Cosa successe a Korça il 9 settembre 1943?

Posted on 18 settembre 2019

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Quella che ci accingiamo a riesumare è la storia di un massacro.

250px-1914_albania_en.svgSiamo a Korça, nell’Albania centro-meridionale, lontani dalla costa ma a poca distanza da due grandi laghi (Ohrid e Prespa), al centro di un’ampia piana coltivata, circondata da rilievi scoscesi, in un’insenatura che, sulla mappa, è posta al confine tra la Grecia e la Macedonia, al Nord di una terra anticamente chiamata Epiro.

È in posti come questi che alcune storie rimangono confinate ed è il  caso, spesso, l’unico vero agente in grado di “smuovere le acque” tra i sarcofagi del tempo. Ed è solo ed esclusivamente merito del suo intervento se si è inciampati, per caso, sulle tracce di questa storia.

Ma il caso spesso ha dei complici, l’ombra di un paio d’alberi ad esempio o un venditore di libri usati che espone la sua merce direttamente sulla strada. È così che si incappa nella riservatezza di un piccolo monumento in Bulevardi Shën Gjergjit (San Giorgio) ed è così che, casualmente, l’occhio cade su una frase in rame, sobria ed essenziale, ma in grado di attirare ugualmente tutta la tua curiosità che, da quel momento, comincerà a campeggiarci sopra.

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«Këtu, me 9 shtator 1943, gjate nje demostrate antifashiste u vranë 59 demostrues dhe u plagosën 120 të tjerë».

Quando non conosci una lingua sono i numeri quelli che saltano subito agli occhi e, in questo caso, pure una scritta così essenziale diventava in qualche modo loquace. Il percorso logico è semplice: 1943 – assonanza – demostrate antifashiste 59, 120 – altri  numeri che accendono definitivamente la tua curiosità. Siamo a pochi metri dalla cattedrale ortodossa di Korça e dalla ben più centrale statua del combattente nazionale, eretta nel 1932, eppure da questa prospettiva, non c’è più nulla che possa catturare maggiormente la tua curiosità.

«Qui, il 9 settembre del 1943, durante una manifestazione antifascista vennero uccisi 59 dimostranti e i feriti furono 120».

Quando poi ti viene detto che “shtator” in albanese significa settembre e rammenti che il 9 è il giorno immediatamente successivo all’armistizio di Badoglio allora la domanda, che prima era solo abbozzata, diventa un vero e proprio tarlo.

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«Non è opera dei tedeschi, siamo stati noi».

Chiedi in giro a dei ragazzi che lavorano per la promozione turistica della città ma nemmeno loro ne sanno nulla. Così insisti ma, quando provi a descrivere un minimo il contesto, nel senso che il 9 settembre del ’43 c’erano ancora le truppe italiane in quel luogo e non la Wehrmacht, la risposta che ti arriva sotto forma di riflesso assume l’aspetto del “mito tecnicizzato” di un passato idealizzato e mai realmente esistito: «Ma no, gli italiani qua in Albania hanno solo costruito le strade». 

Cerchi sul web pagine in italiano e scopri che, di ciò che afferma quella targa, non c’è praticamente traccia. Apprendi che a Korca c’era la divisione “Arezzo”, che la città era stata una sorta di quartiere generale per l’invasione italiana della Grecia, cominciata nell’autunno di tre anni prima, e che nel gennaio di quello stesso anno (1943) partigiani della città avevano già attaccato i fascisti (l’esercito italiano) a Voskopoja.

Allora cerchi qualcosa in albanese e qua qualche riscontro c’è ma nemmeno tanto perché sembra che della faccenda ne sia rimasta traccia soltanto a livello locale. Trovi una pagina dedicata del Comune di Korça risalente al 2008 che riporta un numero di vittime differente (32) e parla di due veicoli corazzati italiani che a un certo punto si misero a fare fuoco su una manifestazione di cittadini disarmati. Leggi e leggi ancora, con l’aiuto di un amico che ti accompagna passo dopo passo ma a cui risparmi il mero lavoro di traduzione. Per quello ti affidi a uno dei tanti programmini che ci sono a disposizione su internet e tutt’al più domandi quando proprio la sintassi risulta incomprensibile.

Intanto, a Tirana, lui fa un salto alla Biblioteca Nazionale per vedere se nel giornale dell’epoca Zëri i Popullit (La Voce del Popolo, che allora era ancora un foglio semiclandestino che aveva cominciato a circolare da poco più di un anno) si trova qualche accenno all’accaduto, ma niente. Anche la retorica delle commemorazioni ufficiali del 71esimo anniversario della strage non aiutano affatto a fare chiarezza.

Fondamentali, per cominciare a districarsi un minimo in questa storia e per provare a definirne i contorni, risulteranno essere tre articoli (questi: uno, due e tre) del giornale online “Shqiptarja.com”. 

Cominciano così a farsi strada nella mente anche le dinamiche e i luoghi dell’accaduto. La scena si anima e racconta di due autoblindo e di una mitragliatrice che fa fuoco sulla folla, un primo sparo davanti alla moschea (la più antica dei Balcani) – 1 morto – che dista circa quattrocento metri dal luogo della strage poi i colpi, il sangue e le grida nella piazza principale, quella con la statua del combattente nazionale vicino alla cattedrale ortodossa, dove ora c’è il monumento. Anche il tragico bilancio ci dice qualcosa. Ci dice che il numero di vittime (32), riportato sul sito del Comune di Korça nel 2008, non è del tutto campato in aria. 32, infatti, saranno i morti rimasti a terra direttamente sulla piazza mentre altri 27 perderanno la vita in seguito all’ospedale. 59 vittime, seminascoste alla memoria e avvolte nell’oblio per qualche oscura ragione.

Leggendo, infatti, scopri che Enver Hoxha (che a Korça insegnò francese nel liceo della città dal ’36 al ’39, diventando in quegli anni uno dei membri più attivi del gruppo comunista locale, prima che la nuova amministrazione italiana lo licenziasse) per qualche oscura ragione del massacro del 9 settembre 1943, non parlerà mai. Forse perché in contrasto con l’epica ufficiale del Lëvizja Nacional Çlirimtare (Movimento di Liberazione Nazionale) o forse perché, di lì a pochi giorni, a Gërhot, una località vicino a Gjirokastër, i destini di quest’ultimo si incroceranno per un attimo e in maniera tragica, a quelli del Balli Kombëtar. Mistero.

Se non ne parla Hoxha però, nell’Albania del dopoguerra, allora non ne parla nessuno e il fatto, di conseguenza, non entra nemmeno sui libri di storia albanesi. Sulla vicenda cala così un sipario di oltre una quarantina d’anni; un buco nero temporale dentro al quale questa storia si rarefà lentamente, adattandosi all’ovattata  esclusività della memoria locale.

Del massacro così, rimane giusto la targa commemorativa che, si scoprirà, non è nemmeno l’originale perché questa venne rimossa nel 1991, durante le turbolenze dettate dalla transizione del sistema politico, per poi essere restaurata l’anno dopo, nel ’92.

E forse è per questo che, ipotizziamo, tutti gli articoli in lingua albanese che abbiamo consultato riportano una frase che è leggermente differente da quella che c’è effettivamente sulla targa commemorativa di oggi.

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“Këtu më 9 shtator 1943 në demonstratën antifashiste të qytetit të Korçës u vranë nga fashistët italianë 59 dhe 120 të plagosur”

In quella che ipotizziamo essere la dicitura della targa storica (perché riportata da tutti, e sottolineiamo tutti, gli articoli trovati sul web), infatti, c’era una particella in più – “nga fashistët italianë” che specificava chiaramente da chi era stata compiuta la strage – “dai fascisti italiani”. 

Profughi_della_Vlora_in_banchina_a_Bari_8_agosto_1991Ora, immaginando che questo dettaglio sia stato tralasciato intenzionalmente nel 1992, quando cioè la targa venne rimessa al proprio posto (chiaro che si  trattava di un momento particolare per il Paese, per dirla in maniera figurata e tranciante, la nave Vlora che arriva al porto di Bari è dell’agosto del ’91, e allora all’Italia forse si guardava più con un occhio di speranza che altro) possiamo intuire come il rischio più grosso, nel maneggiare questa storia, per quel poco che si sa, sia proprio quello di proiettarvi sopra i bisogni politico-ideologici del momento.

Allora, pensi, la cosa migliore da fare per rendere servizio a questa strage, dato il misterioso silenzio che l’ha circondata e le poche informazioni telegrafiche di cui disponi, è quella di ampliare maggiormente la prospettiva e cominciare a sbirciare nei dintorni di quel periodo.

 

«Ma no, gli italiani qua in Albania hanno solo costruito le strade». 

Per iniziare ad orientarsi allora, bisogna riavvolgere il nastro alla primavera del 1939, quando la Seconda Guerra Mondiale non era ancora scoppiata ufficialmente e le ambizioni personali del conte Ciano cominciavano a combaciare e a sovrapporsi con prepotenza all’aggressività della  politica estera italiana.

