Contro il “Controllo di vicinato.” Attenzione che anche l’Apartheid era considerata “una politica di buon vicinato.”

Posted on 13 agosto 2019

0



«Pare quasi che l’antifascista abbia rinunciato alla parola memorabile a favore del suo nemico. Per trovare un verbo che ancora morda la carne, ancora capace di dare una pur piccola unghiata alla crosta della terra, bisogna abbandonare l’oratoria pubblica. La vita, si sa, man mano che l’ombra della dittatura si va allungando sul mondo, si ritira nel privato.*»


Modena è una città in cui non manca nulla a parte forse la “sicurezza”.

Questo è ciò che ripetono quasi quotidianamente giornali e politica locale facendosi eco l’uno con l’altro. La città risulta “assediata” a tal punto che a presidiarla sono stati chiamati addirittura i militari dotati di armi da guerra. Mezzi militari in Piazza Grande, blindati che girano per la città, pattuglie di jeep a zonzo nei parchi e una presenza militare sempre più invadente, “decorosa” e capillare.

Nonostante questo nuovo “look”, la città sembra non “guarire” dal suo unico problema, la situazione non migliora così come il bisogno di “sicurezza” da parte dei suoi cittadini. Lo ripetono in coro anche politica e informazione. Quotidianamente e incessantemente: «c’è bisogno di sicurezza» tanto che la promessa di questa fantomatica “sicurezza” è stata eletta ormai a unico argomento di qualsiasi campagna elettorale.

Così, giorno dopo giorno, ciò che penetra e sedimenta a mo’ di metastasi è un sentimento di paura e soggezione che attecchisce, partendo proprio dal linguaggio della propaganda politica (se «c’è bisogno di sicurezza» è perchè nelle strade delle nostre città si annidano “indicibili pericoli”), tra il vuoto comunitario di una socialità tutta programmata e mercificata dall’amministrazione che rimbalza nella propaganda e nello spettacolo ostentato di una divisa. Si trema di fronte ad un “nemico invisibile” che abita ugualmente la città almeno quanto noi ma che può nascondersi dietro ogni volto, in ogni passante, in ogni angolo. Un nemico che può avere tanto la forma del borseggiatore che sta per derubarti in ogni istante, quanto la bottiglia di birra appoggiata sul marciapiede.

Per “rimediare” a queste “percezioni” sociali, il Comune di Modena ha dunque pensato bene di tappezzare la città di telecamere (un progetto dal costo complessivo di 470 mila euro) nonché di potenziare enormemente il cosiddetto “Controllo di Vicinato”. Nel tentativo di placare la sete di “sicurezza” dei cittadini dunque, partendo dalla provincia, in poco più di un anno, l’intera città si è andata riempiendo di cartelli tanto “simpatici” quanto distopici dove una famiglia è divisa e legata al tempo stesso alla figura di un poliziotto al centro della scena. Militari un po’ ovunque, telecamere a tutto spiano e gli occhi vigili e sospettosi dell’operazioneControllo di vicinato” a completare l’opera. Se fossimo catapultati in città direttamente dagli anni ’90 si potrebbe quasi affermare di essere giunti in una città “occupata”, indendendo con questo sotto occupazione militare.

Nonostante ciò, tuttavia, l’emergenza permanente della “sicurezza” sembra ancora lontana dall’essere esaurita. Pure gli interventi di make-up urbano e di “partecipazione” al controllo della città non paiono dare troppi risultati. Almeno secondo il solito racconto di giornali e politica che continuano a battere incessantemente sull’incudine della “sicurezza”. Alcuni frutti da raccogliere però a ben vedere ci sono e sono quelli del consenso politico che oggigiorno si coltiva proprio battendo su quel ferro lì, il quale è ormai rimasto l’unico a disposizione. Anche perché di altro è meglio non parlare altrimenti bisognerebbe discutere di una città sempre più cara che si gentrifica e si vetrinizza plasmandosi più a misura di turista che di cittadino, dunque molto meglio governare through crime, ovvero attraverso la (paura della) criminalità.

