragio universale. Gli spettri che sbandierava erano più riflessi pavloviani che paure vere e proprie. Rigurgiti dal privilegio. In questi giorni, dopo l’affermazione del No, la sensazione è stata quella di riavvolgere il nastro, di un secondo tempo per un determinato tipo di linguaggio. E’ lo stomaco della piccola-media borghesia italica quello che barbuglia e che, se da una parte richiama il pericolo razzista come comodo sparring partner, dall’altra non presenta sostanziali differenze da quel tipo di discorso.
E’ il Paese più pericoloso. Quello rampante, che crede di avere la ricetta giusta per tutto e di detenere lo scettro di ogni verità. Quello che si ritiene e si autodefinisce la “parte migliore del Paese” e che dalle colonne di un inserto di un quotidiano coi bilanci in profondo rosso dispensa il proprio verbo neoliberale: “Non raccontiamoci la storia che la linea divisoria passa tra un’élite che si è chiusa nella torre d’avorio e il popolo, lasciamo queste terminologie da marxismo per gli asili. La linea divisoria passa tra chi vuole cambiare e chi stava bene quando stava peggio. Tra chi si guadagna da vivere e chi campa di rendita, e sa che potrà contare su qualche appartamentino o villetta ereditato dai genitori. Tra chi parla inglese non per finta e chi si esprime in dialetto. Tra chi preferisce fare il figo in provincia invece che competere nella metropoli. Tra chi vuole modernizzarsi – il che non significa necessariamente vivere più tranquilli e protetti di prima – e chi chiede i posti fissi, chi vuole le protezioni dei piccoli politici locali, chi vuole chiudere la domenica, chi sostiene che il liceo classico italiano sia la migliore scuola del mondo, chi ha paura di non essere più competitivo. Che si chiamino destra o sinistra non ha nessuna importanza, non facciamoci distrarre dalle etichette, tanto sono adesive. […] La scelta è chiara, e l’antagonismo palese. Gli adulti e i bambini, gli autosufficienti e gli assistiti, quelli che cercano di capire e di risolvere e quelli che – sì, diciamolo finalmente, basta con il politicamente corretto, lo dite voi, no? – non capiscono niente e non vogliono nemmeno informarsi sulla tegola che sta per cadere sulle loro teste, e scoprire che i politici che hanno guidato la crociata del «no» in buona parte avevano votato per la riforma del «sì» in Parlamento. Non siamo pronti a morire per il loro diritto di esprimere le proprie opinioni, perché per farsi un’opinione bisogna prima fare qualche sforzo. O noi, o loro.” (da qua) Odio di classe allo stato puro.
A ruota, seguono coloro che guardano ai Cinque Stelle o al Pd e che nemmeno provano ad osservare ciò che effettivamente si sta muovendo nel sociale. La politica è inesistente per costoro se non è rappresentata da un cappellino con una sigla. Complice un sistema mediatico che peggiora di giorno in giorno non è difficile non notare come dietro a questo No ci stia anche altro, un “No Sociale” che ha manifestato per ben due volte a Roma, la prima il 22 ottobre con 40 mila persone dopo uno sciopero generale indetto dai sindacati di base e la seconda il 27 novembre con 50 mila persone più altre tantissime manifestazioni, non ultima la contestazione alla Leopolda a Firenze, il 5 novembre.
Renzi si è stampato. Ora comincia il ballo dei figuranti, i riposizionamenti, le alchimie, il “campo progressista”, il “riunire la sinistra” i Revenants con le spugnette e via dicendo. Un teatro fuori tempo massimo a cui non crede più nessuno ma che si sostituirà a qualche telenovelas nei prossimi mesi. Fuori dagli schermi un solo copione. Repressione.
Per quella sembra non esserci un 5 dicembre. Le marce sono tutte inserite, una corsa che non sembra prevedere soste. Dopotutto se un corpo di una ipotetica sinistra dovrà ricomporsi in qualche modo, questo potrà essere fatto solo sulla strada.
Antonio Bianchi
9 dicembre 2016
La ricostruzione è articolata e interessante, grazie; sono molto d’accordo con la lettura del voto al referendum come “no sociale” e con la contestazione delle attribuzioni a questo o quel partito di quote di successo o insuccesso. Insopportabili nella loro superficialità.
