
«Ai sovversivi non è bastata la lezione di Haymarket. Seguitano a fomentare rivolte che finiscono in niente». Alludeva a un episodio ben noto, accaduto a Chicago, il 4 maggio 1886. Quel giorno in Haymarket Place, la polizia aveva ucciso alcuni manifestanti che reclamavano le 8 ore quale tempo massimo di lavoro. Mentre la folla defluiva, una bomba aveva ucciso un agente. Erano stati arrestati 8 anarchici a caso, nessuno dei quali presente al momento dell’esplosione. Un processo truffaldino ne aveva condannati 5 a essere impiccati; uno di loro si era tolto la vita in carcere. La sentenza era stata eseguita l’11 novembre 1887, malgrado un coro universale di proteste. Chiaramente si trattava di un monito contro chi cercava di alterare il sistema democratico americano, fondato sul censo.
One Big Union di Valerio Evangelisti
Dopo un 25 aprile, Post-25 aprile arriva il Primo Maggio. Sebbene in molti vorrebbero vederla trasformata in una “Festa del lavoro” o perché no in una “Festa della produttività” quando non proprio in una “Festa al lavoro”, il Primo Maggio rimane ancora e in tutto il mondo la “Festa dei lavoratori”; difficile pretendere di poter cancellare più di un secolo di storia come con un colpo di spugna, qualche frase ad effetto o qualche discorso condito con parole quali innovazione e progresso, persino in tempi tristi come questi. Siamo lontani dagli anni del monopolistico concertone in Piazza San Giovanni nel quale si annacquavano con musica e vino silenziose complicità sindacali alla svendita definitiva di coloro che avrebbero dovuto tutelare. Taranto, la città dell’Ilva, ha già da qualche anno incrinato tale consuetudine, fortunatamente. Così, mentre un Renzi torna in sella al Pd vedendo bene di specificare che “Il Jobs Act è una delle cose più di sinistra fatte in questo Paese” in beffa ad ogni evidenza, come nel suo stile, nelle piazze della penisola sfilano i muti spettri dei sindacarti confederali i quali oramai rappresentano efficacemente soltanto una categoria: i pensionati.
Non vi è nulla da rimpiangere e il secco No sbattuto in faccia a Cgil, Cisl e Uil dai lavoratori dell’Alitalia recentemente non fa che confermarlo. Da una parte vecchi arnesi arrugginiti la cui unica funzione è danneggiare i lavoratori, disattivandoli, raggirandoli, imbrogliandoli, tutte azioni svolte per conto dei padroni in cambio della sopravvivenza della propria organizzazione, della propria burocrazia e della propria gerarchia; dall’altra nuovi sindacati, nuovi conflitti e nuovi lavoratori che si autorganizzano. Dove vi sono questi ultimi vi è una realtà e non esclusivamente la sua rappresentazione. Non a caso, per questi, polizia, manganelli e repressione giudiziaria non mancano mai.
Ovunque si guardi, vi è un terreno che frana sotto i piedi. Diritti e salari si restringono come stenosi apparentemente incurabili, gli unici spazi di rivendicazione collettiva sono presi di mira tanto da plotoni in assetto antisommossa quanto da nuove leggi fasciste, i territori in cui viviamo non sono altro che terreni di conquista del capitale che, con marcia funerea, specula e depreda ogni risorsa ambientale, paesaggistica e sociale. La guerra all’orizzonte ci suggerisce come già il nostro Paese spenda, nel settore militare, 23.3 miliardi di euro all’anno (spesa destinata ad aumentare sensibilmente) ed esporti armi per 14,6 miliardi (con le bombe ad essere diventate la terza azienda italiana per giro d’affari). Vendiamo guerra e importiamo profughi sui quali votiamo ogni colpa, produciamo narrazioni tossiche e razziste, richiedenti asilo che lavorano gratis per ricompensare non si sa cosa, lager per migranti e deportazioni. Città nelle quali i rastrellamenti sono all’ordine del giorno e militari armati con fucili d’assalto pattugliano le strade. Ogni euro speso in materia bellica è un euro sequestrato al settore civile ed il rischio è che ancora prima che possiamo accorgercene per quest’ultimo non rimanga più granché e che il profitto per essere generato abbia sempre più bisogno e già schierato un apparato militare alle proprie spalle. (In Val Susa ci sono gli alpini da qualche anno a “difesa” di un cantiere mentre in Puglia per il gasdotto Tap si arruolano contractors come quelli che combattono in Iraq)
Nella competizione elettorale che si tiene a fianco a noi, in Francia, la gara è tra una fascista tirata a lucido e un banchiere figlio di quella classe neoliberale europea che sembra fatta di cyborg prodotti serialmente.
