
Lunedì 24 ottobre iniziava lo sgombero della giungla (appellativo osceno) di Calais ad opera della Sogea, società che fa parte del gruppo Vinci (lo stesso dell’aeroporto che vorrebbero costruire a Notre-Dame-des-Landes). Dell’operazione, spacciata come umanitaria, si è visto giusto il fuoco appiccato alla abitazioni. Poco altro è stato raccontato se non che tutto si è svolto nel verso giusto, dunque migranti deportati nei vari CAO (centri d’accoglienza) sparsi nel Paese, reclusione nei CRA (centri di detenzione) per tutti coloro ( circa 90) che non hanno abbandonato “volontariamente” il campo o arresti nei confronti di minori che si erano rifiutati di indossare il braccialetto identificativo rilasciato dalle autorità (ricordate la stella di Davide da portare sulla spalla sinistra?).
Ora cominceranno i rastrellamenti con controlli e arresti su base razziale. Nulla di nuovo sotto il cielo di questa Europa e pure noi in Italia abbiamo i nostri begli esempi basta ricordare questo o quest’altro.
Non è tuttavia dello sgombero vero e proprio che tratta il racconto qua proposto e preso da Taranis news, quanto il racconto di ciò che è successo a chi quello sgombero avrebbe dovuto raccontarlo. Un meta-servizio che narra molto di più dell’episodio che vorrebbe circoscrivere. Un testo che riusce a tracciare i contorni di un’epoca e di un ambiente europeo in via di progressiva e inesorabile “erdoganizzazione” ponendo anche qualche interrogativo sul cosa significhi il tentare di fare informazione al giorno d’oggi.
Sono le 9.35 di Mercoledì 26 ottobre 2016 e la giungla di Calais ha bruciato per tutta la notte. Davanti alla porta del capannone dove si svolgono le operazioni di smistamento dei migranti per tutti i CAO (centri d’accoglienza) di Francia, filmo l’entrata di uno dei primi gruppi della giornata. Aspettano qui in fila, nella fredda nebbia di una mattinata ai bordi della Manica. Fanno cinque gradi. Io sono arrivato la notte stessa nella zona di Calais e ho fato direttamente la mappa della jungla. Non ho ancora avuto il tempo di fare delle interviste.
Giungla di Calais: Mercoledì 26 ottobre all’alba
Mi avvicino verso l’ingresso del capannone per la seconda volta da quando sono arrivato e questa volta è aperto. C’è un enorme concentrazione di CRS e un’armata di Gendarmes dall’altra parte della strada. Sono i “Gendarmes Mobiles” che controllano l’entrata e la fila, polizia e CRS si accontentano di restare dietro. Ma è un poliziotto che comanda l’intera operazione, e lo riconosco facilmente perché è un comandante che ho incrociato più volte in altre manifestazioni. Mi riconosce anche lui. Capisco leggendo nei suoi occhi di non piacergli molto. Si gira, lo fa capire a uno dei comandanti della Gendarmerie Mobile che è accanto a lui e questo si mette subito a guardarmi nello stesso modo. Fingo di non prestarci attenzione e continuo a fare piani per l’ingresso dei migranti all’interno dell’hangar (anche se il mio istinto mi urla di fuggire velocemente). Pochi secondi dopo vengo afferrato da dodici gendarmes mobiles in tenuta antisommossa. Sì, dodici, li ho contati. Sento “lo cinturiamo, vai, vai”, “lo circondiamo. Venite monsieur, avanziamo”. Resto tranquillo e lascio fare. La situazione è ridicola. Provo a rassicurarli perché hanno l’aria nervosa: “Ok messieurs vi seguo, guardate, tranquilli, non c’è bisogno di tenermi”. I migranti sembrano sbalorditi ma i membri delle associazioni distolgono lo sguardo, e gli altri giornalisti le loro camere. Nonostante la numerosa presenza di camere e di fotografi intorno a me, non c’è alcuna immagine del mio arresto. Se mi sono fatto fermare dalla polizia, devo essere per forza un gran delinquente!
Mi fanno entrare nel perimetro del capannone e mettere contro il muro sul lato destro, ben al riparo dalla folla. E lì diventa meno divertente. Vedo una pagina A4 con la mia foto stampata sopra nella mano di un poliziotto in borghese. Mi mette le mani contro il muro e mi ammanetta. “Lei è accreditato? Non ha rubato niente?” Vengo spostato ammanettato a 500 metri di distanza da tre poliziotti che mi trasferiscono su un bus adibito a “commissariato mobile”.