Ed ecco come linguaggio dei media e fatti di cronaca si trasformano così in una “risorsa” al governing through crime, in ingredienti per il consenso politico il quale poi avviamente andrà a strutturarsi sempre di più attorno ad elementi che contengono i germi della stigmatizzazione razziale, della criminalizzazione sistemica della povertà, di ogni forma di dissenso e di attivismo sociale, della tolleranza zero più l’alimentazione spasmodica di un clima d’insicurezza che infonde paura, digregazione e solitudine.

La cosiddetta “sicurezza”, in realtà, è un’auto in corsa che accelera esponenzialmente e a prescindere dalla conformazione del tracciato. Non contano dati o risultati, a nessuno importa delle statistiche; le convinzioni, in questo periodo buio, si fondano su “percezioni” che non hanno nemmeno più familiarità con l’esperienza individuale ma crescono e si riproducono, come una profezia che si autoavvera. Parallelamente, inoltre, cresce anche un sentimento “forcaiolo” sempre più feroce e insaziabile, così da poter ricondurre poi tutti i fallimenti delle politiche securitarie a un sintomatico lassismo giudiziario o a stronzate ripetute come verità come la “certezza della pena” (vedi questo articolo di un “libero pensatore” locale) in un paese in cui le carceri (le più affollate d’Europa) scoppiano letteralemnte di reclusi in attesa di giudizio.

La mise en place è perfetta. Si descrive quotidianamente una guerra tra poveri, per la quale è “costretto” a scendere in strada addirittura l’esercito, mentre quella effettivamente in atto nelle nostra società è una guerra ai poveri quotidiana e senza esclusione di colpi. Si indirizza un disagio diffuso, magari legato ad una precarietà tanto lavorativa quanto esistenziale che in Italia non manca di certo, verso il nemico di turno che può assumere le sembianze, di volta in volta, del migrante, del ragazzino che fa il ragazzino, del tipo che campa con piccoli espedienti, dell’attivista politico, di chi beve una birretta senza potersi permettere il localino alla moda, del tizio o della tizia vestita male (secondo quali criteri poi?), della signora o del signore che innaffia i fiori in modo indecoroso, della bambina che suona il violino in strada, ecc. ecc. . Eccolo, il nemico pubblico numero uno, di volta in volta, additato ad untore da temere e da combattere.

IMG-20190802-WA0011

Il contesto nel quale agiscono i cosiddetti “Controlli di Vicinato” è esattamente questo e il Comune di Modena, baluardo “democratico” in un mare leghista, li ha issati da tempo come bandiera da sventolare in nome di due principi quali (indovinate un po’?) la “sicurezza” e la “partecipazione.”

Ci investe parecchio, diciamo, il Comune di Modena almeno in termine d’immagine e, a giudicare da quanto l’argomento “attecchisca” sui due principali quotidiani locali (Carlino e Gazzetta), sembra si tratti di un “business” organizzato addirittura di concerto. Più o meno una volta a settimana la Gazzetta di Modena, ad esempio, fa uscire un reportage [sigh!] dai toni entusiasti su qualche nuovo gruppo che ha aderito ai protocolli del Controllo di Vicinato descrivendone attentamente ogni movimentoUn po’ propaganda e un po’ pubblicità per invogliare il cittadino alla “partecipazione”. In fin dei conti questi reportage [sigh!] sono un “servizio pubblico”, senza considerare il fatto che è altamente probabile che senza il “Controllo di Vicinato” il sig. Totaro non saprebbe proprio più di cosa scrivere e, in redazione alla Gazzetta, dovrebbero ingegnarsi per riempire sterilmente spazi d’informazione che potrebbero tranquillamente essere impiegati in altro modo.

«Comunicazione e controllo si legano a vicenda»
Mark Fisher

Per farci capire meglio proponiamo un piccolo estratto di questi reportage [sigh!] preso a caso negli ultimi mesi. Moltiplicate tono e contenuto per mesi e mesi di reportage [sigh!] settimanali, shakerate e aggiungete qualche fetta di cronaca dalla città “assediata”…

tutti i nostri problemi «sono rappresentati dal “solito negozio etnico all’angolo.»

