Sulla riforma costituzionale e dintorni.

Posted on 6 ottobre 2016

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“Viviamo in una società di dormienti politici e isterici sociali. Di analfabeti di ritorno, ululanti sui social e nelle strade della movida, finti alternativi che obbedienti si sbracciano in un flash mob sociale e culturale di fasulla trasgressione e massima obbedienza. Di precari che s’illudono di non esserlo, o di esserlo per scelta creativa, che fanno salti mortali per far felice l’addestratore. Per dimostrare che la povertà, l’ignoranza, l’ingiustizia sociale, l’alienazione non potranno mai fermare la spinta incessante all’obbedienza, al conformismo vestito dalla luccicante teoria dell’uno su mille ce la fa. Fase post-ideologica? Macché, è la stagione della spietatezza che ci sorride e ci rende ignorantissimi saputelli schiavi: questa è l’ideologia del tempo.”

“Sotto i sampietrini c’è ancora la spiaggia.” 

 

Partiamo dalla fine. Vi sono un paio di considerazioni preliminari da fare prima di entrare ed abbozzare una riflessione circa il prossimo referendum costituzionale. Esse valgono anche come conclusioni.

La prima è che una modifica costituzionale di tale portata (gli articoli toccati dalla riforma Boschi-Renzi sigh! sono 47, più di un terzo dell’intera carta, praticamente tutta la parte riguardante l’Ordinamento della Repubblica) altro non è se non la nuova cornice legale di una situazione che nel quadro del reale ha già assunto determinate caratteristiche. Possiamo anche fingere di non saperlo ma è del tutto evidente, e ai “piani alti” ne sono perfettamente consapevoli, che bisogna adeguare Istituzioni e legislazione alla nuova architettura sociale di stampo neoliberale. E’ il modello europeo, quello dei tecnocrati e del processo di esecutivizzazione della politica. Un processo che risulta necessario consolidare andando a costituzionalizzare quelle tendenze all’accentramento del potere che già sono in corso. Un modello già operante al quale occorreva giusto cucire una veste legale attorno. Possiamo pure giocare a soppesare le virgole e spaccare il capello di un dibattito televisivo come se fosse un incontro di fioretto alle olimpiadi ma se non si guarda al “contesto” nel qual una tale riforma viene presentata e a quali tipi di “forze” la sospingono il tutto rimane un puro esercizio stilistico privo di sostanza e funzionale unicamente alla propaganda governativa.

Ricordare il Report della banca d’affari J.P. Morgan, ad esempio, circa le Costituzioni antifasciste europee è già entrare nel merito del discorso. Il fatto che dei banchieri ammettano  apertamente che ordinamenti costituzionali basati sui valori dell’antifascismo (badare bene, antifasciste non il contrario) siano incompatibili con la teologia neoliberale non è certo un dettaglio. Da questo Report del 28 maggio 2013 si può leggere:

«All’inizio della crisi si pensò che i problemi nazionali preesistenti fossero soprattutto di natura economica: debito pubblico troppo alto, problemi legati ai mutui e alle banche, tassi di cambio reali non convergenti, rigidità strutturali. Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud e le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire un’ulteriore integrazione dell’area europea»

«I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo»

«I sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo.»

Dopotutto, tanto per scrollare ogni tanto un po’ di polvere da quel falso mito che vorrebbe il mercato andare a braccetto con la democrazia quasi come fossero sinonimi, il primo esperimento di neoliberismo compiuto venne tentato nel Cile di Pinochet…. L’austerità è incompatibile con la democrazia, non col fascismo.

“Quando un uomo dice no…Roma trema”
Spartaco

 

La seconda considerazione preliminare da fare e che deriva direttamente dalla prima è che anche se al referendum del 4 dicembre prevalesse, come chiaramente auspicabile, il No, questo non sarebbe di certo sufficiente a sostenere un processo emancipativo. L’esperienza dell’OXI greco del luglio 2015 è un monito che pesa quanto un macigno. La difesa della Costituzione tout court senza un rilancio di un’iniziativa sociale in grado di guardare oltre alla Costituzione vigente si incaglierebbe certamente nella trincea paludosa a sostegno di una Carta che già oggi non è più in grado di difenderci. Jobs Act, Buona Scuola, Piano Casa, Sblocca Italia sono solo alcuni esempi nefasti di un “contesto” già mutato.

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A guardare bene la più grande manomissione della Costituzione non è quella di fronte a noi ma quella che ci sta alle spalle, vale a dire l’inserimento del Pareggio di Bilancio in Costituzione (Art. 81) passato in sordina nel 2011. Una sorta di cavallo di Troia che di fatto ne mina le fondamenta. Anche alcuni dei primi articoli (Principi Fondamentali) 3, 4, 9 ad esempio, che non potrebbero essere oggetto di revisione alcuna secondo ben tre sentenze della Corte Costituzionale diventano nei fatti incompatibili con il Pareggio di Bilancio.

Che tutto ciò sia stato votato da un Parlamento eletto con una legge elettorale giudicata incostituzionale (porcellum) non è proprio una quisquilia da azzeccagarbugli. Un Parlamento che non soddisfatto, è andato poi a riscrivere sostanzialmente l’intero Ordinamento della Repubblica presentando di fatto una nuova Costituzione, con un terzo degli articoli modificati.