Mi elencano i miei diritti poi mi mostrano subito il decreto che mi interdice dalla zona di Calais firmato dal Prefetto. Peccato che non avessi mai sentito parlare di questo documento precedentemente e che nessuno me l’avesse notificato prima, cosa che faccio notare. Preciso anche che avevo fatto 3 domande di accreditamento alla Prefettura, seguendo la procedura. A queste non è seguita alcuna risposta (dunque nemmeno negativa e men che meno un interdizione), inoltre le prove che avessero sicuramente ricevuto le mie mail risiedono nel fatto che da quel momento non hanno più smesso di mandarmi i loro comunicati stampa sullo stato di avanzamento delle operazioni… Dunque il titolo del mio arresto in Garde à Vue diventa: “presenza illegale in una zona protetta dallo Stato di emergenza e furto di attrezzature appartenenti al Ministero degli Interni.”
Poi sento “Bonjour monsieur le Procureur de la République ” nella stanza accanto, e vedo diversi agenti di polizia che si irrigidiscono come per richiamare l’attenzione. Il procuratore entra nella stanza e mi lancia uno sguardo nero, fa un piccolo tour, mi riguarda di nuovo e se ne va. Stessa scena nell’altro senso “Au revoir Monsieur le Procureur de la République”. E lì comprendo che sono nella merda. Sono arrabbiati.
Il reportage girato il 1 ottobre. Si vede il walkie-tolkie al minuto 25 e 25 secondi.
Ho il diritto di vedere un medico in una camionetta a parte. Si tratta di un veicolo che ha i vetri semi-oscurati fino a metà del finestrino. I poliziotti sono sull’altro lato e siccome mi trovo in altezza rispetto a loro, possono osservare tutto. Il medico apre la porta per parlare ai poliziotti 20 secondi, ne approfitto per afferrare discretamente il mio telefono. Non ero tranquillo perché era ancora acceso e avrei preferito spegnerlo per attivare un criptaggio maggiore, ma capisco che ho giusto il tempo di twittare che sono in Garde à Vue. Se non lo faccio subito mi domando se qualcuno saprà mai qualcosa prima della mia uscita. Un poliziotto mi vede e si avvicina subito “spenga il telefono monsieur!” Gli rispondo che è quello che stavo facendo e mentre guarda lo schermo il mio dito sta già scivolando sul pulsante “spegni”. Credo non abbia captato o che abbia pensato che non ho avuto il tempo di fare nulla. Uno a zero, palla al centro.
Ritorno nel bus del “commissariato mobile”. Blablabla Stato di Emergenza, blablabla Garde à Vue rinnovabile, blablabla schifoso noborder che rubi i walkie tolkie della polizia. I tre agenti però rimangono in uno stato di correttezza nel senso che non sono stati aggressivi, minacciosi o violenti. Mi tolgono le manette dieci secondi solo per farmi firmare un documento. Poi via verso il commissariato di Calais. Alla massima velocità in un furgone fatiscente e con un autista pazzo che corre dalla giungla di Calais al centro città. Sbalzo sul sedile per schiacciarmi contro lo sbirro che sta accanto all’autista, il tutto ammanettato. Lo sbirro rimane stoicamente impassibile come se avesse l’aria di uno abituato a subire la guida del collega. Sono in un film. In quel momento penso a Renaud che canta “Ho baciato un poliziotto” e voglio farle la battuta “Io ho schiacciato un poliziotto.”
Arrivo al commissariato di Calais. Mattoni rossi e un edificio che sembra una vecchia scuola con il suo “Groupement Opérationnel” dei CRS scolorito. Tolte le manette, vengo interrogato per la prima volta sulla mia identità. I due dell’interrogatorio scopro che continueranno il gioco della domanda /risposta per le prossime 30 ore. Il primo giorno sarà un giovane ufficiale molto concentrato che osserverà tutta la scena. Infine c’è un poliziotto, in fondo, sormontato da un poster della terza stagione di Braquo che rimarrà alla scrivania per tutta la mia custodia.