Alle 5.30 della mattina del 7 aprile, Venerdì Santo, Durazzo, Valona, Shëngjin e Saranda furono attaccate da quasi ventiduemila soldati appoggiati da circa quattrocento aerei, trecento carri armati leggeri e dodici navi da combattimento. […] I combattimenti proseguirono per due, tre ore nell’intera Durazzo ma cessarono immediatamente dopo lo sbarco di un grande numero di carri armati leggeri. […] Le informazioni sul numero dei morti erano le più disparate. I cittadini di Durazzo dicevano che gli italiani avevano perso quattrocento uomini. La propaganda italiana asseriva che durante l’operazione in Albania, l’Italia aveva perso soltanto dodici soldati. Ma è sicuro che solo a Durazzo furono uccisi all’incirca duecento italiani e settecento in tutta l’Albania. Il numero delle perdite albanesi deve essere stato maggiore. Al porto di Valona non si ebbe una resistenza importante, ma le truppe motocicliste italiane caddero in imboscate sulla strada fuori città, subendo diverse perdite. […] Il pomeriggio del 7 aprile la marcia trionfale del generale Guzzoni fu costretta ad arrestarsi per quasi sei ore, col disappunto di Mussolini e di Ciano, che temeva che questo ritardo potesse dare l’impressione che fossero stati gli albanesi a ostacolare gli italiani. […] Come dichiarava il principale assistente di Ciano, Filippo Anfuso, che accompagnava il conte nel suo volo per visionare il campo di battaglia, “se gli albanesi avessero disposto di una brigata di fuoco ben equipaggiata, potevano rigettarci nell’Adriatico”. L’organizzazione dell’intera spedizione era stata inadeguata, in parte perché ai comandanti militari era stato dato poco tempo per prepararsi. Lo stesso Pariani fu messo a conoscenza dello sbarco in Albania solo il 29 marzo, mentre il comandante delle operazioni, il generale Guzzoni, fu informato solo il 31 marzo. Ma quello che impressiona di più è il fatto che alle forze aeree l’ordine di invadere l’Albania fu notificato solamente due giorni prima dell’offensiva. […] Molte reclute furono assegnate alle truppe motorizzate dei motociclisti senza che fossero in grado di guidare una motocicletta, mentre molti furono inclusi nei reparti di collegamento, senza conoscere l’alfabeto Morse. *

Situazioni che si ripeteranno ben presto anche in Grecia, diciannove mesi dopo, con un’altra invasione dalle conseguenze ben più profonde. Ma questo lo vedremo. Per ora limitiamoci a dire che l’Albania presa di mira dal conte Ciano, genero di Mussolini, era un Paese estremamente arretrato, che aveva proclamato formalmente la propria indipendenza dall’impero ottomano nel 1912 e, tra un protettorato e l’altro, dal ’28, era finito nelle mani del regime corrotto di re Zog. Un soggetto protagonista della politica albanese dei primi anni ’20 che, con l’aiuto finanziario di Mussolini, riuscì a creare una sorta di monarchia costituzionale, autoproclamandosi Mbret i Shqiptarëve (Re degli Albanesi).  Questo almeno fino al quell’aprile del ’39 quando, con l’occupazione militare del Paese, la politica estera italiana, per non essere da meno, sentì il bisogno di imitare le gesta dell’alleato Hitler che a marzo aveva appena occupato la Cecoslovacchia e, un anno prima, inglobato l’Austria nel Reich. L’Anschluss. «L’Albania è la Boemia dei Balcani, chi ha in mano l’Albania ha in mano la regione balcanica. L’Albania è una costante geografica dell’Italia. Ci assicura il controllo dell’Adriatico […] nell’Adriatico non entra più nessuno […] abbiamo allargato le sbarre del carcere del Mediterraneo» affermerà Mussolini, durante una riunione Gran Consiglio del Fascismo, meno di una settimana dopo l’invasione.

L’Albania pre-occupazione era un Paese che aveva già subito una profonda penetrazione economico-finanziaria da parte dell’Italia. La  Banka Kombëtare e Shqipërisë, la Banca Nazionale d’Albania, fu fondata a Roma nel 1925 con capitali in teoria misti, in pratica a maggioranza italiana e, nella capitale italiana, cosa indicativa, mantenne sempre la sede legale. Inoltre,    attraverso una società chiamata SVEA, per lo sviluppo economico e lo sfruttamento delle risorse naturali albanesi, che prestò al governo di Zog una somma considerevole, l’Italia aveva già ottenuto un secondo grimaldello per il controllo diretto del Paese. In pratica, la copertura del prestito era garantita dalle entrate doganali albanesi sull’utilizzo delle quali, però, la società aveva più di una voce in capitolo. I cospicui investimenti portarono così alla costruzione di strade, ponti e di edifici governativi, incluso il palazzo di Zog a Durazzo, in pieno stile fascista, che tuttavia risultarono molto più funzionali agli interessi militari italiani che ai reali bisogni del Paese.

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La bandiera del  Protettorato italiano d’Albania con il fascio littorio ai lati e la corona dei Savoia in cima.

Ora, nella primavera del ’39, però, con l’occupazione, era direttamente Galeazzo Ciano, assieme al Luogotenente Generale del Protettorato italiano d’Albania, Francesco Jacomoni a giostrare la situazione. L’obiettivo di Ciano, che verso l’Albania svilupperà una sorta di atteggiamento quasi paternalista, era quello di stabilire una colonia che non somigliasse a una colonia. Una sorta di colonialismo tutto onori e zero dolori. Come se potesse mai esistere un colonialismo tale, sulla cui immagine – italiani brava gente – si fonderà poi tutto il rimosso della natura profondamente coloniale dello Stato italiano passato e presente. Ma questo è un altro discorso. Gli investimenti italiani nel Paese furono cospicui: 1.500 chilometri di strade in progetto di cantierizzazione per i primi due anni d’occupazione (le famose strade fatte dagli italiani col sudore di 30.000 operai albanesi!) e una serie di lavori per infrastrutturare il Paese anche a scopi militari.

Tutt’ora, se fate un giro per Tirana, potete accorgervi facilmente  dello stile architettonico, che qualcuno definirebbe “Architettura italiana d’oltremare”, dei principali edifici pubblici nel centro della capitale anche se, molti dei quali, vennero costruiti prima dell’occupazione vera e propria. Ma vediamo cosa ci dice su di essi Bernd Fischer nel suo libro, “L’Anschluss italiano”:

Meno utile ,a pur sempre fonte di occupazione per gli albanesi, fu la costruzione dei grandi edifici di stile fascista a Tirana che, secondo le autorità italiane, avrebbero dato lustro all’impero italiano. Tra le capanne di Tirana, gli italiani costruirono palazzi di marmo per il Partito Fascista, per l’Organizzazione della Gioventù Fascista, per l’Istituto Fascista Albanese per gli Infortuni sul Lavoro e per il Servizio Sociale Fascista. Questi edifici non solo erano inutili, ma risultarono anche non funzionali ai loro scopi, avendo grandi facciate e spazi interni assai angusti. […] L’amministrazione italiana dell’Albania non ebbe quindi successo e gli italiani si crearono da soli una serie di problemi. Dopo una notevole attività iniziale, caddero nella disorganizzazione, nel vuoto direttivo, nella corruzione e si limitarono a sviluppare azioni a breve termine scarsamente incisive. La corruzione era largamente diffusa fino ai più alti livelli della gerarchia. Le grosse somme che Roma elargì crearono grosse occasioni per avventurieri e truffatori, e furono una tentazione per affaristi e fornitori italiani, i quali, in altre condizioni, avrebbero agito legalmente. Per gestire il flusso di denaro fu realizzata un’amministrazione elefantiaca. I burocrati fascisti si assicurarono lavori remunerativi e contratti per amici o ditte in cui avevano interessi personali. Abbiamo già accennato agli edifici di marmo che gli italiani eressero per le varie organizzazioni fasciste. Non stupisce il fatto che il segretario personale di Mussolini avesse cospicui interessi nelle cave di marmo di Carrara. Lo stesso Ciano fu coinvolto in queste attività. Con i grossi fondi segreti che aveva a disposizione per le spese più varie, Ciano mise in piedi una rete gigantesca di corruzione. Quando la polizia lo scoprì, decise di non informare Mussolini. *

In poche parole, dalla corruzione del regime di Zog a quella di Ciano cambiava giusto l’intestazione. La facciata. Un po’ come accadde per il nome della città di Sarandë, da prima ribattezzata da Zog in Zogaj, poi rinominata Porto Edda in onore di Edda Ciano, la moglie del conte e figlia di Mussolini.

Questo non vuol dire che la corruzione rappresentasse un fatto inedito e sconvolgente per gli albanesi. Ma durante il regime di Zog era stata limitata alla Corte e agli ambienti a essa vicini. Con gli italiani, la corruzione si diffuse largamente e diventò evidente. Gli albanesi capirono ben presto che gli italiani ai vertici dell’amministrazione dello stato e del partito avevano interessi finanziari in determinati progetti, e che per determinati progetti di costruzione e contratti di forniture erano pagate somme molto più elevate del loro valore reale. Giovanni Giro, l’ispettore che controllava le retrovie del fascismo albanese e del movimento della gioventù fascista albanese, risultò implicato in molti traffici. […] Gli albanesi non amavano Giro anche per il malcelato disprezzo che nutriva verso di loro e che lo aveva spinto a italianizzare tutto, anche la lingua albanese, che considerava “un incomprensibile dialetto”. […] Giro non era l’unico a disprezzare gli albanesi. Ciano si lamentava anche degli esponenti della classe media italiana, che “trattano male i locali e hanno una mentalità ingiustamente coloniale. Purtroppo ciò avviene spesso anche negli ambienti degli ufficiali e soprattutto, secondo Jacomoni, delle loro mogli”. Il plenipotenziario tedesco riferisce di incidenti che si verificavano quando soldati e operai italiani molestavano e offendevano le donne albanesi o erano sorpresi a rubare a Tirana e nei villaggi vicini. *

Insomma, la situazione sul campo era lungi dall’essere quella idilliaca che la propaganda del regime dipingeva con cadenza quotidiana e gli episodi di opposizione e di resistenza all’occupazione non tarderanno certo ad arrivare. Ma ora, per tornare a noi, facciamo per un attimo ritorno a Korça, più o meno nel periodo in cui Enver Hoxha veniva cacciato dal liceo della città.