Una distopia sciolta nel presente.
Da qualsiasi angolazione…
Da qualsiasi angolazione lo si prenda, il presente è senza uscita. Esso non ha più nemmeno la minore, tra le sue virtù. A coloro che vorrebbero assolutamente sperare, esso toglie ogni appiglio. Coloro che pretendono di avere delle soluzioni, sono smentiti nell’arco di un’ora. È cosa risaputa che tutto non può che andare che di male in peggio. «Il futuro non ha più un avvenire», questa è la consapevolezza di un’epoca che è arrivata, sotto tutte le sue arie di estrema normalità, al livello di coscienza del primo movimento punk. La sfera della rappresentazione politica si chiude. Da sinistra a destra è lo stesso nulla, che qui prende le sembianze di un cane da guardia, lì assume un’aria innocente, utilizzando gli stessi specchietti per le allodole che cambiano forma del discorso in base alle ultime rilevazioni dei sondaggi. Quelli che votano ancora, danno l’impressione di non avere più altro obiettivo che non sia far saltare le urne a forza di votare, per pura protesta. Si comincia a pensare che sia proprio contro lo stesso voto che si continua a votare. Nessuna delle alternative che vengono presentate è, nemmeno lontanamente, all’altezza della situazione. Anche nel suo silenzio, la popolazione sembra infinitamente più matura di tutte le marionette che litigano per governarla. Qualsiasi vecchio immigrato maghrebino di Belleville è più saggio in ognuna delle sue frasi, di uno qualsiasi tra i nostri sedicenti dirigenti con tutte le sue dichiarazioni. Il coperchio della pentola sociale si chiude a tripla mandata, mentre nel frattempo la pressione non smette di aumentare.
Le parole qua sopra sono l’incipit di questo pamphlet consigliatissimo: L’insurrezione che viene. Ma perché ripescare un vecchio testo che fece scalpore (e non solo) nella Francia del 2008? Perché dissotterrarlo proprio ora, quasi esattamente ad una decina d’anni dalla sua uscita (marzo 2007)?

Le Havre, 13 giugno 2016
Semplice, in primo luogo perché certi testi non invecchiano precocemente ed anche a distanza di tempo possiedono ancora tutte le caratteristiche analitico-descrittive degli albori, in secondo luogo perché alcune cose devono sedimentare prima di venire a galla. Devono maturare prima di germogliare…
In un articolo di Bifo dello scorso dicembre, La mutazione neoliberista si potevano leggere un paio di appunti centrali circa il lavoro nella nostra epoca:
“A casa, disoccupato, tua madre ti tormenta, ti senti un diverso, mentre se lavori gratis sei normale. L’accettazione del lavoro gratuito dipende perciò anche dal fatto che c’è qualcosa che ricompensa più della retribuzione: la protezione dall’angoscia, dalla solitudine” […] “Ecco dunque la doppia ingiunzione dell’imperativo categorico del capitalismo contemporaneo: 1. sii ciò che vuoi, agisci la tua autonomia purché 2. la risultante della tua azione sia traducibile nell’assiomatica del capitale e nelle sue metriche convenzioni in continuo mutamento”. Questa doppia ingiunzione contraddittoria è la trappola psichica implicita nella deregolazione del rapporto di lavoro, che viene liberato per potersi interamente dedicare alla competizione. Il massimo di libertà coincide allora con il massimo di conformazione alla regola unica della competizione in ogni campo della vita.