Bisogna dirlo francamente così come occorre dirlo quando si verificano violenze poliziesche. Durante tutta la mia custodia i due investigatori hanno fatto tutto ciò che gli è stato chiesto di fare (un situazione sgradevole da vivere quando si è sotto accusa) ma non ho nulla da rimproverargli circa il loro operato. Sono rimasti educati, cordiali e, anche se può sembrare bizzarro dire questo di un poliziotto: repubblicani. Non ho dichiarato nulla e in un primo momento ero anche un po’ intimorito (perché ho aspettato cinque ore prima di vedere un avvocato), ho rifiutato il test del DNA e ho rifiutato di mangiare… Ho avuto la possibilità di fumare 2×2 sigarette in 30 h nella corte del commissariato, e ho ottenuto dell’acqua nel momento stesso in cui ho fatto presente che in cella non me l’avevano fornita. Sono stati rigorosi e cordiali.
Anche se l’inizio non è stato facile. Appena arrivato sento che c’è un piccolo problema con la procedura. Uno dei due agenti parte per telefonare. Quando torna si siede alla scrivania e con aria seccata dice: “c’è un problema di testo nella scheda della vostra Garde à Vue, bisogna rimediare….” e fa un po’ di silenzio. Sul momento mi dico: “Woh cazzo miracolo, ora esco!” appena prima di sentire che aggiunge: “per fare una nuova scheda di Garde à Vue ora.” Cerco di capire a cosa possa riferirsi quel “problema di testo” e ci vuole un po’ di insistenza prima di capire che quel titolo: “Presenza illegale in una zona protetta dallo Stato d’Emergenza” non è del tutto corretto come motivo di detenzione in Garde à Vue. La seconda custodia sarà motivata unicamente per “furto semplice”. Mi viene spiegato dunque che la Garde à Vue può essere rinnovata (e lo sarà) e che dovrò scendere in cella per aspettare l’arrivo dell’avocato.
Il carceriere è meno divertente dei due dell’interrogatorio e assai più binario “Dunque è un giornalista? Leggo furto semplice. È che strano, non le pare? “. Allora gli faccio la domanda: “Ha visto la foto del dimostrante che punta il suo fucile da caccia sulla folla di migranti lo scorso gennaio?” risponde immediatamente “Oh sì! L’altro Gaël Rougemont? Tutto il commissariato ha visto quel video!”
Confesso il piacere del momento. Insisto: “E quello del generale Piquemal che si fa arrestare alla manifestazione di Pegida in febbraio?”, e lì capisce. Guarda il giovane poliziotto che mi stava scortando dall’ufficio e gli chiede: “Sta andando tutto bene con il monsieur?” Questo un po’ visibilmente sorpreso dalla domanda gli risponde: “Sì, tutto bene.” Ho il privilegio di poter beneficiare di una delle due celle moderne in cemento e plexiglass con la video-sorveglianza inclusa. Dunque non una delle altre cinque celle/segrete da Medioevo dotate di turche che riversano tutti gli aromi della fogna, che si trovano nel corridoio accanto e visibilmente riservate ai migranti in attesa di essere consegnati alla Polizia di frontiera.
I segni lasciati sul cemento sono molti “KEVIN 24H”, “48H FORTE! “” JENY JE T’M “, “MORGAN!” e la data più antica è del 2007. In una delle celle vuote nel sotterraneo dove ho avuto la possibilità di fare la pipì, scopro un bellissimo (veramente) affresco di una testa di unicorno disegnato con le dita e la salsa dei ravioli. Ricopre la metà del muro e chiaramente il ragazzo che l’ha fatto doveva essere un pittore. L’opera si era seccata da molto tempo ed allora mi sono chiesto se per caso fosse stato a causa del lavaggio esclusivo del pavimento delle celle o se a qualche poliziotto piacesse veramente. Chiedendo ai carcerieri dell’unicorno scopro che la maggior parte di loro non l’aveva nemmeno notato. Così finisco le mie investigazioni su quel disegno (si occupa il tempo come si può). Conto 4×8 viti sul vetro e leggo sull’etichetta del materasso che è composto di “poliuretano specialmente ignifugo” ed ha un nome tipo “Alcatraz 40”. Come già detto, tutto questo fa abbastanza schifo.