Quando gli italiani arrivarono in Albania nel 1939, per prima cosa chiusero le scuole, con l’intento di condurre una valutazione generale sia per quanto riguardava gli alunni che gli insegnati. Questi ultimi rappresentavano una particolare preoccupazione, poiché gli italiani non poterono fare a meno di notare che la classe degli insegnanti, benché povera, contava più patrioti nazionalisti di qualunque altra classe capace di esercitare una certa influenza nella società albanese. […] Controllare il sistema scolastico risultò meno difficile che controllare gli studenti. Gli italiani tentarono di farlo, formando una rete di organizzazioni fasciste giovanili. Venne creata la Federazione della Gioventù Albanese del Littorio. Le ragazze vennero inquadrate nella Gioventù Femminile del Littorio, mentre i ragazzi sotto i quattordici anni furono organizzati nei gruppi dei Balilla. Le autorità italiane avrebbero scoperto ben presto, comunque, che guadagnare i cuori o le menti degli studenti albanesi non sarebbe stato così facile come avevano sperato. *

È chiaro che nei primi mesi d’occupazione l’atteggiamento degli albanesi verso gli italiani era perlopiù d’indifferenza. Con vie di comunicazione estremamente arretrate,  con radio e giornali scarsamente diffusi (l’analfabetismo toccava l’85%) e con la memoria che aveva già visto truppe straniere attraversare più volte il proprio territorio per poi sparire, difficilmente si poteva pensare ad un’opposizione immediata all’occupazione italiana. Ben presto però i primi segnali d’insofferenza si cominciarono a notare: studenti che si rifiutavano di cantare Giovinezza, ritratti di Mussolini e di Vittorio Emanuele strappati dai muri degli edifici pubblici, scioperi dei portuali di Valona e dei minatori di Selenica, manifestazioni studentesche nelle principali città del Paese, oppure, semplicemente, studenti delle scuole medie che alzavano di malavoglia il braccio per il saluto romano. E già in maggio Ciano annotava: “C’è un po’ di maretta negli ambienti degli intellettuali albanesi, ragione per cui una ventina di persone verranno subito assegnate al confino”.

Nel mentre, scoppia la Seconda Guerra Mondiale. Il primo settembre del ’39, con le prime bombe che cadono a Westerplatte, nella Città Libera di Danzica, ha inizio l’orrore del conflitto. L’Italia entrerà in guerra qualche mese dopo, nel 1940.

«Ho bisogno soltanto di qualche migliaio di morti per potermi sedere da ex-belligerante al tavolo delle trattative».

A fine maggio, coi Panzer tedeschi che avevano già raggiunto la Manica, Mussolini pronuncerà la sua celebre frase. Il 10 giugno, con la Wehrmacht alle porte di Parigi da cinque giorni, l’Italia entra in guerra a fianco di Hitler. L’indomani, Torino viene bombardata dagli aerei della Raf mentre, quattro giorni dopo, squadre navali francesi colpiscono pesantemente le città di Savona e Vado Ligure. Non sarà una passeggiata, non sarà una vittoria, non saranno qualche migliaio di morti.

La guerra incombe anche al di là dell’Adriatico. Il 28 ottobre, con otto divisioni e un totale di 140.000 uomini, l’Italia, sotto una pioggia torrenziale, dà il via all’invasione della Grecia. Il 22 di novembre Korça cade in mano greca e, a dicembre, le truppe elleniche conquistano quasi il 25% del territorio albanese. Eccolo, il sogno della “Grande Albania italiana” che aizzava e accarezzava l’irredentismo albanese, e che porterà, a Korça, in un discorso pubblico tenuto a giugno,  il ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Bottai, a paragonare l’Albania al Piemonte promettendo una rapida estensione dei confini albanesi. Intanto a Menton, al confine con la Francia vengono affissi cartelli ironici con la scritta: “Qui è territorio francese: greci, non avanzate oltre!” L’invasione della Grecia cambia le cose in Albania, cambia le cose in Italia, segnando l’inizio della fine del regime di Mussolini e cambia le cose in generale, coi nazisti costretti a correre in soccorso dell’alleato fascista italiano ritardando così l’Operazione Barbarossa e i piani di invasione dell’Unione Sovietica.

Senza l’inizio della disfatta militare italiana non si può comprendere pienamente l’8 settembre, il dramma dei soldati italiani di stanza in Albania dopo la capitolazione  e i fatti che accadranno a Korça il giorno successivo. Per questo, ci affidiamo alle parole di un romanzo uscito di recente,  “La macchina del vento”, che descrive l’invasione della Grecia e l’inizio della fine di Mussolini (Pasta-e-fagioli) dalla prospettiva dei confinati a Ventotene.

Che la guerra di Grecia  avesse come unico movente il narcisismo di Pasta-e-fagioli lo capimmo subito perfino noi. Capimmo pure che sarebbe stato un disastro. […] Il 7 ottobre, truppe tedesche entrarono nel regno di Romania, su invito del nuovo dittatore, il generale Antonescu. […] Dell’ingresso in Romania, Pasta-e-fagioli fu informato soltanto l’11. L’andazzo era quello: la Germania faceva e disfaceva, decideva e si muoveva, degnandosi di avvisarlo solo quando le pareva.

– Ne ho abbastanza! – sbraitò. Cosa sono io, un lacchè, un reggicoda? Ah, ma stavolta la vedrà, il Führer, la vedrà! Stavolta lo metto io davanti al fato compiuto!
Il duce bramava una guerra tutta sua, non più subordinata a quella dei crucchi ma parallela, sì, ecco la parola giusta! «Parallela»! Fu così che, per dispetto, decise di invadere un Paese, d’infilata. «Senza dir asino né porco», diciamo a Ferrara. Invadere un Paese. Meglio se nei Balcani, per poter partire dall’Albania. – Che faccio? – si domandò. – Invado la Grecia o la Jugoslavia? – Per decidere, adottò il più sensato metodo di analisi geopolitica: fare ambarabacicicocò sulla mappa. – Il dottore si ammalò, am, ba, ra, ba, ci, ci, co… cò! La Grecia! A quel punto chiamò il genero, che era al ministero degli Esteri. Galeazzo! Invadiamo la Grecia! Galeazzo, c’al iera un imbezíl, ne fu subito entusiasta e si mise a orchestrare provocazioni, per avere almeno uno straccio di casus belli. Nel resto dell’entourage, invece, molti rimasero sconcertati: – Ma perché la guerra alla Grecia? che senso ha?

La dittatura di Ioannis Metaxas si ispirava al fascismo nostrano, lo emulava fino al punto di adottare camicia nera e saluto romano, ma non sta scritto da nessuna parte che i fascismi debbano amarsi, o aver fiducia l’uno nell’altro. In fin dei conti, non può esistere l’Internazionale nazionalista, sarebbe soltanto un ossimoro. […] Quando l’Italia aveva invaso l’Albania, degli screzi c’erano stati. Metaxas, temendo sconfinamenti e pure peggio, si era allarmato e aveva chiesto un intervento della Gran Bretagna. In soldoni, Londra aveva detto: «L’Italia non osi toccare la Grecia», e non era successo più nulla. Era passato già più di un anno e, perlomeno su quel versante, ogni cosa pareva tranquilla. Tanto che, il 2 di ottobre, Pasta-e-fagioli aveva ordinato, in vista dell’inverno, una massiccia smobilitazione dell’esercito: più di cinquecentomila uomini erano già sulla strada di casa, o si preparavano a partire. Ma dieci giorni dopo… Ambarabacicicocò.

