Popoli del mondo, ancora uno sforzo!

Posted on 19 aprile 2020

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Lo scorso ottobre ospitammo questo comunicato congiunto da Parigi e da Santiago del Chile. Oggi ritrasmettiamo questo manifesto di Raoul Vaneigem per la vita del mondo oltre il capitale, preso e ribloggato semplicemente da qua. La maggior parte delle foto aggiunte al testo invece sono tratte da questo testo.   

 

Il mondo cambia la sua base

Lo choc del coronavirus non ha fatto che eseguire la sentenza pronunciata contro sé stessa da una economia totalitaria fondata sullo sfruttamento dell’uomo e della natura.

Il vecchio mondo si sfalda e affonda. Il nuovo, nella costernazione delle rovine che si ammassano, non osa sbarazzarsene; più impaurito che risoluto, pena a ritrovare l’audacia di un bambino che impara a camminare. Come se aver a lungo gridato al disastro lasciasse il popolo senza voce.

Tuttavia, quelle e quelli che sono scampati ai mortali tentacoli della merce sono in piedi tra le macerie. Si risvegliano alla realtà di un’esistenza che non sarà più la stessa. Desiderano affrancarsi dall’incubo assestato loro dalla denaturazione della terra e dei suoi abitanti.

Non è forse questa la prova che la vita è indistruttibile? Non è su questa evidenza che si infrangono nella stessa risacca le menzogne dall’alto e le denunce dal basso?

La lotta per il vivente non deve dare giustificazioni. Rivendicare la sovranità della vita è in grado di annientare l’impero della merce, le cui istituzioni sono mondialmente ridotte a brandelli.

Fino ad oggi, non ci siamo battuti che per sopravvivere. Siamo rimasti confinati in una giungla sociale dove regnava la legge del più forte e del più furbo. Lasceremo l’isolamento al quale ci costringe l’epidemia del coronavirus per replicare la danza macabra della preda e del predatore? Non è evidente a tutte e tutti che l’insurrezione della vita quotidiana, della quale i gilets jaunes sono stati in Francia il segno premonitore, non è altro che il superamento di questa sopravvivenza che una società di predazione non ha smesso di imporci quotidianamente e militarmente?

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Gilets jaunes a Place de la Republique, Parigi, 8 dicembre 2018. Foto: Stephane Mahe / Reuter

Quello che non vogliamo più è il fermento di quello che vogliamo

La vita è un fenomeno naturale in ebollizione sperimentale permanente. Non è buona né cattiva. La sua manna ci fa dono della spugnola come dell’amanita falloide. Essa è in noi e nell’universo una forza cieca. Ma ha dotato la specie umana della capacità di distinguere la spugnola dall’amanita, e di qualcosa di più! Ci ha armati di una coscienza, ci ha dato la capacità di crearci ricreando il mondo.

Per farci dimenticare questa straordinaria facoltà, ci è voluto che gravasse su di noi il peso di una storia che comincia con le prime città-stato e termina – tanto più rapidamente quanto più vi porremo mano – con lo sfaldamento della mondializzazione del mercato.

La vita e il suo senso umano sono la poesia fatta per uno e per tutte e tutti. Questa poesia ha sempre brillato della sua esplosione nelle grandi sollevazioni della libertà. Non vogliamo più che essa sia, come nel passato, un chiarore effimero. Vogliamo mettere in opera una insurrezione permanente, all’immagine del fuoco passionale della vita, che si acquieta ma non si estingue mai.

È dal mondo intero che s’improvvisa una via dei canti. È là che la nostra volontà di vivere si forgia spezzando le catene del potere e della predazione. Catene che noi, donne e uomini, abbiamo forgiato per la nostra infelicità.

Eccoci al cuore della mutazione sociale, economica, politica ed esistenziale. È il momento del “Hic Rhodus, hic salta”. Non è un’ingiunzione a riconquistare il mondo dal quale siamo stati scacciati. È il soffio di una vita che lo slancio irresistibile dei popoli ristabilirà nei suoi diritti assoluti.

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Barricata sul ponte Al-Jumhoriya, Baghdad, 12 novembre 2019. Foto: Mustafa Al-Sumaidaie

L’alleanza con la natura esige la fine del suo lucrativo sfruttamento

Non abbiamo preso abbastanza coscienza della relazione concomitante tra la violenza esercitata dall’economia contro la natura della quale fa razzia, e la violenza con la quale il patriarcato colpisce le donne dalla sua instaurazione, tre o quattromila anni prima dell’era detta cristiana.

