
Sono passati ormai 11 anni da quell’elicottero che abbandonò la Casa Rosada il 21 dicembre 2001. Al suo interno Fernando de la Rúa lasciava il potere. Nei due giorni precedenti il governo da lui presieduto aveva sparato sulla folla, distribuendo una quarantina di morti – tra cui 9 minori. L’Argentina usciva così da quel pozzo nero neoliberale nel quale il Fondo Monetario Internazionale l’aveva gettata; con un 42% di disoccupazione reale e un 71% di denutrizione infantile, con i bancomat che non restituivano più i risparmi (il cosiddetto corralito cioè il blocco dei conti correnti bancari dei cittadini) e con una situazione sociale esplosiva.
Tra piqueteros e cazerolazos la situazione raggiunse una pressione tale che solo alla Piazza fu concesso il privilegio della valvola di sfogo. Plaza de Mayo si fece protagonista, nonostante lo stato di emergenza dichiarato dal governo e tra il 19 e il 21 dicembre le proteste furono così vigorose tanto da diventare ingestibili fino alla caduta del governo.
C’è uno splendido documentario sul genocidio sociale che è stato perpetrato in Argentina sotto il verbo neoliberista, si chiama Diario del saccheggio(Memoria del saqueo) di Fernando Solanas. Parla di noi quasi fosse uno specchio, uno specchio nel quale ancora rifiutiamo di osservarci. Sarebbe un bene guardarselo ora, alla vigilia di importanti elezioni, e non solo per quel “Que se ne vayan todos” che rieccheggia di sottofondo ma per quelle relazioni che esso riesce a trasmetterci. La cronologia, i tempi, le connessioni. Quanto ci sono familiari figure come Carlos Menem, la tv spazzatura, o una mafiocrazia diffusa? Quanto sono già nostre?
Per uno strano caso del destino il governo più neoliberista della storia recente italiana, quello Monti, cade nello stesso giorno in cui Fernando de la Rúa scappava in elicottero. L’Argentina di allora abbandonò “definitivamente” la valle di lacrime neoliberista, per noi il percorso è appena cominciato. E non ingannino le prossime elezioni datate a febbraio – un mese senza precedenti nella storia dell’Italia post bellica – mentre si scaldano i motori elettorali infatti, quelli ai quali fingiamo ancora di appassionarci per mancanza di coraggio è l’architettura costituzionale del Paese ed essere ridisegnata. Un solo articolo per imbrigliarli tutti. Con il pareggio di bilancio inserito a regime costituzionale e votato dal senato giusto oggi non ci sarà più spazio per l’uguaglianza dei cittadini, per i diritti, per la promozione della cultura e della ricerca scientifica, per la libertà personale che si vorrebbe inviolabile. Con l’articolo 81 in Costituzione è la forma di merce che si proclama come ontologia generale, l’unica ritenuta pertinente per cose e persone.
Dall’Argentina del 2001 potevamo godere di uno sguardo privilegiato sul nostro futuro e sul “ciò che ci attende” ma non impariamo nulla e mai lo faremo, il Sud America è distante quanto la nostra logica di comprensione. Oggi, lontano dai riflettori elettorali e dagli spiriti cantanti al riformismo, l’Italia si plasma a Stato di polizia a bassa intensità.
Solo questa settimana è iniziata con arresti e perquisizioni ad orologeria a Milano e a Torino. Pure e semplici intimidazioni in chiaro stile mafioso. Se il divenire-mafia del capitale contagia anche le questure quegli argini che dovrebbero essere prerogative del mondo della cultura non solo fanno acqua da più parti ma si presentano come un vero e proprio dissesto idrogeologico. Il mondo giornalistico, un tempo ambiente nobile e rispettato, è ormai sinonimo di corruzione e di degrado morale. Così negli articoli di cronaca coloro che provano a difendere il proprio lavoro e la propria dignità sono gli stessi che tirano cinghiate. Ognuno deve stare al proprio posto anche quando questo risulta inccettabile e degrada sia lo spirito sia il fisico. Cosa domandare agli operai dell’Ilva e ai cittadini di Taranto se non di accettare remissivamente il luogo che gli è stato disegnato attorno come volontà divina? E cosa riservare a coloro che provano ad uscire dal seminato? La risposta possiamo lasciarla a una grande firma del nostro giornalismo, Michele Serra, che dalla sua cattedra bofonchia l’equazione operai=ultras e la genealogia della Teppa del lavoro come descritto in questo utilissimo articolo.
“Nelle drammatiche pieghe della vicenda Ilva, mi ha colpito come un nefasto presagio il dettaglio colto da Corrado Zunino nella sua cronaca romana di ieri. Descrivendo gli operai dell’Ilva di Cornigliano davanti al Parlamento,[…] Zunino attribuisce a molti di loro “una gestualità da ultras di gradinata”. Confermata dalle sciarpe e dagli slogan (Genoa e Samp) mutuati pari pari dai cori da stadio, dalle molte birre consumate e dalla propensione alla rissa, poi puntualmente avvenuta. Tutto cambia, ma che una delegazione di metalmeccanici possa offrire un colpo d’occhio da hooligans fa veramente pensare al peggio. Fa pensare al passaggio – epocale – dall’organizzazione di classe al vuoto identitario più colmabile. Un vuoto politico, e va bene; ma anche l’azzeramento definitivo di una storia e (di conseguenza) di un futuro. È annosa la paura che l’operaio, in tempi di crisi nera, possa trasformarsi in brigatista. Ora la paura è che si trasformi in ultras: tanto incazzato quanto impotente. Dalla fabbrica alla curva, il crollo è totale.”
Non c’è spazio per la società reale all’interno del discorso pubblico. Tutto ciò che parte del0 “basso” va disciplinato, diviso, depotenziato e confinato nella residualità e questo vale tanto per le questure quanto per giornali e sindacati. Di giustizia ci occupiamo giusto per i Sallusti o per assassini quali i due marò non certo per la teppaglia del volgo, quella che ogni giorno sfruttiamo e impoveriamo sempre più per la pochezza della nostra società borghese.
Posted on 21 dicembre 2012
0