Verso le 15 incontro per la prima volta il mio avvocato. Si chiama Vincent Fillola. Mi da l’impressione di essere uno che conosce piuttosto bene il suo mestiere ma soprattutto mi concede un elemento psicologico importantissimo a quel momento della detenzione: il tweet è partito. Ora da qualche parte nella mia testa so che avranno delle pressioni di qualche tipo dall’esterno perché io esca. L’avvocato mi spiega che non parlare può significare il rinnovo della Garde à Vue. E lì capisco per la prima volta che tutto ciò andrà ben più lontano e sarà e ben più grosso di quest’ultima Garde à Vue arbitraria. Le decisioni che prenderò d’ora in poi potranno avere un impatto significativo nei mesi a venire. Ma non sono solo io ad essere attaccato semplicemente, è il giornalismo in sé, i suoi valori, la sua storia. Allora occorre marcare il terreno non solo per cercare di uscire. Occorre fare blocco senza essere sgradevoli ma con la testa alta. Alla prima udienza il tono sarà piuttosto formale tra gli accusatori e l’avvocato.
Non ho nulla da dichiarare. Gradirei non rispondere alla domanda. Non ho nulla da dichiarare. Preferirei non rispondere alla domanda. Va tutto piuttosto veloce poi si ritorna in cella. Già mi immagino di non fare un cazzo per le prossime dodici ore quando, di colpo giunge, come un fulmine, una denuncia direttamente da Rennes! Sono accusato di avere, in data 2 giugno 2016, “tramite mezzo di comunicazione audiovisiva, nella fattispecie il social Facebook” insultato pubblicamente 12 funzionari di polizia XXX, detentori di pubblica autorità, equiparando questi ultimi al braccio armato del nazismo e nello specifico, diffondendo una loro fotografia con un commento in tedesco come dicitura “Ein Volk, Ein Reich, Fine Führer” (traduzione: un popolo, una nazione, una guida), slogan del partito nazista. “.
Questa volta all’udienza rispondo . Spiego che quel tipo di slogan è principalmente elettorale e che permise ad Adolf Hitler di venire eletto democraticamente nel 1933, il ché non ha lo stesso significato comparativo e storico di un semplice epiteto come “banda nazista”. Dopodiché che i poliziotti non beneficiano di un diritto all’immagine particolare nello spazio pubblico, ed infine ricordo che esiste una roba tipo la libertà d’espressione e che riviste come Charlie Hebdo, tanto per citarne uno, fanno di molto peggio. Cercano di farmi dire che io sarei l’autore di una foto di una manifestazione quando l’immagine è un rielaborato screenshot di un mio reportage video…. In breve una denuncia delirante. In ogni caso, qualche ora più tardi ricevo la convocazione per il processo che si terrà 16 gennaio 2017 alle 14 presso il Tribunal de Grande Instance di Rennes. Dovrò rileggere i miei corsi di storia sul nazismo e difendere la libertà d’espressione davanti ad un giudice e a dodici poliziotti di Rennes…
Il reportage girato a Rennes il 2 giugno. I poliziotti si vedono dal 1 minuto e 40 secondi.
Tutte le celle di custodia hanno esattamente lo stesso odore: un mélange di profumo d’urina, sporco e di ravioli in scatola riscaldati al microonde. Passo una notte lunga e fredda. Non credo per un secondo alla detenzione provvisoria dopo la mia Garde à Vue, sarebbe enormemente troppo. Comincio dunque la giornata con un nuovo interrogatorio senza avvocato, non dicendo altro che “Non ho nulla da dichiarare”.
Torno in cella dopodiché incontro il mio secondo avvocato, Boris Rosenthal. Entra nel caso abbastanza facilmente perché consce la situazione a Calais. Indossa un distintivo di “Avvocati senza frontiere” un’associazione costretta ad abbandonare la giungla di Calais (assieme a Human Rights Watch) semplicemente perché voleva osservare lo svolgimento delle operazioni, in particolare la situazione dei minori non accompagnati. Assieme prepariamo la comparizione davanti al pubblico ministero ed al giudice delle libertà che dovrebbe essere nel pomeriggio, nel tribunale di Boulogne-sur-Mer.