Con il capitalismo verde-dollaro, il brutale saccheggio delle risorse terrestri tende a cedere il posto alle grandi manovre della subornazione. In nome della protezione della natura è di nuovo la natura che viene venduta. Cosi va nei simulacri dell’amore quando lo stupratore si atteggia a seduttore per meglio ghermire la sua preda. La predazione ricorre da gran tempo alla pratica del guanto di velluto.

Siamo al punto in cui una nuova alleanza con la natura riveste un’importanza prioritaria. Non si tratta evidentemente di ritrovare – come potremmo? – la simbiosi con l’ambiente naturale nel quale evolvevano le civiltà della raccolta prima che giungesse a soppiantarle una civiltà fondata sul commercio, l’agricoltura intensiva, la società patriarcale e il potere gerarchizzato.

Ma, si sarà capito, si tratta ormai di restaurare un ambiente naturale dove la vita sia possibile, l’aria respirabile, l’acqua potabile, l’agricoltura sbarazzata dai suoi veleni, le libertà del commercio revocate per la libertà del vivente, il patriarcato smembrato, le gerarchie abolite.

Gli effetti della disumanizzazione e degli attacchi sistematicamente portati contro l’habitat non hanno avuto bisogno del coronavirus per dimostrare la tossicità dell’oppressione del mercato. Di contro, la gestione catastrofica della calamità ha mostrato l’incapacità dello Stato di dare prova della menoma efficacia all’infuori della sola funzione che sia in grado di esercitare: la repressione, la militarizzazione degli individui e delle società.

La lotta contro la denaturazione non ha da fare promesse e lodevoli dichiarazioni retoriche d’intenti, corrotte o meno che siano dal mercato delle energie rinnovabili. Essa riposa su un progetto pratico che verte sull’inventività degli individui e delle collettività. La permacultura rinaturalizzante delle terre avvelenate dal mercato dei pesticidi non è che una testimonianza della creatività di un popolo che ha tutto da guadagnare nell’annientare ciò che ha congiurato alla sua perdizione. È tempo di bandire quegli allevamenti concentrazionari dove il maltrattamento degli animali è stato notoriamente la causa della peste suina, dell’influenza aviaria, della mucca resa pazza da questa pazzia del denaro feticizzato che la ragione economica tenterà ancora una volta di farci ingurgitare se non digerire.

Hanno una sorte tanto diversa dalla nostra quelle bestie da batteria che escono dal confinamento per entrare nel mattatoio? Non siamo forse in una società che distribuisce dividendi al parassitismo d’impresa e lascia morire uomini, donne e bambini di carenze sanitarie? Una inarrestabile ragione economica alleggerisce così le voci di bilancio imputabili al numero crescente di anziane e di anziani. Essa preconizza una soluzione finale che impunemente li condanna a crepare nelle case di ripose spogliate di mezzi e di infermieri. A Nancy, in Francia, vi è stato il caso di un alto responsabile della sanità il quale ha dichiarato che l’epidemia non è una ragione sufficiente per non tagliare ulteriormente letti e personale ospedaliero. Nessuno l’ha cacciato a calci sul sedere. Gli assassini economici suscitano meno indignazione di un disturbato mentale che corre per le strade brandendo il coltello dell’illuminazione religiosa.

Non faccio appello alla giustizia popolare, non preconizzo Massacri di Settembre per gli zozzoni del fatturato. Chiedo solo che la generosità umana renda impossibile il ritorno della ragione del mercato.

Tutti i modi di governo che abbiamo conosciuto sono falliti, smontati dalla loro crudele assurdità. È al popolo che spetta di mettere in opera un progetto di società che restituisca all’umano, all’animale, al vegetale, al minerale una fondamentale unità.

La menzogna che qualifica come utopia un tale progetto non ha resistito allo choc della realtà. La storia ha rivelato la civiltà del mercato come obsolescente e insana. L’edificazione di una civiltà umana non è solo divenuta possibile, essa schiude la sola via che, appassionatamente e disperatamente sognata da generazioni innumerabili, si affaccia sulla fine dei nostri incubi.

Dal momento che la disperazione ha cambiato campo, essa appartiene al passato. Ci resta la passione di un presente da costruire. Ci prenderemo il tempo di abolire il “tempo è denaro” che è il tempo della morte programmata.