…i “ragazzi” del controllo di vicinato sono scesi armati lungo le strade e hanno fatto piazza pulita. Sono riusciti ad arrestare parecchi nemici, quelli che si vorrebbero eliminare ogni giorno: l’indifferenza, il pensare che spetti ad altri fare qualcosa per il bene comune […] Hanno preso scope e, meglio, ramazze di saggina, palette e sacchettoni Hera, hanno indossato i giubbini catarifrangenti e si sono messi a pulire il quadrilatero delle loro vie. […] «Non potevamo non partire dal luogo che ci crea tutti i nostri problemi – dicono Angela e Alessio, che gestiscono la chat di gruppo – il “solito” negozio etnico all’angolo tra le vie…….. […] la piccola comunità ha avuto l’onore di un inatteso intrattenimento finale: un avventore del vicino negozio, bello carico di birra, si è piazzato proprio davanti a dove stavano festeggiando, in segno di sfida, spalleggiato da latri. Appena sono stati avvisati i vigili c’è stato il fuggi fuggi.”

Fin’ora abbiamo sbirciato le “guarnizioni”, il “contorno” di questo progetto ma cosa a si intende di preciso per “Controllo di vicinato”?

Dalla pagina dedicata del Comune si può leggere che si tratta di un progetto iniziato nel 2016  e che l’anno successivo erano già stati avviati i primi gruppi di controllo. Poi ancora che «è uno strumento di prevenzione basato sulla partecipazione attiva dei cittadini attraverso un controllo informale della zona di residenza e la cooperazione con le forze di polizia al fine di ridurre il verificarsi di reati» che «la pratica del controllo di vicinato si ispira alle esperienze di neighbourhood watch nate negli Anni 70 negli USA e successivamente nel Regno Unito negli Anni 80. Le prime esperienze italiane risalgono al 2008-2009 e nel 2013 si costituisce l’Associazione Controllo di Vicinato.» Nient’altro.

Dato che lo “strumento” si ispira alle esperienze di neighbourhood watch vediamo un po’ che cosa sono. Basta cercare rapidamente neighbourhood watch su google per incappare nella descrizione non esattamente lusinghiera che ne fa Mike Davis: “un gigantesco network di vicini di casa vigilanti, un sistema di sicurezza a metà strada tra le anomie armate e le forze di polizia private, ed evidenziano la preoccupazione che queste attività abbiano soprattutto lo scopo di costituire consensi di carattere elettorale e ricordino sistemi di controllo tipici di regimi dittatoriali. È stato inoltre dimostrato che, quanto meno negli Stati Uniti, il 90% degli abitanti adulti dei quartieri interessati ad attività di prevenzione non vi ha mai preso parte.” 

Critica quest’ultima che può essere applicata tranquillamente anche alla sperimentazione avviata a Modena, nonostante i proclami, l’impegno istituzionale e la pubblicità esaltata da parte dei giornali, ma su questo e sui magri risultati ottenuti finora tornaremo successivamente. Per ora, ci piacerebbe soltanto evidenziare come l’impegno profuso nell’attivare e creare un tipo di aggregazione artificiale come questo, che Davis definisce “tipico di regimi dittatoriali” sia inversamente proporzionale agli sforzi compiuti dall’amministrazione nel soffocare e cancellare qualsiasi altro tipo di esperienza aggregativa spontanea e autonoma sorta dalla società in questi anni.

Sempre dalla pagina dedicata del Comune, inoltre, si può leggere qualcosa anche su come si “attuano” questi “controlli di vicinato”: ogni gruppo nominerà un proprio coordinatore, il quale gestirà “i contatti tra i componenti del gruppo,  promuovendo il controllo di vicinato nella propria zona” e terrà “i rapporti con l’Amministrazione Comunale, Forze dell’Ordine e gli altri coordinatori.” 65652340_1309024719253991_5152374688202096640_nOrganizzazione fermamente gerarchica, la fotocamera del cellullare come “arma” da utilizzare contro i malintenzionati, la promozione del format “Controllo di vicinato” come forma di partecipazione del cittadino perbene,  e una chat di whatsapp nella quale andare a ricercare un’idea astratta di comunità andata perduta con l’avvento della modernità globalista” e con l’arrivo di chi − “il solito negozio etnico all’angolo” − sarebbe giunto a turbarla.

