
“Un mondo dove la merda è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse”
Milan Kundera
La nota definizione del Kitsch di Milan Kundera sembra calzare perfettamente anche alla nostra città: Modena.
Ci sono un Prefetto, un Questore, un politico, nonché celebre senatore modenese del centro destra e un funzionario della Dogana. Quello che sembra l’inizio di una barzelletta di basso livello è in realtà ciò che è emerso dalle nuove rivelazioni frutto dell’indagine condotta dal nucleo operativo dei Carabinieri all’interno di quel processo per associazione mafiosa, usura ed estorsione conosciuto come processo Aemilia.
La polveriera esplosa nel gennaio 2015 che investì buona parte della politica, dell’imprenditoria e della buona società emiliana rivelando rapporti tra le Istituzioni e la N’drangheta cutreese non smette di fornire nuovi e sorprendenti elementi, con buona pace di chi del “modello Emilia” continua a fare vanto italiano.
Si ricorderanno, a tal proposito e sulla falsariga di quanto successe a L’Aquila, le intercettazioni in cui appartenenti alla cosca dei Grande Alacri si spalleggiavano ridacchiando per il business offerto loro dal sisma del 2012 che colpì l’Emilia. (Qua e qua)
Da allora numerosi provvedimenti, 117 richieste di custodia cautelari e 220 rinvii a giudizio, e una seconda tranche processuale apertasi nel gennaio 2016, rivelarono non solo il giro di affari milionario ma, soprattutto il saldo legame instauratosi tra istituzioni e mafia sul territorio.
Rapporti così saldi da portare nel taccuino degli inquirenti, nel merito di incarichi affidati al dirigente comunale per l’urbanistica Maria Sergio nata a Cutro (moglie dell’attuale sindaco di Reggio Emilia) e in relazione con la cosca, il nome dell’allora sindaco di Reggio Emilia, nonché attuale Ministro per le Infrastrutture e i Trasporti Graziano Delrio, giunto sino al paese calabrese nel vivo della campagna elettorale del 2009.
Le ultime rivelazioni, però, hanno un sapore nuovo e di più interessante lettura. Durante le perquisizioni compiute nel gennaio 2015 vennero ritrovati su un Pc di appartenenza di Alessandro Bianchini 23 video ripresi dallo stesso. Costui è il figlio di Augusto Bianchini, noto imprenditore modenese, a cui la Procura contestò nel primo processo il reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, in riferimento ai lavori post sisma, in particolare allo smaltimento delle macerie (amianto). Bianchini avrebbe infatti favorito gli appartenenti al clan, conferendo lavori a Michele Bolognino, presente personalmente nei cantieri finalesi.
A seguito dell’interdizione prefettizia e dell’esclusione dalla “white list”, l’azienda venne portata al concordato liquidatorio.
Ciò non fermò l’iniziativa imprenditoriale del figlio Alessandro che aprì la IOS Bianchini azienda specializzata nella costruzione, riparazione e demolizione di edifici: formalmente azienda indipendente dal padre ma che grazie ai video sopracitati siamo ora in grado di collocare all’interno di un quadro ben preciso.
Secondo la ricostruzione (qua) dietro la IOS si celerebbe un tentativo di aggirare le normative esistenti, col fine di dare continuità all’iniziativa imprenditoriale del padre. Nel frattempo spinte istituzionali tentavano di far legalizzare, questo ‘clone’ che già stava subendo le prime pressioni da parte della procura, tramite funzionari prefettizi e di dogana che prelevavano documenti riservati dalla cassaforte della prefettura per consegnarle direttamente in mano al Bianchini, in un luogo appartato di piazza Roma. Si arrivava persino a mettere in guarda l’imprenditore prima che arrivassero i controlli della Guardia Di Finanza, specificando l’importanza di non farsi trovare impreparati o in presenza del padre Augusto.
Ciò che emerge da questo nuovo filone d’inchiesta coinvolge direttamente alti gradi istituzionali modenesi: dal Prefetto Michele Di Bari (lo stesso che permise a Forza Nuova di scendere in piazza Redecocca a gennaio 2016), al vice prefetto Ventura fino al “buon samaritano” Carlo Giovanardi.
