
Non si era mai vista una campagna elettorale nella quale il termine “rivoluzione” risultasse così abusato. Forse è solo una questione di tempi, basta recarsi all’urna pensando a Piazza Tahrir con una scheda per invertire la marcia al neoliberismo, una matita per disinnescare il capitalismo reale e una croce per riallineare giustizia e equità. Ovviamente tutto ciò non assume alcun senso lontano dal mercimonio elettorale ma se questa è l’ultima frontiera dei residui della cosiddetta “sinistra radicale” qualche domanda occorrerà pur farsela al netto di una lista che appare soprattutto come un salvagente per i partiti che la compongono.
Si pensava che la parentesi Monti e la celere eclissi berlusconiana avesse definitivamente mandato in soffitta quella dialettica legalitaria che tanto ha caratterizzato l’opposizione nel ventennio appena concluso, imprigionando il dibattito a sinistra in una forma di giustizialismo riformatore da opporre di volta in volta al caimano di Arcore.
Per una beffa della storia, lontana dalla scomparsa, quella dialettica legalitaria riappare ora a sinistra dello schieramento elettorale. Uscita dalla porta principale è rientrata dall’ultima finestrella disponibile. La capitana Antonio Ingroia, magistrato salito agli onori della cronaca per le sue battaglie sulla trattative Stato-mafia con una lista di ricapitalizzazione per cinque partiti (Prc, Pdci, Verdi, Idv e Movimento Arancione di Luigi De Magistris) attorno, quella galassia di movimenti che in questi anni le lotte le hanno costituite.
Una scommessa precipitata dalla “prematura” abdicazione del governo Monti fattore di accelerazione dei processi elettorali (si voterà a fine febbraio, mai successo prima d’ora nella storia dell’Italia repubblicana come a riaffermare la caratura costituente del governo tecnico calato dal mercato per la salvezza del paese). Una scommessa all’apparenza inglobante che ha confuso temi e scopi dirimenti per l’Italia che si affaccia al voto. Con un programma pesantemente orientato verso la questione legalitaria e alla sacrosanta lotta alla mafia ma con sbiaditi riferimenti alle tematiche sociali ed economiche difficilmente si potrà andare lontano tenendo conto del contesto, la più profonda crisi economica dal dopoguerra (l’assenza nel programma di una proposta sul reddito minimo garantito la dice lunga sulle priorità che questa lista si prefigge). Tralasciando i tanti temi che la sinistra residuale ha appaltato al magistrato antimafia per il discorso elettorale (vedasi spese militari, ritiro dalle missioni “di pace” all’estero, investimenti produttivi e grandi opere) forse è proprio sul concetto cardine della legalità la partita più complessa e in quello iato che intercorre tra questa e il concetto di giustizia.
In un paese in cui la crisi è colpa dei sindacati arcaici, la disoccupazione è colpa dei lavoratori che non vorrebbero essere precari (per alcuni abbiamo anche riconfigurato il “reato di disoccupazione” destinato ai migranti con la legge Bossi- Fini), dove il femminicidio è colpa delle donne e dove i presunti assassini vengono accolti con tutti gli onori dal Capo dello Stato la questione della giustizia e della legalità che ne consegue si fa centrale.
Il contesto neoliberale è quello nel quale i diritti compaiono quasi sempre in maniera indiretta o come una semplice variabile dipendente dall’economia mentre i richiami a quelli fondamentali si fanno vuoti in assenza della materia sostanziale per poterli esercitare. La legalità calata dall’alto assume certe forme mentre in realtà essa dovrebbe risultare da un processo che parte dal basso come orizzonte verso il ciò che vogliamo affermare. Questo il campo in cui dovrebbe rientrare la giustizia.
Purtroppo in questo paese i due concetti risultano del tutto slegati e spesso contrapposti. Difficilmente legalità e giustizia potrebbero coabitare in uno Stato che considera ancora prezioso il Codice Rocco come strumento per reprimere il dissenso politico. E come considerare il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio in costituzione se non l’affermazione di uno Stato che si fa faccendiere di banche private e protettore di circuiti criminogeni, vedasi in questo caso lo Scudo fiscale di Tremonti.