Ad Atene, l’ambasciatore Grazzi ricevette un testo in codice dell’ultimatum al governo greco la sera del 27 ottobre, mentre dava una cena di gala per «festeggiare la distensione dei rapporti italo-ellenici». […] Era un ultimatum fittizio, farina del sacco di Galeazzo, scritto per essere irricevibile. L’ambasciatore aveva il compito di consegnarlo a Metaxas personalmente, alle tre di quella stessa notte. Così cominciava il XVIII anniversario della Marcia su Roma: […] L’invasione partì il giorno dopo. Il piano prevedeva un attacco di terra dall’Albania italiana – dai monti del Pindo, al confine con l’Epiro – e un attacco dal mare, con lo sbarco anfibio nell’antica Corcyra. […] sulla catena del Pindo, battuta da un acquazzone che durava da tre giorni, le truppe italiane affondavano in uno sconfinato pantano, che rendeva indistinguibili piste e sentieri, impaludava i pensieri, appesantiva gli stivali fin quasi a non poterli sollevare. Fu in tali condizioni che fanti e alpini sostennero i primi scontri con le forze greche, che si battevano con la furia di chi difende la propria terra. La faccenda apparve subito improba, e nessuno poté fare a meno di chiedersi: – Ma perché facciamo guerra alla Grecia? [..] Attaccare l’Epiro a fine ottobre era stato l’ennesimo sfondone di Pasta-e-fagioli. […]

Per la guerra fascista novembre fu un mese di autentiche batoste. Nelle prime due settimane, la controffensiva greca annientò la divisione alpina Julia e cominciò a spingere l’occupante oltreconfine. La sera dell’11, un lunedì, aerei inglesi bombardarono le navi da guerra nel porto di Taranto, mettendo fuori uso metà della flotta. […] La mattina del 14 le forze greche, cogliendo di sorpresa il nemico, sconfinarono in Albania, con l’obiettivo di prendere la città di Coriza con l’intero suo altopiano. Il 18 Pasta-e-fagioli tenne un discorso forzato e nervoso […] – Affermai cinque anni fa: spezzeremo le reni al Negus. Ora, con la stessa certezza assoluta… Ripeto, assoluta… Vi dico che spezzeremo le reni alla Grecia! – Mentre parlava, gli ultimi soldati italiani venivano cacciati dal suolo ellenico. […] Il 5 dicembre i greci occuparono Delvina. Il 6 dicembre occuparono Saranda, che da pochi mesi si chiamava Porto Edda, in onore della figli a di Pasta-e-fagioli, moglie di Galeazzo e contessa di Cortellazzo. Il Cortellazzo dalla parte del manico ormai lo aveva il generale Papagos, comandante delle forze elleniche, che il 9 dicembre occuparono anche Argirocastro. Lo stesso giorno, in Egitto, le truppe britanniche sfondarono le linee italiane a Sīdī el-Barrānī. **

Il 17 maggio 1941, in occasione della sua prima visita in Albania, il Re, Vittorio Emanuele III, viene accolto con un attentato. L’autore, Vasil Llaçi, cugino di un altro Llaçi membro del gruppo comunista di Korça, venne impiccato a Tirana e quello stesso mese le autorità italiane controllano 1.130 case, 21.131 albanesi vengono dichiarati fuorilegge e 5.270 sono internati. Ad agosto, lo stesso Re, proclama la creazione della “Grande Albania” ma è ormai chiaro che è solo un bluff.

Verso la fine del ’41 si hanno notizie delle prime çeta (bande) organizzate nella resistenza, mentre a novembre, dopo una serie di incontri molto dibattuti dalla storiografia albanese, a cui parteciperanno anche due emissari jugoslavi, viene fondato il Partito Comunista Albanese PKsh (Partia Komuniste e Shqipërisë) che eleggerà Enver Hoxha segretario, l’uomo che dominerà, con pugno di ferro, il partito e la politica albanese nei successivi quattro decenni. Sempre nel libro di Bernd J. Fischer, dal quale sono prese molte di queste informazioni, si può leggere:

Il console tedesco riferisce che poco tempo dopo l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica, a Tirana e in altre città erano comparsi volantini della propaganda comunista. Contemporaneamente sui muri  di numerosi edifici pubblici erano apparsi i simboli con la falce e il martello. Anche se portavano le lettere PKsh, Partito Comunista Albanese (che in quel periodo certamente non esisteva, sebbene il console non lo sapesse), il console tedesco riteneva che i volantini non fossero di origine albanese. A questa conclusione arrivò analizzando il linguaggio utilizzato che, secondo lui, era estraneo alla situazione albanese e per il fatto che i volantini venivano distribuiti in maniera molto casuale. Il console non escludeva la possibilità che la propaganda comunista fosse opera degli stessi italiani, per motivare l’arresto degli albanesi che rifiutavano di collaborare. Riferiva, inoltre, che molti albanesi erano dello stesso avviso e aggiungeva, come ulteriore spiegazione, il fatto che fra i soldati italiani di stanza in Albania c’erano numerosi comunisti. A sostegno di queste affermazioni, il console elenca una serie di incidenti, nei quali erano stati coinvolti italiani che diffondevano propaganda comunista. A Elbasan e a Korça, guardie notturne albanesi avevano osservato degli italiani in uniforme, in bicicletta, intenti a diffondere letteratura comunista. In una città vicino Durazzo, la polizia albanese arrestò alcuni carabinieri italiani che stavano dipingendo simboli comunisti sui muri delle case. Un maggiore italiano fu arrestato mentre tentava di introdurre segretamente a Durazzzo materiali propagandistici, e a Tepelena due ufficiali furono accusati dello stesso crimine. *

Ora, questi dettagli sono importanti perché, come vedremo, nell’unico documento in italiano che conferma la strage di Korça il 9 settembre del ’43, in poco più di una riga, si dice qualcosa di sorprendente.

Ma ci arriveremo. Per ora limitiamoci ad accennare al fatto che, tagliando con l’accetta, nel ’42, in una conferenza a Pezë, su iniziativa di Hoxha, vennero poste le basi per quello che sarà il “Lëvizja Nacional Çlirimtare”,  (Movimento di Liberazione Nazionale) al quale aderiranno i tre principali leader della resistenza albanese di quel periodo: Kupi, Peza e Baba Faja. Mentre i bey, i repubblicani, i liberali e i nazionalisti, ma non solo, che non aderirono all’invito di Hoxha, per reazione, formarono nello stesso anno un gruppo denominato “Balli Kombëtar” (Fronte Nazionale) in chiave anticomunista. Ha inizio ufficialmente la Resistenza organizzata all’occupazione italiana dell’Albania.

La situazione per gli italiani si fa presto pesante e caotica e, soprattutto a sud del Paese, la repressione contro i partigiani assume a tratti le caratteristiche dell’atrocità (molti cittadini di Korça, in questo periodo, erano stati rinchiusi in un campo di concentramento a Durazzo). Jacomoni viene sostituito dal generale Alberto Pariani nella speranza che quest’ultimo sistemi le cose. Pariani ci prova: propone di concedere l’uguaglianza dei diritti per albanesi e italiani in entrambi i paesi, scioglie il Partito Fascista Albanese e lo sostituisce con una uova organizzazione chiamata Difesa della Grande Albania e, infine, a marzo (’43), stringe un accordo di tregua con uno dei leader principali del Balli Kombëtar. In ogni caso, è troppo tardi.

“Italiani brava gente”. Secondo le statistiche dell’Istituto nazionale albanese della Resistenza, i danni arrecati al Paese che Mussolini aveva definito “una costante geografica dell’Italia” con il quale avevamo “allargato le sbarre del carcere del Mediterraneo” ammontano a: 28.000 morti, 12.600 feriti, 43.000 deportati ed internati nei campi di concentramento, 61.000 abitazioni incendiate, 850 villaggi distrutti, 100.000 bestie razziate, centinaia di migliaia di alberi da frutto distrutti. Oltre le strade in Albania, gli italiani, avevano fatto anche altro! Ora, per dare una dimensione più precisa e figurata di cosa di cosa volesse dire e in cosa consistesse l’attività di repressione anti-partigiana realizzata dalle truppe italiane in quel periodo in Albania ci affidiamo alle parole del libro “Criminali di guerra italiani. Accuse, processi e impunità nel secondo dopoguerra”:

Il rapporto sulle distruzioni e le uccisioni di partigiani e civili albanesi durante le operazioni militari del regio esercito, relativo al periodo compreso tra l’ 8 novembre 1942 ed il 25 giugno 1943, evidenziò, tra gli altri, alcuni casi di vere e proprie stragi compiute in villaggi e cittadine dell’Albania all’interno di operazioni di contro-guerriglia antipartigiana. Dalla documentazione dello Stato Maggiore dell’Esercito risulta che l’8 novembre 1942 e il 5 febbraio 1943 nella località di Cezna Vogel e Balsh furono incendiate numerose case di “ribelli”, cioè partigiani albanesi; nella località di Gramhsi il 7 febbraio 1943 furono distrutti interamente otto villaggi e date alle fiamme diverse abitazioni di “favoreggiatori ribelli”; dal 10 marzo al 7 aprile 1943 l’aviazione italiana operò azioni di spezzonamento e bombardamento sulle località di Bosova, Parmash, Nestrami Lauga, Melathion, Velcan Moeka e Skalochon; dal 10 al 19 aprile furono incendiati gli abitati delle località di Libohovo, Kuci, Ramica e Bolena; il 19 ed il 30 aprile numerose case e abitati civili furono distrutti nelle zone di Kurvelesh e Nestorin; il 4-5 maggio vennero distrutte altre case a Bilishti; dal 10 al 25 giugno 1943 l’aviazione italiana bombardò le località di Velcan Moka e Lakeshi ed i villaggi di Carbonara e Koksopoja. In relazione alle perdite inflitte agli albanesi il rapporto registrò 508 morti, 666 arresti e 46 feriti in diversi luoghi del paese anche se in molte zone come Passo Logora, Balsh, Valona (zona sud-est), Libohovo, Vitkuqui, Kuci, Elbassan (la Questura), Fra Muzina, Dhrovjani e Linza (Tirana) non fu possibile indicare il numero delle perdite albanesi che per questa ragione vennero registrate come “imprecisate”. Le perdite tra le fila italiane ammontarono invece a 169 morti, 330 feriti e 195 dispersi. La documentazione militare inviata dal Ministero della Guerra a quello degli Esteri, al di là del suo carattere e della sua finalizzazione difensiva, evidenziava non solo la crudezza dello scontro tra partigiani albanesi e truppe di occupazione italiane ma soprattutto la condotta e l’indirizzo generale con i quali il regio esercito fronteggiò la Resistenza albanese sul piano della contro-guerriglia, dei rastrellamenti, dei bombardamenti dell’aviazione e del controllo territoriale. ***