Chi si è speso di più per la causa di Bianchini, scrive L’Espersso, è stato il senatore Carlo Giovanardi, componente, tra l’altro della Commissione antimafia. Il ruolo dell’ex ministro del governo Berlusconi è descritto nei dettagli, come scoperto da “l’Espresso”, in un recente rapporto dell’Arma. Giovanardi è definito «il fautore di una inspiegata azione politico-istituzionale», che «ha certamente contribuito a inasprire gli animi e a creare una cortina di diffidenza e di pressioni sul prefetto di Modena affinché procedesse a restituire il salvacondotto ai Bianchini». Un comportamento molto grave, sostengono gli investigatori, perché «il politico è sceso personalmente in campo per influenzare direttamente e indirettamente le scelte della prefettura, anche acquisendo notizie sui provvedimenti antimafia irrogati». Queste presunte pressioni sono finite agli atti di un procedimento ancora aperto sul tavolo dell’antimafia di Bologna. Su Giovanardi, pur non essendo tra gli indagati, sono numerosi gli elementi raccolti. Tra questi anche alcuni dialoghi registrati in carcere a Parma dove era recluso Augusto Bianchini. A quest’ultimo il figlio racconta quel che accade fuori e quanto il senatore si stia spendendo pubblicamente per loro. Tanto da sentirsi in dovere di «passare dall’ufficio e lasciargli qualcosa». «Sì andate a trovarlo», lo esorta il papà, che nel periodo di detenzione ha conosciuto Marcello Dell’Utri con cui «si trova bene, è un piacere ascoltarlo».
In pratica Giovanardi avrebbe fatto pressioni in prefettura per la riammissione nella “white list” dei Bianchini arrivando a confabulare con un “alto prefetto romano“. Siccome l’abito non fa il monaco, in una delle frasi riportate il Senatore sarebbe arrivato persino ad affermare “A quelli ho detto che se fossi in Bianchini verrei qua con una rivoltella e ammazzo tutti, creando un precedente… folli…. folli…” (Qua).
Forse intimoriti di fronte a tanto “impeto” Prefetto e il Vice Prefetto iniziano quindi ad accusarsi a vicenda per non essere scesi in campo in aiuto del “povero imprenditore” arrivando infine ad accusare i Carabinieri per il lavoro svolto. (Qua)
“Una volta gli stati d’Europa combattevano fra loro, usando le popolazioni extra-occidentali come “truppe indigene”, oggi competono a suon di bombe umanitarie su popolazioni inermi e rigorosamente non-bianche per spostare gli equilibri economici a favore dell’una o dell’altra fazione all’interno del generale divenire-mafia del capitale.” (Qua)

Una recente manifestazione in Spagna.
Le commistioni tra mafia e Stato non ci sorprendono, anzi ci spingono a pensare che i due elementi siano le diverse facce della stessa medaglia. In un ambiente “pelagico” profondo quale il Capitalismo Reale tanto il mantenimento dei profitti garantiti quanto un determinato modello di sviluppo, tutto cemento e PM10, non è affatto in contraddizione con l’attività mafiosa. Anzi, dietro alla famosa immagine della “ricca Emilia cooperativistica” spesso si nascondono fenomeni di questo tipo, utili ai mercati dal mondo dell’edilizia a quello della fornitura di mano d’opera per una certa capacità di generare maggiori profitti.
Sempre sbagliato generalizzare tuttavia anche gli ultimi accadimenti nella collina modenese, quella del distretto carni per intenderci, che hanno visto decine di minacce, appalti non in regola, violazioni delle più elementari norme contrattuali tutte sotto l’occhio “distratto” istituzionale, qualcosina ce la raccontano.
Se vi è un elemento centrale di riflessione questo è sicuramente rappresentato da quel principio di legalità tanto sbandierato e vituperato anche da quei soggetti oggi alle attenzioni degli inquirenti. Questo termine-feticcio spesso non rappresentante nient’altro che un significante vuoto, utilizzato giusto per essere riempito alla bisogna di un po’ di repressione per le istanze sociali, in questi casi si colora di evidenza. Un principio non più in grado di reggere gli equilibri di controllo e di dominio imposti dal capitale ma che ugualmente viene eretto a difesa della “democrazia” e delle istituzioni solo ed esclusivamente quando esse stesse devono difendersi da attacchi che provengono da quel “basso” di cui hanno una tremenda paura.
Ma cos’è il “basso”? Il “basso” è quel magma latente della società che non ha garanzie né sicurezze e prospettive la cui unica possibilità di riscatto dovrebbe risiedere nella propria alienazione. Quando questa composizione sociale si surriscalda e si muove pretendendo ciò che gli spetta, professando alterità e cooperazione e andando anche oltre al principio statuale legalitario ecco allora come le stesse istituzioni inforchino immediatamente l’ipocrita maschera a difesa dei propri privilegi e delle proprie tutele.
Nessuna sorpresa dunque dovuta alle nuove rivelazioni. Anzi, si rimarrà in attesa di conoscere gli esiti processuali, se mai ci saranno, consapevoli che l’arma giudiziaria è sempre stata ferocemente puntata più verso “il basso” che verso “l’alto”.
“Prima pagina venti notizie
ventuno ingiustizie e lo Stato che fa
si costerna, s’indigna, s’impegna
poi getta la spugna con gran dignita’.”
Posted on 5 aprile 2017
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