Ovviamente, ci tengono a specificare dal Comune (e se lo specificano un motivo ci sarà), non si tratta affatto di “organizzare ronde e pattugliamenti” e occorre evitare di “fare gli eroi”, che tra le finalità concrete dell’iniziativa ci sono“la coesione sociale” e “la creazione di rapporti di buon vicinato” (ricordiamo solo che, secondo il suo “architetto” Verwoerd, anche l’apartheid era definita “una politica di buon vicinato”) eppure, nonostante gli sforzi e le spiegazioni, gli interrogativi sospesi sul “Controllo di vicinato” rimangono tutti.

Che tipo di comportamenti e di metodi si incentivano con la sollecitazione dei “controlli di vicinato”? Che tipo di partecipazione e di comunità si premiano? Quale visione della società si stimola e a che tipo di percezione della sicurezza e dei problemi dei quartieri si darà risalto in questa maniera? Quali sono i seggetti “attenzionati” da questo tipo di sorveglianza?

Le risposte a questi quesiti sono abbastanza semplici in realtà, basterebbe soltanto essere provvisti di quel minimo di onestà intellettuale sufficiente ad evitare la menzogna spudorata.  Nel (preziosissimo) “La buona educazione degli oppressi”, Wolf Bukowski scrive:

Da un lato il marginale diventa disordinato, e quindi permale; dall’altro il cittadino integrato entra nel ruolo del perbene, rendendosi disponibile a un’attivazione securitaria che consiste nel denunciare, indicare, fotografare… […] Naturalmente denuncia e fotosegnalazione non placano l’ansia del cittadino perbene, perché quest’ansia, come già detto, deriva dalla sua «paura dell’avvenire», ma nondimeno, imboccati da politici e media e subito rimessi su quella strada non appena dovessero tentennare, i bravi cittadini cercheranno requie chiedendo di più di ciò che già non li sazia: più denuncia, più fotosegnalazione, e quindi più repressione, più ordine, più polizia e più pulizia; ottenendo però l’effetto paradossale che, via via che lo spazio pubblico viene ripulito dai marginali e dalle loro tracce, ogni presenza anche solo leggermente diversa risulterà inquietante, perché il concetto di disordine e di inciviltà si sarà esteso al punto di generare sospetto verso chiunque non sia platealmente un benestante impegnato nei riti del consumo. «È un dato ovvio di psicologia individuale, prima ancora che sociale», scrive Alessandro De Giorgi: «quanto meno le persone sono esposte alla differenza e all’altro da sé, tanto più tali differenze alimentano paure e angosce».**

In città, infatti, il “Controllo di vicinato” non funziona. E quando a dirlo non sono piccoli blog come questo, ma «da destra» quegli stessi a cui le politiche securitarie riconducibili alla “tolleranza zero” non fanno affatto schifo e che considerano il “Controllo di vicinato” un “progetto valido” e una “bella idea”, allora state pur certi che potete crerci al 100%.

Prendiamo da quest’articolo pubblicato sul sito online LaPressa che ci sembra abbastanza chiarificatorio:

Si fa presto a dire un migliaio di iscritti, che fanno comodo, anche sul piano politico, per dire che l’iniziativa avviata dal Comune funziona bene e che soprattutto è coinvolgente. Perché, pur essendo il progetto Controllo di Vicinato una iniziativa che grazie all’impegno straordinario profuso in lunghe sere di lezioni e di incontri della Vicecomandante della Polizia Municipale Patrizia Gambarini è partito, le cose cambiano quando, si entra nel merito della questione. Dove il piano non è solo quello raccontato in lezioni e conferenze dai rappresentanti del Comune, della Polizia Municipale (che sempre del comune è espressione), ed esperti a busta paga del comune stesso o delle istituzioni affini (vedi Regione), ma tocca anche e soprattutto quello dei cittadini ed in particolare di coloro che come referenti e coordinatori dei singoli gruppi di vicinato (40 quelli istituiti nell’ultimo anno e mezzo in città), hanno il reale polso della situazione. Cittadini consapevoli e davvero di buona volontà che hanno scelto di essere registrati presso la Prefettura e che hanno scelto di essere referenti di quei gruppi di cittadini organizzati nei singoli rioni, chiamati a coordinano attraverso chat e in rapporto telematico diretto con la Polizia Municipale, le segnalazioni che di volta in volta possano arrivare in tempo reale dai residenti iscritti al progetto e alla chat. Ed è ascoltando questi referenti che si scopre che solo una una piccola, anzi piccolissima parte dei cittadini iscritti  partecipa attivamente in termini di segnalazioni o di semplice scambio di informazioni con i membri del gruppo.
E che si scopre che c’è un grande problema, nato dalla carenza di informazioni e di formazione, rispetto al rispetto della privacy nelle informazioni che circolano anche all’interno di questi canali ‘protetti’…

