
E’ il copione di un film già visto.
Pellicole novecentesche riaffiorano dalle sabbie del Sahel incubatrici di un’oblio che di volta in volta sforma lo stesso impasto: imperialismo e neo-colonialismo, durevoli nel tempo. Di esempi, il nuovo millennio ne ha già offerti. Talmente noti che non occorre nemmeno citarli. La Libia, ultimo in ordine di tempo, non dista neanche due anni. Allora era il Sahara, ma come deserto è sempre lo stesso ed è chiamato guerra.
Anche i contorni sono conosciuti. Rispuntano addirittura alcuni ipotetici pericoli alla “civiltà” macabre evoluzioni dello “scontro tra civiltà” rumore di fondo che tanto ha caratterizzato i primi anni zero. Lotta al terrorismo, difesa della democrazia, ragioni umanitarie e il ripristino dell’integrità territoriale di un paese (il Mali) altro non sono che le solite pillole dispensate con l’intento di fare digerire l’ennesimo intervento bellico.
La Francia indossa l’elmetto – beatificata dal suo pontefice civile Bernard-Henri Levy che proclama la “guerra giusta di Hollande” – e si traveste da gendarme come volesse riaffermare una “nouvelle france-afrique” mai del tutto scomparsa. (La Francia possiede ancora basi militari nel continente come quella di N’Djamena in Ciad dalla quale partono i raid di questo nuovo intervento).
Accanto, un territorio nel quale rientrano interessi geo-politici specifici: dal colosso Areva a Parigi con la quale è condivisa l’attenzione per l’uranio del vicino Niger, quello che sfama la sete di almeno un terzo delle centrali nucleari francesi. Non solo però perchè l’area è densa di complessità a livello geopolitico e una eventuale ridefinizione delle relazioni potrebbe avere effetti globali come suggerisce il concerto di dichiarazioni che spazia da Washington fino a Tokyo o le risapute “chiacchiere” che vedono l’Africa come un terreno di contesa tra influenza cinese e sfera statunitense.
Dopotutto, a pochi giorni dal precipitare degli eventi, il conflitto è esondato in Algeria, negli impianti di gas di In Amenas dove guardacaso ruotano gli interessi di altri colossi come la britannica Bp. E che dire delle linee di congiunzione che collegano questa nuova guerra maliana con il recente riassetto della Libia o del ruolo che in quel conflitto hanno giocato i soliti islamisti che oggi riappaiono sotto altre forme. Oppure ancora dello spauracchio fondamentalismo islamico chiamato in causa e bombardato in Mali da quella stessa Francia che lo arma e lo protegge nel conflitto siriano.
Se la partita in questione risulta talmente complessa tale da richiedere profonde conoscenze che non sono qui di casa è anche vero che qualche somma “in generale” può comunque essere tirata a cominciare da quelle intersezioni che questa vicenda comporta per il nostro paese.
L’Italia, infatti, ha già espresso la sua posizione in materia e l’ha fatto tramite il suo Ministro degli Esteri Terzi che recentemente ha offerto “supporto logistico all’operazione in Mali” giustificandola con la sempreverde “presenza terroristica che minaccia il Paese” e ciò a dispetto tanto di una Costituzione che oltre sessant’anni fa ha scelto il ripudio della guerra, tanto di un Parlamento che la scadenza elettorale è chiamata a rinnovare. Sottigliezze forse a cui non bada più nessuno e che si tradurranno nell’invio di 25 istruttori sul campo oltre all’appoggio di aerei da trasporto e alla probabile concessione delle basi militari come Sigonella, dalla quale vengono controllati i droni Usa.
Le voci “fuori dal coro” per ora sono timide ed in linea con quel carattere costituente che ha caratterizzato l’ultimo governo, se il Pd infatti si schiera a fianco di Hollande (anche sulla guerra in Libia non aveva espresso alcuna contrarietà) chi si dissocia è l’alleato Sel ben consapevole di potere contrattare ben poco a riguardo. Certe decisioni trascendono dalle volontà politiche e sembrano appartenere a quel vuoto di inevitabilità che tanto le accomuna alle scelte in campo economico, quasi fossimo in presenza di un imperialismo tutto interno che domina il dibattito, annientandolo.
Ed è normale che il pensiero fugga a quelle assenze che tanto stanno caratterizzando questa fase, vale a dire la mancanza di un vero movimento per la pace come quello che solo 10 anni fa riempiva le più grandi città del mondo imponendosi a livello globale come una nuova superpotenza, come ebbe a scrivere il New York Times in prima pagina alla vigilia della guerra irachena e che compose una delle più grandi manifestazioni in proposito proprio a Roma con 3 milioni di persone stimate. Se allora le iniziative belliche salpavano da oltreoceano oggi sembra che il cerino per le detonazioni sia passato in mani europee e stona l’assenza di proteste significative a fronte del delinearsi di una nuova Guerra dell’Europa dopo la recente avventura libica effettuata di concerto con gli Stati Uniti.
Se le voci della pace sono state silenziate (quando non sono state direttamente manipolate come nel caso della guerra in Libia) altro raccontano i pesanti investimenti effettuati in barba alla crisi economica, siano essi per i sottomarini o per i “bidoni”più costosi di tutta la storia dell’aeronautica militare, gli F-35. Altri sinistri presagi, inoltre, sono quelli suggeriti dalla gigantesca antenna di comunicazioni satellitari MUOS in costruzione a Niscemi, recentemente salita agli onori della cronaca per via delle forte opposizione al progetto che il territorio siciliano ha saputo esprimere.
A ben vedere, tanto la situazione bellica quanto il baratro economico nel quale siamo precipitati non sono affatto fenomeni in conflitto fra di loro, anzi, ed il rischio che si sta percorrendo ricorda tanto quella storiella della rana finita bollita nell’acqua calda, condizione che stiamo imitando pericolosamente: “Se si lancia una rana in una pentola di acqua bollente, questa inevitabilmente salterà fuori per trarsi in salvo. Al contrario, se la si getta in una pentola di acqua fredda e la si riscalda lentamente ma in modo costante, essa finirà inevitabilmente bollita.”
La guerra si fa normalità mentre “l’essere in guerra” sta diventando consuetudine.
« Per l’imperialismo è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità. »
Thomas Sankara
qua sotto in un discorso sul debito
Posted on 21 gennaio 2013
0