Nell’immediato dopoguerra, parallelamente al congelarsi dei rapporti tra i due blocchi, l’Albania comincia a muovere i primi passi sull’Italia in tema di riparazioni per la guerra. Questo breve elenco, riferito solo ad un periodo ben circoscritto, tra l’ 8 novembre 1942 ed il 25 giugno 1943, è estratto dalla documentazione prodotta dagli stessi ministeri italiani allo scopo di documentarsi ed approntare la difesa di fronte alle eventuali accuse del governo di Enver Hoxha. Nello stesso rapporto, classificato segreto dal Ministero della Guerra (allora, nel ’46, il Ministero della Difesa si chiamava ancora così con molti meno veli d’ipocrisia) si può leggere anche questa nota:

Per il periodo che va dal 30 giugno 1943 all’ 8 settembre 1943, periodo per il quale non si posseggono documenti dai quali trarre i dati che servono a codesto Ministero, occorrerebbe fare ricerche molto lunghe dalle quali probabilmente non si trarrebbero dati completi […] ***

 

Korça, 9 settembre 1943. 

Arriviamo così rapidamente a quel fatidico 9 settembre. Il regime di Mussolini è sempre più traballante, in Africa settentrionale le truppe italiane sono state umiliate e respinte, la flotta è distrutta, la guerra “parallela” si è rivelata una catastrofe e, anche in Albania, le cose vanno piuttosto male. Dopo la battaglia di Stalingrado pure l’alleato tedesco, col quale l’Italia aveva condiviso il campo sia militarmente che politicamente, comincia ad arretrare. Il 10 luglio gli alleati sbarcano in Sicilia, Mussolini cade due settimane dopo mentre si attende da un momento all’altro l’annuncio della resa. Questa verrà resa pubblica solo l’8 settembre, con Badoglio che annuncia l’armistizio di Cassibile, firmato cinque giorni prima. Comincia il dramma delle truppe italiane sui vari fronti completamente allo sbando e senza più ordini precisi. Saranno 815.000 i soldati catturati dall’esercito tedesco e internati nei vari lager. Campi di concentramento, ecco il famoso “tavolo delle trattative” che Pasta-e-fagioli aveva prefigurato solo tre anni prima.

Iniziamo ora a zoomare sulla scena, la quale, oltre a darci un’idea più precisa, per quanto possibile, di ciò che accadde a Korça quel giorno, ci fornisce anche uno spaccato di ciò che è stato l’8 settembre all’interno di un esercito allo sbando di un Paese che era stato condotto dal morbo fascista per oltre un ventennio.

In Albania, nel ’43, ci sono ancora otto divisioni, circa 100.000 uomini, appartenenti alla 9a Armata sotto il comando del generale Lorenzo Dalmazzo. A Korça, come già accennato, era di stanza la divisione “Arezzo”, circa 3.000 persone, composta da tre reggimenti di fanteria 225°, 226°, 343° (in realtà il 226° era alle dipendenze operative della divisione “Firenze” che stava più a nord e che formerà, di lì a breve, assieme a un pezzo dell’Arezzo la Brigata Gramsci, li citiamo solo perché due reggimenti di questi ce li ritroveremo in seguito) e uno d’artiglieria, il 53°. Il comando è affidato al generale Arturo Torriano che aveva sostituito Michele Molinari.

L’8 settembre, alle 18:30 (ora italiana), il generale Dwight Eisenhower legge il proclama dell’armistizio ai microfoni di Radio Algeri mentre Badoglio l’annuncerà da Roma circa un’ora dopo, alle 19:42. La notizia dell’armistizio arriva a Korça per radio, alle 20.30 almeno stando a ciò che afferma Massimo Coltrinari, nel volume “La Resistenza dei militari italiani all’estero. Albania” dal quale trarremo molte delle informazioni che seguiranno, il quale scrive:

La notizia dell’armistizio giunse ufficialmente alle 20,30 per radio e, coglie gli ufficiali del Comando divisione a mensa. In tutti gli ufficiali, secondo la testimonianza del gen. Torriano, comandante la divisione, la notizia suscitò un grave senso di smarrimento e amarezza. Lontani dalla Patria, in territorio infido ed avverso agli italiani, scarse le linee di comunicazione con il mare e verso le altre unità oltre che lunghe, pericolose e controllate dai ribelli, con scarse dotazioni di viveri e munizioni poneva ufficiali e soldati a considerare la situazione grave e difficile. Inoltre era evidente a tutti che il dispositivo operativo della divisione era troppo frazionato e che la notizia dell’armistizio aveva ingenerato nelle truppe l’idea che la guerra era finita. Fra gli ufficiali, poi, si diffuse via via che le ore passavano l’impressione che anche i superiori comandi non padroneggiassero la situazione. Infatti alle 20 era giunto un ordine del Corpo d’Armata di non tenere conto di notizie annuncianti armistizi, dovute a manovre di propaganda. In più alle 22.30 il C.d.A. ordinava di collaborare coi i tedeschi contro i ribelli, confermato successivamente da un ordine dell’Armata. ****

La divisione “Arezzo” aveva un problema, innanzitutto geografico. Korça è al sud ma è incastonata in una valle. Il mare è distante. Il porto di Durazzo pure. Ancora oggi, con un’automobile e le strade asfaltate a disposizione, fai quasi prima a raggiungere Durazzo che Valona e, per farlo, devi per forza passare da Elbasan. Il confine è vicino. Pogradec dista soltanto 40 Km e, dopo Pogradec, c’è la Wehrmacht. Lo sai perché fino al giorno precedente ci collaboravi. Autocolonne tedesche di rifornimento e reparti corazzati si vedevano già da giorni transitare per Korça provenienti da Florina. Che entrino in Albania è scontato. Infatti:

L’8 settembre il generale Dwight D. Eisenhower proclamò l’armistizio con l’Italia e la radio tedesca lo comunicò intorno alle cinque del  pomeriggio. Alle quattro del mattino del 9 settembre, unità del gruppo F dell’esercito tedesco, al comando del feldmaresciallo barone Maximilian von Weichs, occuparono l’Albania, eseguendo un piano messo a punto solo tre giorni prima. Tre divisioni del XXI Corpo d’armata al comando del generale Hubert Lanz attaccarono e occuparono l’Albania con notevole efficienza, incontrando solo una minima resistenza da parte delle nove divisioni italiane concentrate in Albania o dei vari gruppi della resistenza. La 118ª divisione Jager, l’unica unità che incontrò resistenza il 9 settembre, si spostò da Nikshiq verso sud ovest. La 100ª Jager occupò Elbasan e Struga, mentre il suo 92° reggimento motorizzato occupò il territorio tra Tepelena e Valona. La 297ª divisione di Fanteria entrò a Prishtina e in Prizren secondo il piano prestabilito. L’indomani i tedeschi presero Pogradec, Tirana, Durazzo e Kukes. L’11 settembre la 118ª divisione raggiunse la costa, mentre parte della 297ª attraversò il fiume Drin. […] Nonostante la grande superiorità numerica, l’unica resistenza che opposero le truppe italiane, fu un tentativo attuato a sud di Durazzo e l’uccisione di un tenente tedesco a Tirana. Questo collasso non deve stupire, se si tiene conto della situazione delle unità italiane in Albania e del loro morale. Descrivendo la Nona armata italiana, al comando del generale Lorenzo Dalmazzo, che controllava la maggior parte del territorio albanese, un ufficiale britannico scrisse che raramente nella storia militare si è verificato che un esercito sia stato diretto e comandato peggio della Nona armata italiana e che questo sentimento era condiviso dalle truppe. I comandanti sono descritti come persone deboli, codarde ed esitanti, mentre gli ufficiali italiani, in genere, non diedero un buon esempio né alcun aiuto alle truppe, poiché si preoccuparono solo della propria pelle. *

La divisione “Arezzo” ha anche un presidio distaccato nella città di Pogradec. Già a mezzanotte si notano i primi movimenti di truppe oltreconfine. Alle 2.30 di notte arriva l’ordine dal Corpo d’Armata di saggiare le intenzioni tedesche e di non opporsi in alcun modo. I soldati di Pogradec si spostano vicino al monastero di Shën Naum in modo da sbarrare la strada per Pogradec. Il generale Torriano dà disposizioni che consentano alla divisione di tenersi libera la strada per Elbasan. Alle 4 del mattino arriva l’ordine di appurare le intenzioni dei tedeschi oltreconfine, al comando della 100ª divisione Jager tedesca che sta a Ocrida, in Macedonia. All’una, il comando del Corpo d’Armata comunica l’accordo coi tedeschi per la cessione delle artiglierie e delle armi pesanti in cambio della libera circolazione per Durazzo.

Prima di tornare a Korça il giorno della strage però rimaniamo un attimo nei dintorni perché, nel pomeriggio, c’è un ordine che cambia improvvisamente.