paba

In  una recente intervista (foto a fianco) al prefetto Maria Grazia Paba, firmata Carlo Gregori i “controlli di vicinato” vengono valutati «positivamente così come la capacità di aggregazione dei modenesi, un valore antico che rivive con le tecnologie.» E qua già si potrebbero aprire un paio di parentesi circa la cieca fiducia negli strumenti tecnologici, al delegare alla “macchina” e, soprattutto, sul richiamo a “valori antichi”, a un “passato” del tutto funzionale al “presente”, formato da comunità piatte e sterilizzate da qualsiasi conflittualità sociale, un passato completamente inventato ma ammantato di un alone mitico da “età dell’oro” disturbata dall’arrivo di qualcosa o qualcuno (inserire a caso parole come: degrado, negozio etnico, clandestini, giovani senza valori…). I “cattivi” insomma, quelli combattuti dai “buoni”, dai cittadini perbene ovvero da «persone che segnalano ciò che danneggia la società.» Ma cosa si intende esattamente col segnalare “ciò che danneggia la società” e, soprattutto, chi sono i soggetti accusati di farlo? Non si tratta chiaramente di un quesito secondario dato che parliamo del “bersaglio” principale di politiche per le quali, Comune di Modena e Regione Emilia−Romagna, stanno investendo tanto in termini di risorse e impegno profuso.

Se l’oggetto del controllo sono i soliti marginali, gli attivisti, i diversi, quelli che non possono e non potranno mai identificarsi col solo grande “partito unico dell’ordine” e della stabilità finanziaria allora abbiamo un problema serio. Se lo scopo inconfessabile dei “controlli di vicinato” è quello di canalizzare il bisogno di esprimersi del cittadino medio in un monologo capace di richiedere esclusivamente solo più muri, confini, arresti, punizioni allora abbiamo un problema grave. Se tutto questo invece che contrastare  la marginalizzazione e le vulnerabilità sociali le rafforza, se l’incentivazione di questi interventi radicalizzano gli stereotipi negativi rafforzando pregiudizi e stigmatizzazione allora il problema è scottante.

Quando anziché risvegliare l’attenzione ai reali problemi dei quartieri, ci si concentra più su chi passa per la strada o a cosa fa il vicino dell’appartamento accanto, è chiaro che isolamento, insicurezza e malessere aumentano di pari passo alla paura. La paura e il securitarismo che l’accompagna come un’ombra, inoltre, sono da considerarsi come le uniche industrie pienamente attive in questi tempi cupi e gli spettri delle persecuzioni razziali e degli attacchi diretti alle iniziative di solidarietà tornano a marciare prepotentemente anche all’interno di ambienti all’apparenza neutri.

Ed è proprio dietro a questa apparente spoliticizzazione della tecnica amministrativa che, a nostro avviso, si nascondono le insidie più profonde e pericolose di questi tempi.