La rinaturalizzazione è un crogiolo di nuove culture dove dovremo gattonare tra confusione e innovazioni nei più diversi ambiti. Non abbiamo forse dato troppo credito a una medicina meccanicista che spesso tratta i corpi come un garagista la vettura affidatagli? Come fidarvi di un esperto che vi ripara per rispedirvi al lavoro?

Il dogma dell’anti-natura, tanto a lungo martellato dagli imperativi produttivisti, non ha forse contribuito a esasperare le nostre reazioni emotive, a propagare panico e isteria sicuritaria, esacerbando perciò il conflitto con un virus che l’immunità del nostro organismo avrebbe avuto qualche possibilità di ammansire o rendere meno aggressivo, se non fosse invece stata messa a mal partito da un totalitarismo del mercato al quale nulla di inumano è estraneo?

Ci hanno abbacinato a sazietà con il progresso della tecnologia. Per arrivare a cosa? Le navette spaziali verso Marte e l’assenza terrestre di letti e di respiratori negli ospedali.

Di sicuro, dovremmo meravigliarci più delle scoperte su una vita della quale ignoriamo tutto, o quasi. Chi ne dubiterebbe? Solo gli oligarchi e i loro lacché, che la diarrea mercantile svuota della loro sostanza, e che confineremo nelle loro latrine.

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Invasione della miniera di Garzweiler (Germania), 22 giugno 2019. Foto: A. Woitschützke

Farla finita con la militarizzazione dei corpi, dei costumi, delle mentalità

La repressione è la ragion d’essere ultima dello stato. A sua volta fattone oggetto sotto le pressioni delle multinazionali che impongono i propri diktat alla terra e alla vita. La prevedibile messa in discussione dei governi tornerà a porre la questione: il confinamento sarebbe stato pertinente se le infrastrutture sanitarie fossero rimaste all’altezza, invece di subire lo sbranamento che sappiamo, decretato dall’imperativo della redditività?

Nell’attesa – è una constatazione obbligata – la militarizzazione e la ferocia sicuritaria non hanno fatto che prendere la rincorsa della repressione in corso nel mondo intero. L’Ordine democratico nemmeno poteva immaginare un pretesto migliore per premunirsi contro la collera dei popoli. L’imprigionamento a casa propria, non era forse questo l’obiettivo dei dirigenti, inquieti per la stanchezza delle loro sezioni d’assalto di manganellatori, sguerciatori, sicari salariati? Bella replica generale di quella tattica del kettle usata contro manifestanti pacifici, che reclamavano tra le altre cose il rifinanziamento degli ospedali.

Almeno siamo avvertiti: i governanti tenteranno di tutto per farci transitare dal confinamento alla cuccia. Ma chi accetterà di passare docilmente dall’austerità carceraria al conforto della schiavitù rappezzata?

È probabile che la rabbia del confinato avrà trovato l’occasione di denunciare l’aberrante e tirannico sistema che tratta il coronavirus alla maniera di quel terrorismo multicolore che ingrassa il mercato della paura.

La riflessione non si fermi qui. Pensate a quegli studenti che, nel paese dei Diritti dell’Uomo, sono stati costretti a inginocchiarsi davanti alla sbirraglia dello stato. Pensate all’educazione stessa dove l’autoritarismo professorale inibisce da secoli la spontanea curiosità del bambino e trattiene la generosità del sapere dal propagarsi liberamente. Pensate fino a che punto l’accanimento concorrenziale, la competizione, l’arrivismo del “fatti in là ché mi piazzo io” ci hanno chiuso in una caserma.

La servitù volontaria è una soldatesca che marcia al passo. Un passo a sinistra, un passo a destra? Che importanza ha? L’uno e l’altro restano nell’Ordine delle cose.

Chiunque accetti che gli si sbraiti dall’alto, o dal basso, non ha fin d’ora che un avvenire di schiavo.

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La bandiera mapuche issata su un monumento colonialista, 26 ottobre 2019. Foto: Susana Hidalgo

Uscire dal mondo molle e chiuso della civiltà del mercato

La vita è un mondo che si apre ed è apertura sul mondo. Certo, ha spesso subìto questo terribile fenomeno d’inversione per cui l’amore muta in odio, o la passione di vivere si trasforma in istinto di morte. Per secoli è stata ridotta in schiavitù, colonizzata dalla bruta necessità di lavorare e sopravvivere come bestie.

Tuttavia, non si conosceva un solo esempio di confinamento, in celle d’isolamento, di milioni di coppie, famiglie, singoli che la debolezza dei servizi sanitari ha convinto ad accettare la loro sorte se non docilmente almeno con una rabbia contenuta.