Nella mattinata i tedeschi disarmano di sorpresa i posti della Guardia di Finanza lungo la linea di demarcazione. Il magg. Vistarini subito si mette in contatto con il gen. Torriano, il quale, comunicando gli accordi in corso con i tedeschi, diede ordine di far retrocedere gli avamposti del presidio di Pogradec e di far rientrare a Pogradec tutti i reparti precedentemente usciti. Nel pomeriggio il III battaglione rientrò da Sh. Naum, ricevendo subito l’ordine di effettuare uno sbarramento sulla strada di Linned un altro sulla strada di Ocrida, ordine che un’ora dopo fu revocato. ****

Nel mentre a Korça, la popolazione albanese, e non solo albanese, non sta di certo a guardare. Secondo il racconto di Shefqet Pojani (nato nel 1925) uno dei due testimoni ancora in vita di quella giornata, contattato del giornale online “Shqiptarja.com” (che abbiamo già citato in precedenza e dal quale saranno prese le seguenti affermazioni) la sera dell’8 settembre c’erano stati dei primi contatti tra il Lëvizja Nacional Çlirimtare (Movimento di Liberazione Nazionale) e il comando della divisione “Arezzo” che, fino a quel momento, aveva svolto perlopiù attività antipartigiane. Ovviamente, motivo principale dei contatti era la destinazione dell’armamento pesante della divisione, se cioè le artiglierie e le mitragliatrici sarebbero state consegnate ai partigiani della città e dei dintorni (che allora erano appoggiati anche da qualche “007” inglese) o alle truppe tedesche che sarebbero sicuramente arrivate di lì a poco. Una decisione indubbiamente non semplice da prendere così su due piedi. Proprio per questo il Movimento di Liberazione Nazionale (UNÇ) locale aveva indetto per il giorno seguente una manifestazione allo scopo di fare pressione sui comandanti della divisione. Era stato anche redatto un comunicato che suonava all’incirca così: “Gli 8 milioni di baionette fasciste italiane che reggevano l’Impero romano, gettano le loro armi e le bandiere ai piedi dei vincitori, compresi noi partigiani albanesi. Oggi più che mai per mostrare agli altri nemici, i nazisti tedeschi, il potere e la determinazione nella guerra di Liberazione”. Naturalmente oltre al comunicato era stata fatta richiesta, in lingua italiana e in piena conformità all’atto di capitolazione di schierarsi a fianco dell’esercito partigiano per combattere l’invasore tedesco, ora che anch’esso era diventato nemico dello stato italiano.

Secondo Shefqet Pojani, la manifestazione del 9 settembre aveva due scopi principali: festeggiare la capitolazione dell’occupante italiano, la vittoria dell’alleanza antifascista e invitare nuovamente gli italiani a consegnare a loro le armi e non ai tedeschi. Per questo motivo, la mattina del 9 settembre, bambini, giovani, donne e uomini, gruppi da tutti i quartieri da tutti i vicoli della città ma anche di villaggi vicini cominciarono a radunarsi. La manifestazione era convocata nella piazza principale, quella dove nel ’32 era stata eretta la statua del combattente nazionale e dove ora risiede anche la lapide che abbiamo scovato, solo che per raggiungerla, i manifestanti arrivarono da tre direzioni (tutte molto vicine) dal parco “Themistokli Germenji”, dal quartiere musulmano vicino alla moschea Iljaz Mirahori e dalla Cattedrale, come riferisce Petrika Simo (nato nel 1927) che partecipò realmente all’evento.

La moschea però era molto vicina al comando della divisione “Arezzo” che allora risiedeva più o meno dove oggi è ubicata la sede del Comune di Korça, a poco più di 100 metri dalla stessa. E qua i militari italiani cominciarono a sparare e a lanciare bombe a mano, uccidendo un manifestante e ferendone un altro.

Nel volume di Massimo Coltrinari, c’è un passaggio importantissimo perché c’è una fonte italiana che conferma l’accaduto e ci dice una cosa altrettanto importante, che come vedremo non è affatto isolata, che chi manifestava non erano soltanto gli albanesi ma anche “ufficiali, truppa e civili italiani”. La strage in ogni modo, nel volume del gen. Coltrinari è riportata così:

I rapporti con la popolazione e quelli di ordine pubblico presero nel pomeriggio una piega non voluta. Scrive nella sua relazione al gen. Azzi il ten. Barbieri, in base a quanto gli riferirono i soldati dell’“Arezzo” passati alla montagna a metà ottobre 1943: ”Alle ore 16 del giorno 9 settembre la popolazione di Corcia insieme ad ufficiali, truppa e civili italiani, inscenò una dimostrazione al grido di “Morte ai tedeschi” “Viva l’Italia” e “Viva l’Albania libera”, ma una autoblinda proveniente dal Comando di divisione aprì il fuoco sui dimostranti provocando 20 morti e 150 feriti”. ****

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Petrika Simo, sopravvissuto alla strage, racconta che tra i morti c’erano anche dei bambini, che l’ospedale di Korça lavorò ininterrottamente nel tentativo di salvare delle vite e che a molti feriti vennero amputati mani e piedi rendendoli da quel giorno di fatto invalidi. E i feriti secondo la targa furono 120!

Non sappiamo se tra le vittime del 9 settembre 1943 a Korça ci furono anche degli italiani, farebbe poca differenza alla fine dei conti, la guerra accomuna e livella più di quanto saremmo mai disposti a credere, tuttavia non annulla le scelte così come non cancella affatto le responsabilità, perché quelle è bene che rimangano chiare così come chi, quella guerra, la scatenò.

Un episodio, accaduto qualche giorno prima dell’armistizio e della strage, ci chiarisce meglio cosa stava succedendo in qui giorni, che tipo di compiti doveva svolgere la divisione “Arezzo” e chi erano le parti in causa.

“L’azione del 26 agosto è stata la più impegnativa, si è combattuto nella piana di Vithkuqui (italianizzo tutti i nomi in quanto non so come si scrivano in albanese) sin dalle prime ore della giornata, già in fase di avvicinamento, fino quasi al tramonto del sole quando le CC. NN. e i fanti del III battaglione furono impegnate in un combattimento ravvicinato con forze ribelli albanesi sbucate da un boschetto laterale, tanto che il maggiore del III battaglione mi chiamò al suo osservatorio avanzato e mi invitò a battere la zona con i mortai, cosa che feci con una certa cautela con le bombe di ghisa acciaiose (e non quelle a grande capacità) perché c’era il rischio di colpire anche le nostre forze: in questa circostanza e da questo osservatorio ricordo di aver sentito gridare nel settore occupato dai ribelli queste espressioni: “FASCISTI BUCAIOLI FATEVI AVANTI” […] In mattinata Vithkuqui fu occupata e successivamente data alle fiamme. Il 29 (agosto) l’azione è terminata. Al bivio di Erseke è venuto a salutarci il ge. Torriano.” ****

Un altro villaggio dato alle fiamme che non rientrerà nei dati del Ministero a fine guerra. Pure agli italiani comunque non andrà troppo bene, anche ad alcuni della stessa divisione “Arezzo”.

Intorno al 10 settembre avevano catturato (i tedeschi) il generale Ezio Rosi, comandante del gruppo orientale dell’esercito italiano e anche il generale Dalmazzo, comandante della Nona armata. I due generali ordinarono alle loro truppe di consegnare gli armamenti e l’equipaggiamento ai tedeschi. Ed entrambi furono evacuati a Belgrado. La maggior parte dei soldati italiani in Albania ubbidirono a quest’ordine. In Albania, i tedeschi fecero prigionieri circa 90.000 italiani, mentre altri 45.000 poterono fuggire o nascondersi nel paese. […] In breve tempo l’Albania si trovò a ospitare migliaia di italiani affamati, svestiti e scalzi, pieni di pulci e lasciati in balia della sorte. Documenti britannici stimano il numero dei decessi in 100 al giorno tra questi sfortunati durante l’inverno del 1943-1944. *

Una decina di giorni dopo, infatti, la sera del 18 settembre accade questo:

Neppure la divisione Arezzo aveva potuto riunire tutti gli uomini, perché presidiava un immenso territorio che dalle colline orientali di Korça andava fino a Dibra. Alcuni battaglioni del 226° fanteria del colonnello Minaci avevano raggiunto Elbasan, da cui erano dovuti tornare indietro per il sopraggiungere dei tedeschi; ma bloccati da altri reparti germanici provenienti da Struga, si erano dovuti arrendere. Prima di partire, la divisione aveva lasciato un generoso contributo di sangue. Nella zona di Korça un gruppo di ufficiali del 226° e 343° fanteria non aveva ubbidito all’ordine del XXV corpo d’armata di consegnare le armi pesanti alla divisione Brandeburg e s’era opposto assieme ai soldati. Dopo la cattura, i tedeschi scelsero venticinque militari, li portarono sulle colline dietro l’ospedaletto di Korça e li fucilarono all’una dopo mezzanotte del 23 settembre. Due ore dopo fu svegliato il III plotone del 151° genio artieri con l’ordine di partire subito con badili e picconi. Pensavano di dover riparare qualche tratto di strada, e invece dovettero scavare la fossa e seppellirvi i compagni. Alle nove ritornarono muti e sconvolti nell’accampamento. *****