Mi permetto di spezzare una lancia a favore di Pisapia, non perchè io mi riconosca necessariamente nelle sue posizioni, ultima fra queste certamente la sua scelta del sì al referendum, ma perchè credo che un’interlocuzione anche con un pd in cui voci diverse possano prendere parola, una ad esempio quella di Walter Tocci, sarebbe importante. Per non rassegnarsi alla renzizzazione di questo che è comunque un partito grande e in cui militano molte persone per cui è ancora vivo un sentimento di giustizia sociale. Non è il partito che voto e che voterei, ma alleanze credo siano necessarie, al più alto livello di compromesso possibile.
Mettendo mano alle involuzioni più gravi portate dal governo Renzi, scegliendone due io direi quella del lavoro e quella della scuola.
Infine mi permetto di contestare la scelta del titolo. Ho trovato di una volgarità infinita l’uso di questo epiteto in occasione del referendum sulle trivelle. Lascerei cadere nell’oblio questo concetto, prima ancora di lemma, vergognoso.
Ma, nonostante le righe spese per puntualizzare alcune cose, è prevalente un grazie per queste parole, che si connettono con la vita reale e cercano di leggerla. Grazie.
Antonio Bianchi
Militantduquotidien
11 dicembre 2016
Il titolo era affrettato effettivamente, mancava un punto interrogativo che è sfuggito.
Più che le persone credo siano i meccanismi quelli da analizzare con maggiore attenzione. All’indomani del Primo maggio milanese No Expo andò in scena uno spettacolo che forse è l’emblema recente del “ventre molle” del Paese. Con Pisapia in testa, l’avvento del “popolo delle spugnette” fu un qualcosa di estremamente amaro, un gusto reazionario che rese evidente la distanza tra una minoranza che ragiona e che lotta e una maggioranza silenziosa prontissima a gettarsi verso la propria spoliazione pur di farlo nell’apparenza di un decoro. I giornali, che allora montarono la canea verso i No Expo con espressioni tipo “città ferita” e “devastata” dai manifestanti, sono gli stessi che oggi si accorgono delle tonnellate di corruzione che quel megaevento ha prodotto.
Chi aveva ragione? Chi ha giocato per chi, quali erano “le maglie” in campo?
Questo Paese, in queste dinamiche, sembra il paradiso dell”endemicità: il discorso comune sa perfettamente che c’è corruzione in ogni settore, che c’è il magna magna e che il politico è un ladro per definizione però non appena si affaccia un movimento che queste dinamiche le indica con precisione, senza generalizzazioni e prova a contrastarle ecco come stranamente il tutto scompaia e quest’ultimo diventi il nemico pubblico numero uno.
Non è Pisapia (che comunque mi è nemico) o chi per lui ma è un meccanismo a funzionare in questo modo e temo non sia invertibile con semplici “alleanze al più alto livello di compromesso possibile”.
Chi ha votato a questo referendum non è detto che quando si voterà alle politiche (2018 o prima) non torni a disertare l’urna. L’offerta è decisamente scarsa. Nemmeno a livello locale si è più in grado di proporre amministratori non già attenti ai “tuoi” interessi ma che non ti siano direttamente nemici. Figuriamoci ad un livello più elevato. In Grecia oggi si scende in piazza contro ciò che fino all’altro ieri era considerata la speranza: Syriza e un ipotetico governo Tsipras. Qua si gioca ancora a collezionare le figurine o a tentare di sintetizzare in provetta un nuovo “campo di sinistra”….
Sul fatto che siano lavoro e scuola le involuzioni più gravi portate dal governo Renzi concordo pienamente e forse proprio da quei terreni salperanno le speranze e le “battaglie” per un domani.
Grazie per le puntualizzazioni. 🙂
dikotomiko
10 dicembre 2016
La lettura è pregevole, aggiungo che l’Istituto Cattaneo afferma che al No il presunto elettorato MS si è presentato compatto come una falange. La mia paura è che quel voto di classe che voi individuata finisca per trovare un unico sfogo naturale