Ciascuno si ritrova solo, confrontato a un’esistenza dove è tentato di discernere la parte di lavoro servile e quella dei folli desideri, La noia dei piaceri consumabili è compatibile con l’esaltazione dei sogni che l’infanzia ha lasciato crudelmente incompiuti?

La dittatura del profitto ha deciso di eliminarci nel momento stesso in cui la sua impotenza si palesa mondialmente e la espone a un possibile annientamento.

L’inumanità assurda che ci ulcera da tanto tempo è scoppiata come un ascesso nel confinamento cui ha portato la politica di assassinio lucrativo, che le mafie finanziarie praticano cinicamente.

La morte è l’indegnità ultima che l’essere umano s’infligge. Non per una maledizione, ma in ragione della denaturazione che le è stata imposta.

Le catene che abbiamo forgiato nella paura e nella colpa, non le romperemo con la paura e la colpa. Bensì con la vita riscoperta e ripristinata. Non è forse questo che dimostra, in questi tempi di oppressione estrema, la potenza invincibile del mutuo soccorso e della solidarietà?

Un’educazione impressa per millenni ci ha insegnato a reprimere le nostre emozioni, a spezzare gli slanci di vita. Abbiamo voluto ad ogni costo che la bestia che dimora in noi facesse l’angelo.

Le nostre scuole sono rifugi d’ipocriti, repressi, raziocinanti torturatori. Le ultime passioni di sapere vi arrancano con il coraggio della disperazione. Impareremo infine, uscendo dalle nostre celle, a liberare la scienza dalla camicia di forza della sua utilità lucrativa? A ristabilire la nostra animalità e non a domarla, come domiamo i nostri fratelli presunti inferiori?

Non incito qui alla sempiterna buona volontà etica e psicologica, punto il dito contro il mercato della paura del quale il sicuritario annuncia il rumore degli stivali. Richiamo l’attenzione su questa manipolazione delle emozioni che abbrutisce e rincretinisce le folle, metto in guardia contro la colpevolizzazione che si aggira in cerca di capri espiatori.

Dagli ai vecchi, ai disoccupati, ai clandestini, ai senza tetto, agli stranieri, ai gilet jaunes, agli esclusi! Questo ringhiano quegli azionisti del nulla che fanno negozio del coronavirus per propagare la peste emozionale. I mercenari della morte non fanno che obbedire alle ingiunzioni della logica dominante.

Quello che dev’essere sradicato è il sistema di disumanizzazione messo in campo e ferocemente applicato da coloro che lo difendono per sete di potere e di denaro. Il capitalismo è stato giudicato e condannato da gran tempo. Stiamo crollando sotto la massa delle prove a carico. Ora basta.

L’immaginario capitalista identificava la sua agonia con l’agonia del mondo intero. Lo spettro del coronavirus è stato, se non il risultato premeditato, quanto meno l’esatta illustrazione del suo assurdo maleficio. La causa è nota. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, di cui il capitalismo è un avatar, è un esperimento finito male. Facciamo in modo che il suo sinistro fascino da apprendista stregone sia divorato dal passato dal quale non avrebbe mai dovuto uscire.

Vi è solo l’esuberanza della vita ritrovata che possa spezzare al tempo stesso le manette della barbarie del mercato e il carapace caratteriale che imprime sulla carne viva di ognuno il marchio dell’economicamente corretto.

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Donne intorno al fuorco a Plaza del Zócalo, Città del Messico, 8 marzo 2020. Foto: G. Graf

La democrazia autogestionaria annulla la democrazia parlamentare

Non possiamo più tollerare che, asserragliati a tutti i piani delle loro commissioni nazionali, europee, atlantiche e mondiali, i responsabili giochino davanti a noi la parte del colpevole e dell’innocente. La bolla dell’economia, che hanno gonfiato di debiti virtuali e di denaro fittizio, implode e muore sotto i nostri occhi. L’economia è paralizzata.

Prima ancora che il coronavirus rivelasse l’estensione del disastro, gli “alti gradi” hanno ingrippato e fermato la macchina, di sicuro più degli scioperi e dei movimenti sociali che, per quanto contestatari fossero, si sono rivelati comunque poco efficaci.

Basta con queste farse elettorali e queste diatribe di ciarlatani. Di questi eletti, imboccati dalla finanza, ci si sbarazzi come dell’immondizia e spariscano dal nostro orizzonte com’è scomparsa in loro quella molecola di vita che ne manteneva l’apparenza umana.