Ora torniamo a L’insurrezione che viene:
“La confusione dei sentimenti che attorniano la questione del lavoro può spiegarsi così: la nozione di lavoro ha sempre ricoperto due dimensioni contraddittorie, una dimensione di sfruttamento e una dimensione di partecipazione. Sfruttamento della forza lavoro individuale e collettiva attraverso l’appropriazione privata o sociale del plusvalore; partecipazione a un’opera comune attraverso i legami che si intrecciano tra coloro che cooperano in seno all’universo della produzione. Queste due dimensioni sono perversamente confuse nella nozione unica di lavoro, ed è questo che spiega l’indifferenza dei lavoratori, in fin dei conti, alla retorica marxista, che nega la dimensione della partecipazione, come alla retorica manageriale, che nega la dimensione dello sfruttamento. Di qui, inoltre, l’ambivalenza del rapporto con il lavoro, a volte odiato in quanto ci rende estranei a quello che facciamo, e adorato in quanto una parte di noi stessi di cui ci compiaciamo. Il disastro, qui, è pregresso: esso risiede in tutto ciò che è stato necessario distruggere, in tutto ciò che è stato necessario sradicare perché il lavoro finisse per apparire come il solo modo di esistere. L’orrore del lavoro è minore nel lavoro stesso che nella razzia metodica, durata secoli, di tutto ciò che lavoro non è: fratellanza di quartiere, di mestiere, di villaggio, di lotta, di parentela, di attaccamento a dei luoghi, a degli esseri, a delle stagioni, a dei modi di fare e di parlare. Qui sta il paradosso attuale: il lavoro ha trionfato senza lasciare sopravvissuti tra tutte le altre maniere di esistere, nel tempo stesso in cui i lavoratori sono divenuti superflui. Viviamo il paradosso di una società di lavoratori senza lavoro, dove la distrazione, il consumo, gli svaghi non fanno che esasperare l’assenza di ciò dal quale dovremmo distrarci. […]
Nelle imprese, il lavoro si divide in modo sempre più visibile in impieghi altamente qualificati di ricerca, sviluppo, controllo, coordinazione e comunicazione, legati alla messa in opera di tutti i saperi necessari al nuovo processo di produzione tecnologizzata,e in impieghi squalificati di intrattenimento e sorveglianza di questo processo. I primi sono in numero ristretto, ben pagati e dunque estremamente desiderosi che l’altra minoranza, quella che sborsa denaro per accaparrarseli, non abbia mai in mente di lasciarsi sfuggire una sola briciola di quello che possono offrire. Il loro lavoro e le loro persone non formano altro, conseguentemente, che un’unica morsa angosciante. Manager scientifici, lobbisti, ricercatori, programmatori, sviluppatori, consulenti e ingegneri non smettono letteralmente mai di lavorare. Anche le loro scopate aumentano la loro produttività. «Le imprese più creative sono anche quelle in cui le relazioni intime sono più numerose», teorizza un filosofo per DRH. «I collaboratori dell’impresa», confermano dalla Daimler-Benz, «fanno parte del capitale dell’impresa […] La loro motivazione, il loro savoir-faire, la loro capacità di innovazione e le loro preoccupazioni per i desideri della clientela costituiscono la materia prima dei servizi innovativi […] Il loro comportamento, la loro competenza sociale ed emotiva, hanno un peso crescente nella valutazione del loro lavoro […] Essi non saranno più valutati sulla base del numero di ore di presenza, ma sulla base degli obiettivi raggiunti e della qualità dei risultati. Sono a tutti gli effetti degli imprenditori». L’insieme dei compiti che non si è potuto delegare all’automazione viene a formare una nebulosa di posti che, non potendo essere occupabili dalle macchine, sono occupabili da non importa quale essere umano – manutentori, magazzinieri, lavoratori in catena di montaggio, stagionali, e così via. Questa manodopera flessibile, indifferenziata, che passa da un impiego a un altro e non resta mai troppo in un’azienda, non può più costituirsi in una forza reale. […]
C’è il serio rischio che finiremo per trovare un utilizzo della nostra inattività. Questa popolazione ondeggiante deve essere occupata, o trattenuta. Ora, non si è trovato fino ad oggi un migliore metodo disciplinare del salario. Occorrerà dunque perseguire lo smantellamento delle «conquiste sociali», al fine di ricondurre nel girone salariale i più reticenti, coloro i quali non si arrendono se non davanti all’alternativa tra il marcire in prigione e il restarsene a casa. […]