Ma andiamo a vedere più da vicino cosa cambia questa riforma costituzionale, senza il bisogno di gridare a derive autoritarie che non risiedono sicuramente in una cornice legale fatta su misura, quanto piuttosto in una realtà quotidiana che ce lo rammenta a più riprese, nel connubio tra austerità ed esclusione sociale e con un cittadino privato del più minimo livello decisionale e partecipativo.

Cominciamo con il punto, a nostro avviso più succoso, vale a dire la riforma del Titolo V della Costituzione e con un filmato abbastanza esplicito e fulminate.

Si tratta di un servizio di pochi minuti realizzato nel settembre 2013 da Filippo Barone per “La Gabbia”: “Italia, un paese in svendita”. Il concetto proposto è abbastanza chiaro e rispecchia una “mentalità piazzista” emersa chiaramente  anche recentemente (vedi foto a fianco). Parlano Franco Bassanini, ex presidente della Cassa Depositi e Prestiti, attualmente Special Advisor di Matteo Renzi e Lorenzo Codogno ex capo economista del ministero dell’Economia e oggi docente alla London School of Economics: “Siccome la svendita delle quote statali di Eni, Enel e Finmeccanica farebbe racimolare solo 12 miliardi di euro, il governo e i tecnici dei ministeri hanno individuato nelle “utilities”, cioè le società di proprietà di Comuni e Regioni che gestiscono beni comuni e vitali  quali acqua, luce e gas come la vera miniera d’oro da vendere ai privati per fare cassa, è  lì che risiedono i veri miliardi.” Peccato che questi servizi: “non sono nostri, dello Stato: sono dei Comuni, delle Regioni. E quindi bisogna cambiare il Titolo V della Costituzione, ed espropriare i Comuni e le Regioni.” Sì, espropriare, letteralmente.

 

Ora entriamo nella cortina fumogena che il Governo Renzi sta tentando di spacciare. Fine del bicameralismo, semplificazione, risparmio, sono le parole d’ordine sulle quali far leva. Per quest’ultima (risparmio) la faccenda è semplicemente ridicola, a patto di avere anche solo una vaghissima idea delle dimensioni di un bilancio di uno Stato da 60 milioni di abitanti. A tal proposito anche un risparmio di qualche centinaia di milioni per la riduzione del numero dei parlamentari non avrebbe altra significanza se non quella propagandistica. Tanto per avere un metro di paragone, in spese militari, di milioni ne spendiamo circa 80, al giorno però.

Anche sulla semplificazione potrebbe scattare l’ilarità. Provate per sport a confrontare l’articolo 70: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere.” con quello revisionato e cercatene la semplificazione. Non solo, sulla fine del bicameralismo: “Il parlamento passerebbe da due possibili procedure legislative a un numero non ancora ben individuato di procedure alternative (secondo alcuni 7, secondo altri 9, secondo altri ancora 10 o 11). Anche questa incertezza sul numero di procedure è di per sé rivelatrice: gli stessi costituzionalisti, infatti, non sono in grado di elaborare un’interpretazione certa e unanime del nuovo testo costituzionale.” (Qua). Semplificazione?

Ciò a cui mira effettivamente la riforma è l’accentramento del potere nelle mani dell’esecutivo. Un accentramento che non andrebbe a sancire altro se non una tendenza già in atto e testimoniata dal proliferare e dall’uso indiscriminato dei decreti legge e delle leggi delega negli ultimi anni. “Misure che dovrebbero essere riservate a casi di necessità e urgenza che permettono di aggirare il dibattito parlamentare e che per questo non dovrebbero riguardare questioni essenziali del paese, ma che invece sono dilagate toccando anche temi centrali come, ad esempio, il mercato del lavoro: le due parti di cui è costituito il Jobs Act consistono, infatti, in un decreto legge (decreto Poletti) e in una legge delega (quella sul famigerato contratto a tutele crescenti) dal contenuto molto vago rispetto al decreto legislativo poi approvato.” (Qua)

 

 

polettispallata

Dopotutto per capire basta prestare attenzione ai membri stessi del governo e alle loro dichiarazioni. L’austerità e le misure di impoverimento sociale che essa comporta con disinvestimenti programmati, privatizzazioni (sostantivo che deriva dal verbo privare) e con i denari che prendono il largo verso Grandi Opere (Ponte sullo Stretto) o megaeventi imposti manu militari sulle popolazioni, devono passare da una dimensione prettamente “emergenziale” ad una “costituzionale”.

E’ il vecchio mantra neoliberista, quello di togliere “lacci e lacciuoli” alla mano del mercato.

Il problema è che oggi si è arrivati ad identificare con “lacci e lacciuoli” direttamente la Costituzione, il vertice del diritto stesso dello Stato e la legge fondamentale della Repubblica. Non proprio cose da niente insomma.

ecco-alcune-ragioni-per-le-quali-si-dovrebbe-votare-no-al-prossimo-referendum-costituzionale-2016