Non vogliamo giudicare e condannare il sistema oppressivo che ci ha condannati a morte. Vogliamo annientarlo.

Come non ripiombare in questo mondo che si disfà, dentro di noi e davanti a noi, senza edificare una società con l’umano che resta a portata della nostra mano, con la solidarietà individuale e collettiva? La coscienza di una economia gestita dal popolo e per il popolo implica la liquidazione dei meccanismi dell’economia di mercato.

Nel suo ultimo colpo di coda, lo stato non si è contentato di prendere i cittadini in ostaggio e imprigionarli. La sua non-assistenza per ogni persona in pericolo li uccide a migliaia.

Lo stato e suoi mandanti hanno devastato i servizi pubblici. Non funziona più nulla. Lo sappiamo con certezza: la sola cosa che riesce a fare funzionare, è l’organizzazione criminale del profitto.

Hanno fatto i loro affari a danno del popolo, il risultato è deplorevole. Al popolo spetta ora di fare i suoi rovinando a sua volta i loro. A noi di fare ripartire tutto su binari nuovi.

Più il valore di scambio s’impone sul valore d’uso, più s’impone il regno della merce. Più noi accorderemo la priorità all’uso che desideriamo fare della nostra vita e del nostro ambiente, più la merce perderà il suo mordente. La gratuità le darà il colpo di grazia.

L’autogestione segna la fine dello stato di cui la pandemia ha messo in luce tanto il fallimento quanto la nocività. I protagonisti della democrazia parlamentare sono i beccamorti di una società disumanizzata a causa della sua redditività.

Abbiamo invece visto il popolo, posto davanti alle carenze dei governi, dare prova di una solidarietà infaticabile e mettere in opera una vera autodifesa sanitaria. Non è forse questa un’esperienza che consente di augurarsi un’estensione di pratiche autogestionarie?

Nulla è più importante di prepararci a prendere in carico i servizi pubblici, un tempo assolti dallo stato, prima che la dittatura del profitto li distruggesse.

Lo stato e la rapacità dei suoi mandanti hanno bloccato tutto, paralizzato tutto, salvo l’arricchimento dei ricchi. Ironia della storia, la pauperizzazione è ormai la base di una ricostruzione generale della società. Chi ha affrontato la morte, come potrà avere paura dello stato e della sua sbirraglia?

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I manifestanti provenienti da Khartoum affluiscono ad Atbara in occasione del primo anniversario dell’inizio della rivolta che ha rovesciato l’ex presidente sudanese Omar al-Bashir, 19 dicembre 2019. Foto: Ashraf Shazly

La nostra ricchezza è la nostra volontà di vivere

Rifiutare di pagare tasse e imposte ha smesso di appartenere al repertorio degli incitamenti sovversivi. Come potrebbero farvi fronte, quei milioni di persone che mancheranno dei mezzi di sussistenza, quando il denaro, calcolato in miliardi, continua a essere inghiottito nell’abisso delle malversazioni finanziarie e del debito da esse accumulato? Non dimentichiamolo, è dalla priorità riconosciuta al profitto che nascono sia le pandemie che l’incapacità di trattarle. Resteremo all’ombra della mucca pazza senza trarne lezione? Ammetteremo infine che il mercato e i suoi gestori sono il virus da sradicare?

Non è più il tempo dell’indignazione, dei lamenti, delle constatazioni dello smarrimento intellettuale. Insisto sull’importanza delle decisioni che le assemblee locali e federate prenderanno “con il popolo e per il popolo” in materia di alimentazione, di abitare, di mobilità, di sanità, d’insegnamento, di cooperazione monetaria, di miglioramento dell’ambiente umano, animale, vegetale.

Andiamo avanti, pur se a tentoni. Meglio sbagliare sperimentando che regredire e reiterare gli errori del passato. L’autogestione è in nuce nell’insurrezione della vita quotidiana. Ricordiamoci che ciò che ha distrutto e interrotto l’esperienza dei collettivi libertari della rivoluzione spagnola, è l’impostura (della burocrazia, NdT) comunista.

Non chiedo a nessuno di approvarmi, e meno ancora di seguirmi. Vado per la mia strada. Libera ciascuna e libero ciascuno di fare altrettanto. Il desiderio di vita è senza limite. La nostra vera patria è ovunque dove la libertà di vivere è minacciata. La nostra terra è una patria senza frontiere.

 

Raoul Vaneigem, 10 aprile 2020

[visualizzazione grafica del progetto di monumento ai contadini vinti di Albrecht Düre]