
Si affondava si diceva, letteralmente. C’è un aneddoto molto diffuso che tra le acque italiche stagnanti sguazza allegramente, è quello delle boiling frogs ed è facilmente riassumibile: “Se si lancia una rana in una pentola di acqua bollente, questa si scotterà e salterà inevitabilmente fuori per trarsi in salvo. Al contrario, se la si getta in una pentola di acqua fredda e la si porta ad ebollizione lentamente ma in modo costante, essa non percepirà il pericolo ma finirà ugualmente bollita.” Ovviamente la metafora è riferita ai cambiamenti e all’incapacità o alla mancata volontà delle persone di reagirvi o di opporvisi quando questi per quanto significativi vengono somministrati in maniera graduale.
Il Paese si smantella in questo modo, pezzo per pezzo, la “democrazia”, in maniera non dissimile, con un eccezione dopo l’altra.
L’Italia sembra intrappolata in un sub-universo tutto suo nel quale l’eterno ritorno dell’uguale è interpretato sempre con una parabola discendente, un precipizio tendente all’infinito. E’ una galassia dove i paradossi diventano buchi neri che approfittano della prescrizione per sciogliersi e moltiplicarsi ancora prima di essere compresi. E’ un sistema per il quale tra i due binari paralleli, quelli che non si incontreranno mai, è la realtà a specchiarsi nella rappresentazione e non il contrario. Occorrerebbe gridare parole sensate ma sembra che persino l’alfabeto sia stato dimenticato.
In un luogo come questo è piuttosto facile che il discorso pubblico si attorcigli su se stesso mentre la terra frana sotto i piedi. Così, nella settimana che ha visto la Fiat salpare definitivamente dal Bel Paese e l’Elettrolux ricattare tutti i lavoratori dello stivale (perché sono tutti i lavoratori ed essere minacciati da una logica come questa!), il “discorso” politico italiano è deragliato in un orizzonte simbolico produttivissimo per quanto riguarda tossine e scorie difficilmente degradabili, poverissimo per qualità e forma dei contenuti. Il risultato, tra accuse e contraccuse di “pseudo-fascismo”, di insulti, di atteggiamenti, di slogan, di “macchine del fango” fasciste è quello più facilmente calcolabile, vale a dire, che ci sia sempre un “fascismo” in più. Ciò che viene divorato, in questo buco nero, (magari accusandolo proprio di “fascismo”) è qualsiasi forma di dissenso mentre il pensiero è annichilito in camere dai compartimenti stagni e il ragionamento incarcerato in una mera disputa tra tifoserie opposte senza nemmeno il fascino di un evento sportivo come contraltare, autonomia e autocritica poi non sono neppure prese in considerazione e, forse, se ne ignora addirittura la funzione.
Ma andiamo con ordine. Il 29 gennaio è stata una giornata triste per la realtà istituzionale della nostra disastrata Repubblica, amara per la salute di una “democrazia” sempre più svuotata da un eccezione dopo l’altra. L’ennesima eccezione andata in scena ha avuto come protagonista Laura Boldrini che è riuscita nel compito improbabile di superare uno come Gianfranco Fini (un fascista vero che ha lasciato in eredità al Paese due leggi ignobili, segno tangibile del fatto che ovunque passino questi ultimi i danni prodotti saranno enormi). Non si era mai visto, infatti, un presidente della Camera (tra l’altro di Sel, dunque formalmente all’opposizione) usare la “ghigliottina” per decapitare il dibattito parlamentare evitando così la decadenza di un decreto governativo quantomai grottesco e frettoloso ben camuffato dietro al ricatto morale del pagamento dell’Imu.
Tutto ciò che è successo dopo, alla Camera, ha avuto tutto il sapore di una “guerra civile simulata” come l’ha definita egregiamente Giuliano Santoro, una pantomima non molto dissimile da uno show televisivo concordato. “E tuttavia, era nell’aria da tempo che la guerra di posizione dalle trincee parlamentari degenerasse in una zuffa da trasmissione di Maria De Filippi. Il problema sta nell’ossessione per i luoghi della rappresentanza, che anima anche quelli che dagli scranni parlamentari straparlano di democrazia diretta ma ignorano quello che avviene fuori dai palazzi. Se tutti gli attori in campo scaricano i conflitti, le tensioni, le tattiche sul palcoscenico del Parlamento questo spazio è destinato a diventare un’arena impazzita nella quale ci si batte per strappare visibilità e conquistare spazi televisivi. Per questo la diffusione di conflitti sociali e non di guerre mediatiche, l’apertura di spazi di partecipazione reale e non di sondaggi online a tempo, la costruzione di forme democratiche oltre la crisi oggettiva della rappresentanza politica tutta (tutta) è l’unico antidoto alla guerra civile simulata che è andata in scena alla Camera.” E qua verrebbe da fare un paragone azzardatissimo con un bellissimo pezzo che ci è capitato tra le mani “contro il consumo di dissenso“ ma che ci porterebbe indubbiamente fuori strada perché se è vero che gli antefatti hanno la loro importanza, sono le derive, in questo caso, quelle che preoccupano maggiormente.
