
Atene 6 luglio 2015.
L’Oxi, il no al referendum per l’approvazione del piano proposto Bce, Fondo Monetario Internazionale e Commissione europea si è appena imposto di gran carriera. Un netto 61% dei voti. Nemmeno il tempo di festeggiare che qualcosa non quadra. Varoufakis il Ministro più in vista del governo Syriza nonché titolare delle finanze greche lascia l’incarico. Qualcosa non quadra. Per ridurre all’osso la questione: l’istituto democratico è incompatibile col neoliberismo portato avanti dall’Unione Europea. Dopo quel giorno la catastrofe greca potrà riprendere tranquillamente il proprio corso, come se nulla fosse successo, con l’aggravante del tradimento del governo di Syriza.
Ad un mese dal referendum (sempre che si faccia dato che con le rassicurazioni del premier c’è poco da star sereni) l’esperienza greca andrebbe tenuta d’occhio come un faro nella notte. Non è più sufficiente ridurre tutto all’urna. Ad un confronto di idee. Ad un No espresso giusto su una scheda. Vogliamo forse ricordare la facilità con la quale l’ultimo referendum sull’acqua pubblica è stato disatteso? A ben guardare una battaglia seria per il No non può essere fatta se non con la consapevolezza che non sono tanto gli articoli che questo disegno di riforma costituzionale si appresta a modificare quelli che contano, quanto piuttosto ciò che già oggi risulta cambiato, sul piano dei rapporti materiali, rispetto al compromesso costituzionale del ’48.
Battersi per una difesa tout court della Costituzione vigente quando è la costituzione materiale del Paese ad essersi già trasformata notevolmente sarebbe tanto un insulto all’esperienza recente quanto una fuga dalla realtà. Jobs Act, Buona Scuola, Piano Casa, Sblocca Italia sono tutti esempi pronti a mostrarci quanto, già da oggi, questa Costituzione non sia più in grado di difenderci. La sua manomissione anche formale altro non sarebbe se non la costituzionalizzazione di tendenze già in atto. (Qualche parola nel merito della riforma qua.)
In fin dei conti in questo mese abbiamo potuto osservare quanto siano scarsi, nel concreto, gli argomenti a favore del sì. Difficile trovare argomentazioni razionali basate su affermazioni riscontrabili che non si riaggancino nell’immediato ad un generico voler cambiare – bisogna cambiare come se il cambiamento fosse un valore in sé per sé a prescindere dalla direzione che si intraprende. Se cambiamento equivale a Jobs Act, Buona Scuola e Piano Casa allora siamo proprio nella direzione sbagliata. Se cambiamento significa maggiore precarietà, pagamenti in voucher o stipendi da 400 euro al mese per i giovani mentre i vecchi vedono progressivamente allontanarsi l’età pensionabile e devono domandare un prestito agli istituti di credito per poter abbandonare prima il lavoro allora non siamo solo nella direzione sbagliata ma proprio nel pantano tipico di chi è fuori strada. Accanto all’argomento principe del cambiamento abbiamo visto in azione un altro tipo di “analisi”, più emotiva, una sorta di “richiamo all’ordine” facente leva sulla paura. E’ il caso del ricorso ai concetti di “stabilità” e “governabilità” quasi come che questi fossero sinonimi di benessere generale e non facce senza volto il cui prezzo è sempre pagato da qualcun’altro, sulle spalle di qualcun’altro.
Difficile trovare altre ragioni al di fuori di queste da parte di chi propone la riforma costituzionale e ne sostiene una sua ipotetica positività. Al contrario la sua opposizione è , in tutto e per tutto, un opposizione alla catastrofe neoliberale che si è abbattuta sul continente e che di giorno in giorno vede disvelate le sue false promesse. Austerità accompagnata da disinvestimenti programmati per giustificare le ennesime privatizzazioni, formuline nuove espresse in inglese che nascondono un mero sfruttamento da secolo scorso, impoverimento sociale generalizzato da una parte e opere tanto inutili quanto costose imposte manu militari sulle popolazioni dall’altra sono condizioni comuni sotto la sfera dell’Europa neoliberale.