Ciò che rimane della divisione “Arezzo”, a parte coloro si erano già uniti alle forze partigiane o arruolati in qualche modo tra le file naziste della Wehrmacht, finisce in prigionia, deportato in qualche lager in Germania o chissà dove. Nel libro di Alessandro Serra qua riportato, l’episodio viene datato 23 settembre ma è una data errata. Il fatto è citato anche nel volume di Coltrinari il quale ci dice:

“Purtroppo la maggior parte degli ufficiali del reggimento, già in precedenza mal preparati dalla non encomiabile condotta del colonnello, hanno, per basso calcolo, intimidazione e degradazione morale, seguito le orme del colonnello medesimo abbandonandosi a manifestazioni e violenze tanto turpi nei confronti dei sottufficiali e dei soldati del reggimento, tali da porsi al livello dei più ripugnanti e pericolosi criminali che la storia registri; per esempio manifestazioni di questo genere: sputi in faccia, calci nello stomaco e schiaffi, epiteti di vigliacco, traditore, rifiuto sociale alla massa di soldati che inquadrati nella posizione di attenti si rifiutavano ostinatamente di passare al servizio dei tedeschi. La propaganda pro-tedeschi era incentrata sull’adesione al neofascismo, a denigrare la figura del Re e della Famiglia Reale, al tradimento perpetrato da Badoglio, propaganda che raggiunse limiti addirittura impensabili.” Anche se è tragico constatarlo, la reazione manifestatasi con fucilazioni e violenze, si accentuò laddove ufficiali italiani si schierarono apertamente con essi, ovvero l’aperta collaborazione di alcuni italiani aggravò di molto la difficile situazione. […] Il mattino del 17 settembre il 53° reggimento fu circondato da mezzi e autoblindo tedeschi e furono piazzate mitragliatrici e armi automatiche nei punti nevralgici. Alle 17 il cap. Tramonti radunava il reggimento (assenti tutti gli ufficiali superiori precedentemente fatti allontanare e comunica la liberazione di Mussolini avvenuta il 12 settembre e chiese ancora una volta l’adesione ai tedeschi. Nessuno accetta. ****

Alle 21 la situazione si ripete. Autoblindo e mitragliatrici puntate. Questa volta è direttamente un ufficiale tedesco a parlare. Dà ai soldati cinque minuti per decidersi.

Significativa per questi frangenti la testimonianza del soldato Bortolucci: “Dopo qualche momento di titubanza, cominciarono i primi a presentarsi; si presentarono circa 500 uomini di truppa, pochi sottufficiali e quasi tutti gli ufficiali. Di questi rimangono fermi solo 3: il cap. Russo, il ten. Bozza e il s. ten. Bonafede. Questi sono presi, disarmati e degradati. I sottufficiali non aderenti sono riuniti (circa una quarantina) ed ogni 8 ne viene scelto uno. Dei soldati ne vengono presi a caso circa 14 di coloro che stavano fumando in riga. Tutti questi sono portati su una collinetta presso la chiesa e fucilati”. ****

 

Perché Enver Hoxha della strage di Korça non parlerà mai?

Rimane un ultimo mistero da chiarire, il più difficile, perché il rischio qui è di entrare nel campo della pura speculazione. Avvicinarsi a questa storia ha reso subito evidente il fatto che, sui silenzi di Hoxha e su quelli del Partia e Punes e ShqiperisePPSh (il Partito Comunista Albanese), venisse proiettato un po’ di tutto e che, su quel silenzio, andassero poi a depositarsi tutta una serie di narrazioni tossiche di facile rilevazione. In alcuni brevi testi che raccontano la strage si arriva addirittura a sostenere che, fino a quel momento, gli italiani in Albania erano rimasti sostanzialmente pacifici. Assurdità come queste non rendono di certo un buon servizio alla memoria né sono in grado di chiarire i punti oscuri sul perché, questa strage, sia stata tenuta per tanto tempo “sotto chiave”.

Come già accennato, a Korça la memoria rimane abbastanza viva mentre nel resto del Paese il silenzio tombale imposto dal Partito funziona alla perfezione. Arita-marko-vdeslcuni membri del PPSh però, tra quali Rita Marko di Korça (nella foto), al memoriale (quasi lo stesso che c’è oggi) si faranno vedere qualche volta negli anni successivi. Hoxha mai, nemmeno una volta .

Il ché lascia pensare. Inoltre, il fatto verrà citato nell’enciclopedia albanese redatta durante gli ultimi anni del comunismo, la quale dedicherà all’accaduto soltanto poche righe nonostante la voce dell’enciclopedia stessa parli di “manifestazione più sanguinosa” di tutta la guerra di Resistenza, ma non verrà mai ricordata in nessun altro libro di storia pubblicato durante la dittatura di Enver Hoxha.

Nei già citati articoli, apparsi sul giornale online “Shqiptarja.com”, si lascia intuire, nemmeno troppo velatamente, che la ragione principale per la quale, su questa strage, verrà calata una censura dalle maglie molto strette è per via di un altro fatto di sangue che accadrà qualche giorno dopo a Gërhot, il 14 settembre, vicino a Gjirokastër.

I due massacri sembrano procedere su un piano parallelo e il silenzio imposto dal regime non farà altro che amplificare questa sensazione. In ogni caso, alle due stragi, i punti di contatto non mancano di certo: avvengono entrambe a ridosso dell’8 settembre, presentano ambedue una “contrattazione” sulla destinazione dell’armamento pesante tra partigiani e esercito italiano in rotta e hanno tutte e due un andamento che si gioca su una linea estremamente sottile e un confine quantomai labile. Appartenenze che sfumano e armi che parlano, apparentemente per errore. Ma ciò che le accomuna maggiormente è, ancora una volta, il silenzio imposto dal PPSh. Anche del massacro di  Gërhot, infatti, non si deve sapere nulla, va insonorizzato in loco e isolato da qualsiasi ricordo. Sembra quasi che la strage di Korça riecheggi quella di Gërhot e parlare della prima potrebbe risvegliare ciò che si desidera far rimanere sepolto nella seconda.

Sepolto letteralmente. Gërhot non è una città ma una località vicino a Gjirokastër dove staziona e si è arroccata, in attesa di capire cosa fare, la divisione “Perugia”. A Gërhot non è una manifestazione quella che va incontro ai militari italiani, ma una vera e propria azione militare a cui questi ultimi risponderanno con l’armamento pesante di cui dispongono. Il bilancio delle vittime, riportato nel volume di Coltrinari, è piuttosto ingente, si parla di numeri che oscillano tra i 300 e i 500 morti più un numero imprecisato di feriti. Secondo il capitano Vinci le vittime albanesi saranno circa 250. Tanti in ogni caso. Sul luogo in cui queste vengono sepolte, nel dopoguerra, si semina il grano e dimora una cooperativa agricola che viene tenuta all’oscuro di tutto. Nemmeno una lapide, nemmeno un sobrio e discreto memoriale come quello di Korça. Niente, nulla di nulla. enveri-dhe-hysni In uno dei due articoli che il giornale online “Shqiptarja.com” dedica al massacro di Gërhot si afferma che nel 1977, Hysni Kapo (in foto assieme a Hoxha) membro del Comitato Centrale del PPSh, in un incontro a Gjirokastër, si sia fosse lasciato sfuggire un profondo disappunto per il trattamento subito dalle vittime del massacro di Gërhot e una frase sibillina: «chiunque potrebbe essere un martire (sepolto lì sotto)».

Per provare a capirci qualcosa però dobbiamo fare un ultimo sforzo e un piccolo salto all’indietro. Torniamo al 1943, ai primi di agosto, a Mukje un paesino vicino a Tirana, si tiene un incontro che è tra i più discussi e dibattuti dell’intera storiografia recente albanese. In quest’occasione si incontrano i rappresentanti del “Lëvizja Nacional Çlirimtare” (Movimento di Liberazione Nazionale) e del “Balli Kombëtar” (Fronte Nazionale) per cercare di dare vita ad un accordo che consenta di combattere contro gli occupanti fianco a fianco. Uno dei principali motivi di divisione riguarda il futuro del Kosovo. Il Partito Comunista Jugoslavo (che ha contatti, ricordiamo, ed è presente negli incontri nei quali verrà creato il PKsh) verso la fine del ’40 aveva approvato una risoluzione sul diritto all’autodeterminazione del Kosovo ma, intorno al ’43, la situazione era cambiata, Tito non vuole alienarsi i serbi che lo considerano (come oggi) quasi un qualcosa di sacro. E il Kosovo non è affatto una questione di poco conto. Ci giocano gli italiani (fascisti), con Ciano che definisce la questione come “il lumicino in fondo al corridoio”, aizzando le aspirazioni albanesi col miraggio della “Grande Albania”, ci giocano i tedeschi (nazisti) che, di lì a poco, riusciranno a portare il “Balli Kombëtar” a schierarsi dalla loro parte, ci giocherà Milošević, 46 anni dopo, per salire ai vertici della leadership Jugoslava, fatto che contribuirà non poco alle guerra decennale che seguirà.