L’ordine del lavoro è stato l’ordine del mondo. L’evidenza della sua rovina provoca il panico alla sola idea ci ciò che ne potrebbe conseguire. Lavorare, al giorno d’oggi, è legato non tanto alla necessita economica di produrre delle merci quanto piuttosto alla necessità politica di produrre dei produttori e dei consumatori, di salvare con ogni mezzo l’ordine del lavoro. Produrre sé stessi sta per diventare l’occupazione dominante di una società in cui la produzione è ormai senza oggetto: come un falegname che, espropriato dal suo atelier, si mettesse, per disperazione, a piallare direttamente sé stesso. Di qui lo spettacolo di tutti quei giovani che si allenano a sorridere per il loro colloquio d’assunzione, che si fanno sbiancare i denti per un avanzamento di carriera migliore, che frequentano i locali notturni per stimolare lo spirito di squadra, che imparano l’inglese per boostare la loro carriera, che divorziano o si sposano per rilanciarsi nel mercato, che frequentano corsi di teatro per divenire leader o partecipano a stage di «sviluppo personale» per meglio «gestire i conflitti» – «Lo “sviluppo personale” più intimo», sostiene un guru qualsiasi, «condurrà a una migliore stabilità emotiva, a un’apertura relazionale più agevole, a un acume intellettuale diretto in maniera migliore, e dunque a una migliore performance economica». Il brulichio di questo intero, piccolo mondo che aspetta con impazienza di essere selezionato mentre si esercita ad essere naturale, è il segnale di un tentativo di salvataggio dell’ordine del lavoro attraverso l’etica della mobilità. Essere mobili, è rapportarsi al lavoro non come attività, ma come possibilità. Quando il disoccupato rimuove i suoi piercing, va dal parrucchiere e fa dei «progetti», lavorando sodo «sulla sua impiegabilità», come si usa dire, eccola la testimonianza della sua mobilità. La mobilità consiste in questo leggero distacco da noi stessi, in questo impercettibile arrancare in ciò che ci costituisce come persone, in questa condizione di estraneità a partire dal quale l’Io può essere considerato come oggetto di lavoro, e a partire dal quale diviene possibile vendere se stessi e non la propria forza lavoro, farsi remunerare non per quello che si fa ma per quello che si è, per la nostra fine padronanza dei codici sociali, per la nostra capacità di relazionarsi, per il nostro sorriso o per il nostro modo di presentarci. È la nuova norma di socializzazione. La mobilità opera la fusione di due poli contrapposti del lavoro: da una parte si partecipa al proprio sfruttamento, dall’altra si sfrutta la propria partecipazione. Si è direttamente, in maniera ideale, una piccola azienda, il proprio padrone e il proprio prodotto. Si tratta, che si lavori o meno, di accumulare contatti, competenze, «reti»; in parole povere, il «capitale umano». L’ingiunzione planetaria a mobilitarsi al minimo pretesto – il cancro, il «terrorismo», un terremoto, i senza tetto – riassume la determinazione delle potenze regnanti a mantenere il regno del lavoro al di là della sua scomparsa fisica.
L’apparato di produzione presente è dunque, da una parte, questa gigantesca macchina progettata per mobilitare fisicamente e psicologicamente, per bruciare le energie degli esseri umani divenute eccedenti, e dall’altra è questa macchina di selezione che dispensa la sopravvivenza alle soggettività conformi e lascia soccombere tutti i «soggetti a rischio», tutti coloro che incarnano un altro uso possibile della vita, e, così facendo, gli resistono. Da un lato, si fanno vivere gli spettri, dall’altro si lasciano morire i viventi. Tale è la funzione propriamente politica dell’apparato produttivo attuale. Organizzarsi di conseguenza, e contro il lavoro, disertare collettivamente il regime della mobilità, manifestare l’esistenza di una vitalità e di una disciplina all’interno della non mobilità stessa è un crimine che una civiltà allo stremo come questa non può e non vuole perdonarci: ma è in fondo il solo modo di sopravviverle. […]
Per imporre definitivamente l’economia, la sua etica del lavoro, e l’avarizia, è stato necessario nel corso del XVII secolo internare ed eliminare tutta la fauna dei disoccupati, dei mendicanti, delle streghe, dei pazzi, dei libertini e di tutti gli altri poveri senza riconoscimenti, un’intera umanità che smentiva per mezzo della sola propria esistenza l’ordine dell’interesse e della continenza. La nuova economia non si imporrà senza una simile selezione dei soggetti e delle zone adatte alla mutazione. Il caos tanto annunciato sarà l’occasione per questa selezione, o la nostra vittoria su questo detestabile progetto.”
Provate a collegare queste ultime affermazioni con il decreto Minniti-Orlando appena trasformato in legge ed avrete quasi risolto l’equazione.
La catastrofe del lavoro nell’Italia contemporanea è presto riassunta, si può tornare ad essere uccisi durante uno sciopero come capitato ad Abd Elsalam Ahmed Eldanf lo scorso settembre e mai ricordato abbastanza ma anche morire di fatica come successo a Paola Clemente nei campi di Puglia!
Buon Primo Maggio.
Posted on 1 Maggio 2017
0