“Per ricercare le radici profonde di questo disegno, bisogna varcare gli angusti confini nazionali, e osservare come sia stata la stessa governance europea ad aver subito, in particolare dal 2011, una torsione autoritaria che ha impresso una modifica profonda alle costituzioni dei singoli ordinamenti nazionali (i «governi del Presidente» in Italia, letti in questa luce, sono governi commissariali).” (Qua)
Ad esempio, mentre dalla nostre parti ci si appresta ad intraprendere la strada che percorre l’ultimo mese utile prima del referendum, in Spagna in 150 mila gridavano No al nuovo governo Rajoy che nessuno ha votato e che andrà ad instaurarsi solo grazie all’astensione dei socialisti del PSOE. Un governo semi-commissariale sul quale le ombre che circolano risuonano anche a livelli istituzionali. (vedasi le pesanti accuse di pressioni e ingerenze lanciate da Pedro Sánchez verso gruppi imprenditoriali, editoriali e banche iberiche.)

29-10-2016
Quanto c’è di “nostro”,di comune nel No gridato al nuovo governo nelle piazze spagnole? Come possiamo non considerare questo referendum slegato da ciò che accade in Spagna, in Grecia, dal prolungamento dell’État d’urgence in Francia o dal problema di democrazia che pian piano comincia ad emergere in maniera evidente.
“Del resto, se guardiamo al “ciclo Occupy” del 2011 o alle più recenti lotte francesi contro la Loi travail, il problema che si è posto è stato anche quello del superamento dei regimi costituzionali esistenti, a favore dell’invenzione di nuovi istituti democratici e del welfare. Se nel caso spagnolo l’irruzione del 15M ha rotto la continuità politica del bipartitismo, in Francia, nei grandi scioperi e nelle occupazioni delle piazze, è stato posto all’ordine del giorno il tema del blocco democratico costituito dal regime presidenziale della V Repubblica, per di più complicato dal prolungato État d’urgence. Al di là dei pesanti limiti che queste lotte hanno incontrato – limiti per lo più riconducibili alla loro base spaziale, i singoli Stati nazionali –, ciò che ci interessa è la tensione costituente che le ha accompagnate.” (Qua) Pensare di affrontare il problema democrazia, la sua mancanza, esclusivamente con lo strumento del voto sarebbe qualcosa di paradossale. Occorre organizzarsi.
“Il potere ha avuto bisogno di un tipo diverso di suddito, che fosse prima di tutto un consumatore.”
Pier Paolo Pasolini.
Entrati ormai nell’ottavo anno consecutivo di crisi economica anche le premesse per quel nuovo tipo di suddito iniziano a vacillare e i suoi effetti arrivano ovunque. Anche in una cittadina dove il grasso non è mai mancato come Modena l’indigestione ad un determinato tipo di “sviluppo” comincia ad essere stridente.
“L’Emilia-Romagna di fine Novecento aveva lo stomaco stantuffato di salumi e un intestino crasso dove avevano luogo fenomeni putrefattivi. Le feci maleodoravano di conformismo, un tanfo pervasivo e rassicurante. La società era allineata, coperta, assuefatta al proprio modello di sviluppo: mattone, porcilaie e cooperative di un “rosso” da tempo dilavato, tendente al bianco sporco. La base elettorale della socialdemocrazia – che in Italia, per una serie di incidenti storici, si era chiamata “Partito comunista” – era composta sempre meno da operai e sempre più da ceti medi e medio-alti saliti sul carro ai tempi del boom, in sella alle vacche grasse. Una base spoliticizzata e codina che si dichiarava “di sinistra” per inezia o per finta, senza alcun rischio né ricaduta pratica. Se il Partito diceva che una “grande opera” era giusta – ed erano sempre giuste tutte – allora aveva ragione il Partito, anche se non era più quel Partito. “Partito”, poi, era una sineddoche, voleva dire blocco di potere. In soldoni, Legacoop e tutte le sue diramazioni e derivazioni finanziarie.” da “Un viaggio che non promettiamo breve” WM1
Gli interessi non combaciano. Sono opposti. Abbandonasi all’inerzia significherebbe mostrare il fianco a quella “governabilità” che tanto desiderano, a quella pace sociale che ha caratterizzato l’ultimo decennio, vale a dire quella lotta di classe esercitata d’alto verso il basso magistralmente descritta da Luciano Gallino. Non è più possibile permetterglielo. A Modena dunque proveremo ad organizzarci a partire da questo Sabato con un’assemblea che dia vita ad un No sociale come argine dal quale partire per invertire le tendenze in atto e sul quale gettare le basi per un vero cambiamento.
Qua di seguito il testo di lancio dell’assemblea.