A Mukje, Hysni Lepenica (che morirà a nella mattanza di Gërhot) viene nominato comandante responsabile della zona Vlorë-Gjirokastër. Attorno a questo personaggio, che Hoxha nelle sue memorie tratterà sempre in maniera molto sprezzante, fiorirà tutto un filone di letteratura nazionalista che andrà ad iniettarvi i patogeni del mito e che contribuirà a creargli intorno un certo alone di leggenda. Francamente, le ricostruzioni eccessivamente personalistiche non ci convincono affatto e rifuggiamo a gambe levate da tutta quella vulgata che sembra proiettare, a posteriori, su questo personaggio poteri quasi redentori, in chiave patriottica, rispetto alla guerra di Liberazione e ai decenni successivi. Nel volume di Bernd J. Fischer, forse l’opera internazionale più completa rispetto all’Albania di quegli anni, si legge:

In generale il BK era un’organizzazione con una struttura molto più libera, che permetteva ai comandanti delle çeta di agire in modo indipendente. Molti usarono questa libertà per opporre resistenza all’invasore. Il BK fu in grado di formare un’organizzazione che, sotto diversi punti di vista, riuscì a essere parallela al MLN. […] Si assicurò il sostegno di molti membri del governo di Kruja, come Hasan Dosti, ministro della Giustizia, e di un numero considerevole di funzionari nella zona di Gjirokastra, tra cui il prefetto Faik Quku. Questi risultati allarmarono il MLN, specialmente quando l’influenza del BK aumentò nei villaggi del sud, dove faceva propaganda contro il MLN e costituiva nuovi gruppi. […] Esistono alcune informazioni isolate dell’inizio del 1943 sulla collaborazione tra le unità del BK e del MLN. Questo si potrebbe spiegare forse per la struttura libera del BK e con il fatto che spesso trascorrevano mesi senza che la base avesse contatti con la propria leadership. […] Riguardo ai membri del BK, Hoxha scrive: «Alcuni sono partigiani dell’intrigo, alcuni dell’allarmismo, altri partigiani delle parole grosse, ma nessuno è un partigiano d’azione». […] Nel 1943 Hoxha scrive a proposito del BK: «È veramente un ostacolo per noi e non dobbiamo sottovalutare l’influenza individuale dei suoi membri in Albania, poiché hanno creato nella gente l’opinione che esiste un’organizzazione nazionalista, con la quale i comunisti devono intendersi e arrivare a un accordo». *

La situazione, a Gjirokastër, nei dintorni dell’8 settembre sembra essere alquanto complessa:

Si aveva notizia che nella zona operavano bande comuniste organizzate da due ufficiali russi operanti nella zona di Zagoria. Altre bande, organizzate da un maggiore inglese, operavano sui monti del Kurvelesh. Elementi del “Balli Kombëtar” erano presenti in forze e non erano gli altri “ribelli” filosovietici o filoingelsi o filoccidentali. Essi erano ostili a tutti, quindi anche agli italiani, in quanto volevano una Albania libera da ogni ingerenza straniera. Infine vi erano bande irregolari di “nazionalisti”, organizzate e sostenute da noi italiani, che però davano scarso affidamento.  ****

L’ 11 settembre, sul castello di Gjirokastër, sventola la bandiera rossa albanese con l’aquila a due teste. A Gërhot, nella base militare non si sa di preciso cosa fare. Arriva un messaggio da parte della çeta della valle di Zagoria che minaccia di tagliare l’acqua alla base se non vengono consegnate subito le armi. Anche il “Balli Kombëtar” domanda la consegna delle armi. Il 14 settembre scade l’ultimatum e due messaggeri italiani si presentano ad entrambi gli schieramenti albanesi con lo stesso messaggio: «Non cediamo le armi a nessuno. La stessa risposta è stata data all’altra parte». Nel volume di Coltrinari si riportano diverse testimonianze di quei momenti:

Gli albanesi stavano seduti sul ciglio della strada, davanti ai nostri fortini parlando tra loro tranquillamente.  Alcuni mangiavano, altri discutevano distrattamente, altri stavano in piedi, qualcuno sventolava la bandiera (rossa) albanese. L’insieme non era una unità militare pronta ad un assalto, piuttosto un insieme di uomini che pacificamente veniva a prendere possesso di cose che consideravano loro da parte di alleati o in ogni caso da parte di persone che stanno lasciando il posto. ****

Sulle dinamiche del conflitto a fuoco, invece, le versioni riportate sono piuttosto disparate e contraddittorie, gli unici elementi che le accomunano sono che gli albanesi sono armati, l’incertezza di fondo e il rapido precipitare della situazione.

“la divisione ebbe a subire un attacco con forze notevoli da parte dei comunisti… Verso le ore 15 si cominciarono a notare movimenti di colonne formate da armati, i quali agitando grandi bandiere rosse con falce e martello, convergevano sul nostro campo” […] “Alle ore 17 del giorno 14 (15 secondo la relazione) reparti nazionalisti armati prendevano posizione attorno alla città militare forse senza intenzione di aprire il fuoco ma per occupare le nostre posizioni prima dei partigiani, credendo imminente la nostra partenza per Porto Edda. Sennonché alcuni nazionalisti fra i più malintenzionati aprirono improvvisamente il fuoco che fu il segnale di inizio di un vero e proprio combattimento difensivo in cui presero parte i nostri cannoni (un gruppo da 100/17 e tre compagnie cannoni da 47/32 ed i nostri mortai da 81”. La battaglia vide anche il coraggio di alcuni nazionalisti, tra cui Hysni Lepeniza, avvocato del circondario di Valona, e il vice capo del suo gruppo, Runa. Entrambi furono catturati e tenuti come ostaggi. Lepeniza fu portato sotto un albero e ucciso a colpi di bombe a mano. Gli furono trovati addosso tremila lek, che i soldati offrirono al gen. Chininello, che li rifiutò sdegnosamente. ****

La divisione “Perugia” è pesantemente armata e, quando aprirà il fuoco, lascerà sul campo un un numero considerevole di vittime. Ma è nelle pagine successive che, a nostro avviso, si possono individuare i primi responsi di questo mistero. Il giorno seguente, infatti, alcuni portavoce albanesi si recano al Comando di divisione per chiedere una tregua e poter recuperare i morti. Gli italiani acconsentono.

Il cap. Vinci afferma: “Gli albanesi non fidandosi eccessivamente conducevano con loro un prete della missione cattolica italiana di Argirocastro e procedevano al recupero delle salme. Lo strano era che erano assieme per compiere l’operazione dei ballisti e dei partigiani e che fra i morti si trovavano persone di ambedue i partiti.” ****

Ed è fra i morti forse che risiedono anche le prime risposte di questo mistero. Secondo quanto afferma Ylli Polovina in questo articolo su “Shqiptarja.com”, una settimana dopo i fatti di Gërhot, la sezione locale del PKsh (Partito Comunista) di Valona distribuisce volantini che annunciavano l’eroica morte del militante Ismail Serjani, morto a Gërhot e membro del “Lëvizja Nacional Çlirimtare”, il quale verrà anche proclamato “Dëshmor i Atdheut” (Martire della Patria) nei primi anni dopo la Liberazione.

Il “Balli Kombëtar” in seguito collaborerà apertamente coi tedeschi mentre la storiografia albanese, controllata dal regime, cercherà di imporre un’epica quantomai omogenea alla guerra di Liberazione. O almeno questa è l’idea che ci siamo fatti. In poche parole, se la guerra di Liberazione fonda il nuovo Stato albanese del dopoguerra, dominato in tutto e per tutto dal PPSh, allora forse, ipotizziamo, questa necessita anche di una solennità conformata che cristallizzi e cementifichi i rapporti di forza vigenti allora nel Paese. Dunque ogni altro elemento che metta in crisi queste nuove certezze è da considerare un pericolo che andrà sepolto o reso afono.

Se siete arrivati con pazienza fino a qui allora meritate anche tutta la sincerità del caso. L’essersi imbattuti in questa storia, sostanzialmente inedita in italiano (dopo questo primo thread su Twitter verranno modificate un paio di pagine su Wikipedia e anche Osservatorio balcani e caucaso uscirà con un primo pezzo sulla strage) in modo del tutto casuale e il districarsi in essa si è rivelato piuttosto difficile. Un po’ perché essere consapevoli di calpestare per primi una storia del  genere, del tutto “nuova”, comporta della responsabilità che non sempre ci siamo sentiti di portare e un po’ perché pienamente consapevoli di non essere in alcun modo all’altezza della situazione. Fare uscire questa vicenda dall’oblio nella quale era relegata era un compito che non crediamo affatto di essere riusciti a portare a termine. Chi scrive non è uno storico e le uniche fonti che è riuscito a consultare sono fonti bibliografiche. Quella che esce maldestramente su questo blog vuole solo essere una “mappa” per orientarsi e avvicinarsi a ciò che accadde a Korça il 9 settembre del ’43.

Questo pezzo, sostanzialmente, è un qualcosa di “dovuto” e l’intento, nel procedere, è stato anche quello di sfatare, procedendo in parallelo, qualche falso mito che permane tuttora sull’occupazione italiana dell’Albania. Spero tanto di esserci riuscito, almeno in parte.

Mirupafshim!

 

* Bernd J. Fischer, L’Anschluss italiano. La guerra in Albania (1939-1945), Besa 2003
** Wu Ming 1, La macchina del vento, Einaudi 2019
*** Davide Conti, Criminali di guerra italiani. Accuse, processi e impunità nel secondo dopoguerra, Odradek 2011
**** Massimo Coltrinari, La Resistenza dei militari italiani all’estero. Albania, Rivista Militare 1999
**** Alessandro Serra, Albania : 8 settembre 1943, 9 marzo 1944, Longanesi & C. 1974