In un bellissimo articolo dal titolo «Outliers. L’opressione della devianza nella città digitale.» che prende in esame la città−stato di Singapore Carmen Pisanello conclude in questo modo:

Il filosofo coreano Byung-Chul Han (2016) nel suo saggio Psicopolitica ha affiancato all’idea del panottico digitale, in cui sono sorvegliati tutti i presenti all’interno del sistema, quella del ban-opticon, un dispositivo che identica ed esclude (in inglese to ban ) le persone estranee o nemiche del sistema. Mentre il panottico classico serve al disciplinamento, il ban-opticon si occupa di sicurezza ed efficienza del sistema. Il Ban-opticon è il modello di gestione dell’ordine pubblico di una società enormemente connessa. Rappresentano scarti, spazzatura, rifiuti della società. Il termine “rifiuti” indica per definizione, il contrario dell’utilità. L’unica cosa che fanno i rifiuti è sporcare e ingombrare uno spazio che altrimenti potrebbe essere impiegato in un modo più utile. Il principale scopo del Ban-opticon è accertarsi che i rifiuti vengano separati dai prodotti come si deve e destinati al trasporto in una discarica. (Han 2016, p.79) La connessione digitale totale aumenta considerevolmente la coercizione alla conformità e lo spazio nella società della prestazione è uno spazio dove l’altro non esiste più, dove l’estetica si sostituisce all’etica. I corpi fuori standard, inadeguati, indecorosi, improduttivi vengono in qualche modo espulsi, bannati. L’outsider che si ostina a vivere la strada è sempre più outlier: la sua devianza sta nella sua non messa a valore, nell’anomalia che incarna il suo stile di vita. I corpi troppo rumorosi degli adolescenti, quelli improduttivi degli anziani abbandonati in città senza panchine dove sedersi, i corpi indecorosi delle sex workers e dei più poveri il cui abbigliamento, se non l’intera esistenza va disciplinata a colpi di ordinanze. L’attacco scrupoloso che nuovi regolamenti urbani stanno mettendo in campo non solo in Italia, ma anche negli altri stati occidentali neoliberali contro i comportamenti “devianti” a tutela del decoro delle città, non ridefinisce semplicemente dei comportamenti, ma mette al bando soggettività ben precise, forse incapaci di conformarsi alle regole, ma che sicuramente per le loro condizioni economiche, psichiche, sociali o ideologiche sono state decretate fuori dai giochi. Un’enorme massa di disoccupati e sottoccupati che con l’avvio delle politiche neoliberiste di privatizzazione, flessibilizzazione del lavoro e smantellamento dello stato sociale non è stata più considerata come destinataria di una qualche forma di assistenza pubblica, ma come categoria potenzialmente fuorilegge, da porre sotto controllo preventivo o da punire sistematicamente fin dalle forme più elementari di trasgressione. Questo sta portando in qualche maniera a un fenomeno di esondazione dei sistemi di controllo e sorveglianza all’interno dello spazio pubblico. Uno spazio che non viene monitorato solo attraverso dispositivi esterni di controllo e disciplinamento, come una telecamera o un militare in presidio, ma che è osservato dagli stessi residenti, la cui solerzia, agendo all’interno del processo di responsabilizzazione e colpevolizzazione del singolo, viene sfruttata in senso collaborativo da parte degli apparati dello Stato. Pensiamo ad esempio come l’app YouPol sia l’applicazione della metodologia crowdsourcing ai meccanismi regolatori dello Stato. Al razzismo istituzionale che caratterizza le leggi sulla sicurezza e sull’immigrazione, si innestano nuove tecnologie di potere che si integrano a quelle precedenti. Ogni cittadino diventa il panottico di se stesso e degli altri, in un complesso meccanismo psicologico per il quale sono proprio coloro che non vivono la strada e non conoscono le persone che la abitano e che sono da tempo rinchiusi nel loro privato, a desiderare e chiedere che lo spazio pubblico sia sempre più liscio, vuoto e sgombro da qualsiasi forma di vita, come un asettico atrio di un condominio, dove non ti saluta mai nessuno.

“Stare in guardia contro il nuovo autoritarismo è importante, perché non si presenta direttamente come una dittatura. Può consistere nello svuotamento strisciante dei diritti e delle libertà civili, e non necessariamente per opera di partiti estremisti, ma anche dei partiti dell’arco costituzionale. E probabilmente con il consenso dei cittadini”
Ralf Dahrendorf

*Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo, Bompiani 2018.
**Wolf Bukowski, La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del decoro, Edizioni Alegre 2019