Siamo nelle fasi conclusive del percorso che ci porta alla scadenza referendaria del 4 dicembre. Organizzare in città l’opposizione sociale al governo in carica è fondamentale, non solo in vista delle urne elettorali, ma anche per attivare una dinamica positiva in grado di esporre le istanze sociali di cui ci facciamo carico ed esplicitare la priorità dei bisogni di questa città. Le motivazioni di un no al referendum costituzionale proposto dal governo Renzi possono essere le più differenti. Dal lato pratico appare sempre più chiaro come la mobilitazione per il no travalichi la questione proposta dal referendum in sé, e, utilizzando lo stesso come catalizzatore di rinnovato protagonismo sociale, si pone l’obiettivo di costruire un’opposizione più generale ai meccanismi che, dai palazzi romani fino alle governance territoriali, sono portati avanti da PD e affini. Il 21 ottobre scorso a Modena ha rappresentato proprio questo grazie a studenti e lavoratori.
Pensiamo inoltre che sia necessario creare un percorso che veda protagonisti chi, sotterrato dalle difficoltà imposte da anni di devastazione sociale, non è più disposto a scendere a patti con padroni ed esecutori legalitari di questa città, ovvero questure e dirigenti pubblici e privati. Chi ha perso la casa e, nonostante occupazioni, sgomberi e promesse, non è più disposto ad accettare le briciole dell’amministrazione comunale. In questa città l’amministrazione PD è in grado di proporre unicamente la comunità per madri e figli minori a chi non un permettersi un affitto, condannando a precarietà e povertà a lungo periodo tutti i soggetti che sono stati esclusi dal sistema produttivo emiliano.
Chi al lavoro da sfruttato non ne vuole sapere di operare in condizioni disumane, e solo adesso inizia a riscoprire la forza che gli ultimi, se uniti, possono mettere in campo. Le lotte dei lavoratori dipendenti nel sistema delle cooperative emiliano iniziano ad assumere la forma di una breccia nel tessuto produttivo di questa città, interrompendolo e minando l’equilibrio sociale che anni di silenzio hanno garantito. Si parla infatti di lavoratori con disparate mansioni, ma che fanno genericamente riferimento a contratti che non rispettano la loro posizione, permettendo ai padroni di estrarre guadagno anche laddove le garanzie sociali di questa città lo impedivano. Buste paga false, straordinari non retribuiti, infortuni non pagati, e guai a chi, con il contratto logistico, si azzarda a denunciare un taglio procurato sul posto di lavoro in quanto macellaio, pena il licenziamento.Il caso della Trenkwalder sottolinea il castello di carta su cui si reggono le promesse di prosperità di questa città di provincia sbandierate da Muzzarelli&co, in questo caso a rimetterci una mensilità sono stati precari giovani e meno giovani diretti e somministrati dall’azienda.
Chi a scuola non sopporta più di assistere a tagli indiscriminati della spesa pubblica nell’istruzione, in nome della privatizzazione più sfrenata. Stiamo infatti assistendo al declassamento delle priorità per quanto concerne l’ambito dei saperi e di tutta la cultura giovanile.
A scuola, fra laboratori inesistenti ed edifici che crollano, obbligano ragazzi e ragazze allo sfruttamento da parte delle aziende grazie all’alternanza scuola-lavoro e alla Buona Scuola, in nome di una cultura del lavoro sottopagato e precario da inculcare per generare soldatini pronti ad una vita senza garanzie. Il contrario di questa vita coincide con l’avversione alla scuola azienda.
Nelle università, dove i privati hanno ormai vita facile e sono in grado di interferire con i programmi didattici e sponsorizzare la costruzione di nuovi edifici (come il nuovo edificio di via Campi), le tasse attanagliano gli studenti e rendono la selezione dei soggetti sempre più elitaria a chi non si trova in condizioni di precarietà familiare, una dinamica interrotta anni or sono e che adesso la fa da padrona.
A Modena il PD gestisce un giro di affari sconveniente a chi subisce le politiche di questa città e organizza la cosa pubblica attraverso amministrazioni che non vogliono ascoltare chi non sta più bene e grida al rispetto dei diritti e della dignità di tutti e tutte. La repressione impera su chi si mette in gioco, nel segno di una paura che attanaglia i pensieri degli amministratori cittadini barricati nelle loro stanze e nei loro uffici, ormai scollegati dalla reale situazione e noncuranti di essa. Riuscire a trovare unità di intenti nella direzione di costruire spazi che permettano un contrasto vero e propositivo al grigiore delle politiche di questa città è un obiettivo perseguibile in maniera unitaria dalle componenti sociali conflittuali modenesi.
La prova del 21 ottobre ha aperto spazi di agibilità su cui bisogna fare leva per le finalità sopra sviluppate, ritrovarsi insieme in assemblea in questo momento è obbligatorio per chi ancora vuole cambiare veramente lo stato di cose presenti.
Posted on 3 novembre 2016
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