Prima di lasciare la stazione di polizia di Calais però arriva un’altra dura sorpresa. Non avevo più sentito parlare di arresto per interdizione dal territorio che mi avevano mostrato per tre secondi, il giorno prima nel bus adibito a “commissariato mobile”, sul quale gli interrogatori della polizia di Calais mi dicevano di non sapere nulla. Anzi ci scherzavano pure sopra: “Ah sì certo un arresto nominativo firmato dal prefetto. Credi di essere Jacques Mesrine? ” Siccome avevano rimosso dall’oggetto “Presenza illegale in una zona protetta dallo Stato d’Emergenza” a causa di un cosidetto “problema di testo” nella mia prima detenzione in Garde à Vue dicendomi che era solo un pretesto per il mio arresto credevo fosse così. Invece no, l’ordine di arresto è arrivato comunque in commissariato e bisogna che io firmi la notifica prima di andare in Tribiunale. Direzione Boulogne-sur-Mer.
A partire da quel momento il mio avvocato sarà assistito da Calvin Job. Ho la possibilità di conferire con loro prima di comparire davanti al giudice e questa è la prima volta in cui hanno accesso al mio dossier. Tra le altre cose, scoprono qualcosa che ghiaccia il sangue nelle vene. C’è un PV (processo verbale) fornito da un “anonimo” che dichiara che io sono membro e militante di un movimento di estrema sinistra. Un documento leggermente più elaborato di circa una pagina, una versione edulcorata di “movimento anarco-autonomo di ultra-sinistra”, 2016 edition. Uh cos’è tutto questo esattamente? E’ sufficiente scrivere che io non sono un giornalista bensì un attivista d’estrema sinistra e puff! come per magia e per lo Stato d’emergenza una testimonianza anonima diventa la verità?
Il fatto di essere in un ufficio con madame la Procureur de la République assieme a due avvocati dona una certa impressione di solennità. E’ una persona meno autoritaria di come me la raffiguravo quella che andrà a decidere della vostra sorte. Dopodiché è il turno del giudice delle libertà e della detenzione. E’ una signora vestita da alta moda con un gioiello d’oro “fiore di quercia” sul colletto della giacca. Sembrava all’altezza della sua funzione nel modo in cui parlava e emanava una certa autorità rafforzata dall’età. Rappresentava bene “l’autorita dello Stato”. Autorità con la quale spiega subito all’avvocato di chiudere la bocca, che non c’è delibera e che la decisione è già stata presa: interdizione da Nord-Pas-de-Calais e controllo giudiziario con presenza nel commissariato di Strasburgo una volta la settimana.
Nonostante avessi presentato tutte le garanzie, dimostrato che ero incensurato (la mia unica condanna rissale a quando ero un minore e oggi ho 29 anni), dimostrato che il Dipartimento di Polizia poteva contattarmi perfettamente al telefono o per mail, non è cambiato nulla. Se la polizia possiede il mio numero di telefono e il mio indirizzo poteva tranquillamente convocarmi, senza catturarmi in pieno reportage…. A meno ché questa non sia la vera ragione della mia messa in Guarde à Vue? Che male lingue!
Proibire ad un giornalista di accedere ad un luogo, che indaga da tre anni, con il pretesto di una legge anti-terrorismo e di un “anonimo” che ti accusa di essere un attivista, credo sia già, senza esagerare, la frontiera che ci separa dal fascismo. Obbligarmi a presenziare tutti i sabati al commissariato di Strasburgo significa distruggere la mia attività professionale. Bisogna capire che per lavoro mi muovo continuamente, ho già fatto decine di migliaia di kilometri da inizio anno, andata e ritorno tra Rennes, Nantes, Parigi, Lille, Calais e sono rimasto a Strasburgo solamente un mese circa di tutto il tempo accumulato durante l’anno. Obbligarmi a fare 1600 km o 1.800 km (se sono a Rennes o Nantes per esempio) ogni settimana e solo per presenziare alla stazione di polizia di Strasburgo, mi stritolerà economicamente. Significa perdere due giorni alla settimana in trasporti e non poter essere presente per coprire un evento al Sabato. In sostanza è la morte della mia attività professionale nel breve termine ed è una semi-assegnazione vera e propria nei dintorni di Strasburgo. Ho anche cercato di convincere il giudice di presenziare una volta alla settimana in qualunque commissariato del Paese, in base ai miei spostamenti. Ma è stato subito no.
Per una semplice accusa di “furto semplice” senza precedenti penali e tutte le garanzie, vengo sottoposto ad un controllo giurisdizionale in grado di mettere a rischio il mio lavoro e pregiudicare quello dei miei collaboratori.