Per uscire dalla stretta mortale occorrerebbe in qualche modo riaprire il capitolo legalità e farcirlo con quel corpo “ribelle” che in questi anni ha portato avanti tutte quelle battaglie di dignità sconfitte di volta in volta dai rapporti di forza impressi dalla globalizzazione liberista. Sono di questi giorni le notizie riguardanti la nuova ondata di repressione scaturita in seguito allo sciopero europeo del 14 novembre (qua e qua) e le pesantissime condanne per “devastazione e saccheggio” inflitte a 6 persone per gli scontri di piazza nella manifestazione romana del 15 ottobre 2011.
Così come sono di questi giorni la condanna della Corte Europea all’Italia per le “carceri disumane” e le sentenze della Diaz e di Bolzaneto che salpano per Strasburgo perché il paese è inadempiente circa il reato di tortura. Il dibattito sulla legalità non potrebbe essere più aperto mancano però all’appello dichiarazioni, prese di posizione o confronti degni di nota.
L’aspetto normativo del diritto può essere così impunemente obliterato e contraddetto da una violenza governamentale che, ignorando, all’esterno, il diritto internazionale e producendo, all’interno, uno stato di eccezione permanente, pretende tuttavia di stare ancora applicando il diritto. [Agamben, Stato di eccezione, 2003 pag. 111]
La fantasia vorrebbe che nelle liste della cosiddetta “Rivoluzione Civile” fossero inseriti coloro i quali, in questi anni, hanno dato forme alle lotte ma che sono stati perseguiti dalle maglie repressive dello Stato. Ciò assumerebbe un duplice valore: tanto di rendere presentabile il conflitto quanto di arginare quella spirale repressiva che tanto sta caratterizzando la fase politica in corso nel paese. Utopie per un movimento che si vorrebbe limpido, talmente limpido che le candidature dalla fedina penale pulita saranno composte da persone che “non devono avere neppure una multa”. Ci sono leggi e leggi così come i reati che si compiono possono provenire da nature differenti. Se qualcuno non avesse infranto la legge qualche volta saremmo ancora allo Statuto albertino e i cavalieri senza macchia non sono più buoni nemmeno nelle fiabe per bambini.
Se tali sono le fantasie, le realtà vorrebbero un minimo di impegno su certi temi. Magari scioglierebbero molte polemiche sulle candidature. Dai partiti che le blindano a Di Pietro che porta i rimborsi elettorali ma è lo stesso che si oppose alla Commissione di inchiesta sui fatti del G8. Se lo scontro che si è aperto sulla trattativa Stato-mafia è qualcosa di profondo non è certo questo sufficiente a riempire un cambiamento che si impone da ogni dove men che meno l’ennesima figura dell’uomo che ritorna a difesa delle istituzioni contro l’assalto alla diligenza dello Stato.
E qualche dichiarazione nel contesto repressivo di questi giorni sicuramente avrebbe giovato se non ai sondaggi, almeno al progetto politico che stando alle intenzioni, vorrebbe affacciarsi su uno dei periodi più duri della storia italiana.
E’ vero che le sentenze non è mai bene commentarle (questa come esempio) ma se si vuole giocare una partita sulla terreno della legalità in qualche modo richiami alla giustizia andrebbero fatti. A cominciare dalle sentenze del 15 ottobre che condannano a pene pesantissime 6 persone con una legge fascista del 1930 mentre come metro di paragone a chi uccise Aldrovandi vennero inflitte condanne della metà con agenti che sono tutti ancora al loro posto.
Per questo motivo e in solidarietà pubblichiamo qua sotto la lettera di Davide (pescata qua) che ha cominciato ieri uno sciopero della fame.
Lettera aperta di Davide Rosci, condannato per i fatti del 15 ottobre 2011.
Posted on 9 gennaio 2013
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