In questa vicenda l’utilizzo strumentale dei simboli ha raggiunto livelli da Leone d’oro e tra la “Bella ciao”cantata dai banchi della maggioranza e la “Nuova resistenza” proclamata da Beppe Grillo non si sa proprio a chi donare l’Oscar.
Sicuramente definire eversiva l’opposizione dei grillini in Parlamento significa solo non avere capito bene cosa sia la vera l’eversione. Sicuramente paragonare assurdamente un ostruzionismo aggressivo come quello di una settimana fa con il fascismo significa ignorare che i fascisti vinsero le elezioni e che gli antifascisti erano i dissidenti e non la maggioranza. Sicuramente scandalizzarsi davanti a una tale bagarre può essere comprensibile al netto degli eccessi infantili e delle stupidità pentastellate ma non sono di certo queste ad essere eccezioni alla Camera o vogliamo veramente scordarci quella dei fratelli Pajetta contro la Legge truffa?
Copiamo pari pari da qua:

Vi ricorda qualcosa di attuale? Bologna? Granarolo? O la logistica italiana che è diventata un campo di battaglia vero e proprio e non una “guerra civile simulata”. A ben guardare tutta questa difesa igienica e asettica delle istituzioni affatto disinteressata e completamente propensa alla difesa dello status quo si ripropone anche nel “piccolo”. Basterebbe leggersi questo ignobile comunicato congiunto di Arci, Cgil e Libera sulla vicenda per comprenderlo. Una normalizzazione forzosa che preserva solo lo sfruttamento, il mercato e il buon affare, unici elementi ai quali ogni altra variabile deve essere subordinata. Siamo al tempo stesso liberisti e socialdemocratici, antirazzisti e contro le mafie per marketing ma non per convenienza. Una normalizzazione che spaventa perché tesa all’ostracismo e alla criminalizzazione di ogni forma di partecipazione che agisca al di fuori dei circuiti prestabiliti della riproduzione artificiale del consenso, quella di una rappresentanza che è ormai solo rappresentazione e che si scaglia contro ogni apparizione di qualsiasi lotta sociale reale perché impossibilitata ad intercettarla, al guidarla, al comprenderla ed infine al rappresentarla.
Viviamo in tempi particolari nei quali le mutazioni genetiche sono all’ordine del giorno e l’alfabeto della politica è stato del tutto dimenticato. Nello “spazio pubblico” non ci sono più pratiche, ragionamenti, atteggiamenti, linguistiche e azioni “fasciste” ma solo persone in quanto tali perché considerate in qualche modo l’avversario politico del momento verso il quale lanciare la propria pregiudiziale. Siamo all’eugenetica politica e bastava farsi un giretto su feisbuk la scorsa settimana per capirlo. Siamo al paradosso che anche un termine come “antifascista” possa essere inteso come postulato per affermare che esista una razza geneticamente “fascista”!! Come se ci fossero vere e proprie categorie umane da epurare o tutt’al più da riconfigurare semplicemente perché estranee al nostro recinto ideale di appartenenza. E attenzione qua non stiamo parlando di categorie quali “fascismo” o “antifascismo” in senso stretto, ci mancherebbe, ma dei meccanismi mentali che le creano ove la certezza di un’appartenenza viene posta a discapito della comprensione dei fatti e ogni pensiero “non allineato” è bollato come estraneo. Si potrebbero tranquillamente sostituire quelle categorie con altre “democratici” e “violenti” o “legali” e “criminali” che il risultato non cambierebbe.
La normalizzazione forzata della politica italiana passa anche da queste parti, soprattutto da queste parti. Dove non arriva la dialettica arriva la criminalizzazione del dissenso, la quale, assieme alla costruzione di architetture giudiziarie “fantasiose”, è ormai diventate sport nazionale. Gli esempi riempirebbero pagine e pagine basti pensare che per il danneggiamento di un compressore si rischiano fino a 30 anni di carcere con l’accusa di terrorismo mentre quattro assassini accertati sono già liberi di reindossare una divisa! Recentemente per giustificare l’arresto di due delegati sindacali dei Si Cobas, nella vertenza Granarolo, un giudice, tale Alberto Ziroldi, è riuscito ad affermare che erano “colpevoli di resistenza al padronato e alle forze di polizia, ritenute il braccio armato delle prime.” Testuali parole!
Può darsi che qualcuno, in questo Paese, continui a pensare che sia possibile decapitare l’avversario politico “istituzionale” semplicemente per via giudiziaria e alcune procure, tipo Torino, sembrano pullulare di tanti piccoli, “petit” Javert, personaggio dei Miserabili che perseguendo la legalità ad ogni costo finisce per suicidarsi dopo avere massacrato giustizia, umanità e solidarietà, quelle stesse che fingeva di servire.
L’esperienza non insegna più nulla all’interno del buco nero italiano.
Ne vedremo delle “belle”.
Posted on 8 febbraio 2014
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