Farò appello a questa decisione e posso già dire che mi batterò contro queste misure liberticide. E’ la mia libertà di cittadino che viene attaccata, è tutto ciò che ho costruito nei cinque anni precedenti a venire gettato via per ragioni politiche, utilizzando mezzi legali per poi sedersi sui valori costitutivi della nostra democrazia. Trecento anni di storia di Francia e delle sua Rivoluzione hanno forgiato testi come la Costituzione o il Codice civile che erano gli stessi appoggiati sulla scrivania che mi separava dal giudice delle libertà e della detenzione, cose che non valgono per un fascismo che ha avuto giusto mezzo secolo di tragica esperienza. L’avevo già detto un po’ di tempo addietro in un editoriale che faceva da seguito alla mia prima granata di “disaccerchiamento” o altri impatti col famigerato LBD40: la Polizia mi ha strappato un occhio col flashball ma mi rimane sempre l’altro per filmare. Il messaggio deve essere chiaro: non abbandonerò le mie convinzioni e se fare il giornalista deve diventare come un combattimento in questo Paese, allora metterò il fiore al mio fucile e con un’armata di “compagni giornalisti” fischietterò canzoni partigiane
No ma guardatevi attorno…. siate seri? I canali d’informazione continua? Hanouna? Morandini? Tutta gente che non ha nulla da dire? La diversità dei titoli della stampa francese soverchiata da un trust d’investitori che si contano sulle dita di una mano, per un intero Paese? Credete veramente che possiamo avere la sensazione di sbagliare in ciò che facciamo? Che avremo paura ad essere intimiditi? Più ci si attrezza per farci tacere più questo legittima il nostro lavoro. Questo accade da anni e si chiama effetto Streisand. Ci potrete imprigionare, umiliare, ferire, calunniare, ma continueremo a produrre contenuti d’informazione, perché la gente ha BISOGNO di sapere per chi votare, di sapere cosa sta succedendo o cosa c’è di sbagliato o che non funzione, se il governo sta facendo o no il suo lavoro, nella pratica e sul campo. Il giornalismo è più che un diritto, è un potere. E un potere, si difende. Possiede la légitimité républicaine di difendersi e può essere molto pungente quando arrabbiato.
“Se si attacca un poliziotto si attacca tutta la professione” abbiamo sentito dire nelle manifestazioni della Polizia la scorsa settimana a Parigi. Bene, se si attacca un giornalista è la stessa cosa. Nonostante le privazioni senza giustificazione dello Stato d’emergenza (che non è diventato nient’altro che uno stato d’eccezione permanente) e delle leggi anti-terrorismo utilizzate attualmente contro la stampa: non potrete farci tacere e non potrete impedirci di mostrare la verità dei fatti. Se questa verità è differente da quella dei vostri comunicati stampa, non cercate di schiacciarci perché lo dimostriamo, dobbiamo allenarci a dire la verità ai francesi. Perché è questo che significa democrazia.
Accettare di essersi sbagliati, accettare di avere torto. Anche dimettersi alle volte. Sapere riconoscere i propri errori quando si è fallito nel difendere gli interessi del popolo. Voi potrete condannarmi a tacere o impedirmi di utilizzare la mia camera, ma non potrete impedire che altri centinaia prendano il mio posto.
Perché il popolo sa ancora difendere i suoi diritti quando vengono calpestati. E ciò che ho appena detto non indossa nulla di estrema sinistra, è semplicemente un qualcosa della nostra storia comune.
Per la Francia…
Gaspard Glanz
BILANCIO:
– Procès pour « Injure publique sur douze fonctionnaires de police » le 16 Janvier 2017 au TGI de Rennes
– Procès pour avoir« Soustrait frauduleusement un émetteur récepteur radio modèle TETRAPOL THP 900 appartenant au ministère de l’intérieur » le 2 mars 2017 à tribunal de Boulogne-sur-Mer
– Arrêté préfectoral d’interdiction de séjour sur le territoire de l’arrondissement de Calais « jusqu’à la fin de l’état d’urgence »
– Placement sous contrôle judiciaire avec instruction de ne pas se rendre dans le Pas-de-Calais, et de se présenter tous les samedi au commissariat de Strasbourg.
Posted on 30 ottobre 2016
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