Modena Pork. Cronache di “normalità” emiliana ai tempi del coronavirus.

Posted on 7 marzo 2020

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A Modena sembra che il tempo non sia più capace di scorrere in avanti.

Più si sfoglia il calendario e più ci si attorciglia in un eterno loop che ricicla perennemente se stesso, le stesse situazioni, i soliti “fatterelli quotidiani, a volte insipidi a volte irritanti”, habĭtus che all’inizio magari fanno anche rumore e danno fastidio ma poi finiscono sempre col trasformarsi in abitudine. Modena, in questo senso, è una città ruminante.  Prima ingoia, poi rigurgita e rimastica come un bolo, the same old stories.

Lo ripeteremo fino allo sfinimento, perché va detto chiaro e tondo che questa condizione biascicante è dovuta in gran parte al fatto che la sua informazione ha da tanto, troppo tempo, esaurito ogni capacità di raccontarla quotidianamente, la città. Mancando il racconto, non si digerisce più nulla, niente viene più assimilato e la digestione dei fenomeni si dilata per anni invece che durare solo qualche mese. Ciò accade perché i riflettori della cronaca sono stati perennemente puntati su tutt’altro. Vale a dire che sono stati indirizzati da tanto, troppo tempo, verso altro, inchiodati a illuminare unicamente un campo fuoriscena, alimentando senza limiti  tanto la propaganda quanto quella macchina securitaria che ormai la fa da padrona.

Questa infatti non è una storia che parte oggi, con una vasta operazione da parte della Guardia di finanza di Modena che ha portato alla luce una maxievasione da 80 milioni attuata da una nota società del settore carni modenese. Questa è storia vecchia, che affonda le sue radici negli anni passati e che per raccontarla deve prima essere riavvolta.

Prima di partire dunque, occorre riavvolgere il nastro di un paio d’anni e tornare per un attimo alla “famosa” telefonata (che sui giornali locali è rimasta giusto un trafiletto insipido e nascosto fra la cronaca locale ordinaria) nella quale il dirigente della digos Marco Barbieri, intercettato il 26 gennaio 2017, poco dopo l’arresto di Aldo Milani, sindacalista del SiCobas, riferiva queste frasi a Lorenzo Levoni, allora amministratore delegato di AlcarUno: «Ma che scheggia impazzita. Abbiamo devastato i Cobas a livello nazionale, Lorenzo. Abbiamo fatto una cosa pazzesca.» E ancora: «Abbiamo fatto un bingo che non ne hai idea. Per noi è una cosa pazzesca, Lorenzo. Perché adesso i Cobas… Come arrestare Luciano Lama ai tempi della Cgil d’oro.»

Torniamo a quella telefonata perché, in questi giorni, è stata “scoperta” (anche se serebbe più corretto dire è stata “resa nota”) una maxievasione da 80 milioni di euro proprio ad AlcarUno. Una “vecchia” storia che riemerge condita di repressione nei confronti dei lavoratori che hanno osato alzare la tesa, di profitti milionari, di evasioni fiscali a sette zeri, di Ferrari, auto d’epoca e motociclette parcheggiate in garage, di residenze a Montecarlo e altro ancora.

Il 5 marzo un lancio d’agenzia annunciava la notizia del sequestro, da parte delle fiamme gialle, di beni per oltre 16 milioni di euro ad una nota società attiva nel settore carni del distretto modenese. The same old story, quella per la quale se sei una maestra di Torino e ti permetti di offendere la polizia ad una manifestazione subito foto, nome e cognome in prima pagina sui giornali e, dopo breve tempo, licenziamento in tronco, mentre invece sei un’azienda modenese del distretto carni “di rilevanti dimensioni che opera a livello nazionale” ed evadi cifre a sette zeri pui andare tranquillo che il tuo buon nome di imprenditore e quello della tua azienda non verranno mai pubblicati da alcun giornale né locale né nazionale. Perché per come banalmente viene fatta “informazione” a Modena, fa più rumore un ragazzetto pizzicato con 10 grammi di fumo in tasca che grosso gruppo industriale del territorio che non dichiara redditi «per oltre 78 milioni di euro», più «un’Iva evasa pari a 8 milioni di euro», più «ritenute non operate per 67.000 euro», più un’ «omessa dichiarazione di redditi di capitale per un importo di oltre 2 milioni di euro da parte del socio, con residenza a Montecarlo».

Non sempre però risulta possibile continuare ad occultare certe faccende e quando la Guardia di finaza inizia a sequestrarti i beni, le voci circolano. Così il giorno dopo “magicamente” il nome dell’azienda e quello dell’imprenditore coinvolto appaiono per la prima volta nero su bianco sulla stampa locale.

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Peccato che il “racconto” della vicenda, raccolto in un pezzo a firma Stefano Totaro (professionista esperto di “decoro urbano”, sempre molto puntuale e impecabile in materie securitarie), sia la solita pappa (1, 2, 3, 4) in pieno stile Gazzetta di Modena con i “non detti” che risultano molto più eloquenti rispetto a quanto viene scritto. Fateci caso: nel pezzo in questione, ad esempio, non viene mai espressa la parola “sciopero”, non si accenna cioé in alcun modo alle lotte dei lavoratori che hanno “scosso” e interessato proprio quell’azienda negli ultimi anni, non viene mai menzionata la parla “sindacato”, nemmeno la sigla SiCobas appare mai. Ma non solo non si accenna minimamente all’arresto di Aldo Milani né, mai e poi mai, alla “famosa” (ma sarebbe meglio dire nascosta) telefonata intercettata fra l’amministratore delegato di AlcarUno e il dirigente della digos Marco Barbieri che affermava: «Abbiamo fatto una cosa pazzesca.» – «Abbiamo fatto un bingo» – «Abbiamo devastato i Cobas a livello nazionale, Lorenzo.»

Nulla. Niente di niente. Zero assoluto.

Ciò che “giornalisticamente” risulterebbe rilevante, i “cuori impavidi” della Gazzetta, lo fanno dire a tale Marco Bottura della Cgil. Perché se c’è un sindacato “ufficiale” in città, un sindacato che può ancora avere una voce “pubblica” questa è proprio la Cgil.

Dopotutto si tratta pur sempre di un sindacato che a Modena, in piena “emergenza coronavirus”, giusto una settimana fa, invece di preoccuparsi di chiedere il potenziamento delle strutture mediche e sanitarie, si occupava, in tandem col Pd, di chiedere il rafforzarzamento degli organici della polizia sul territorio. Vale a dire di “propaganda securitaria”, visto che ormai in Italia ci sono quasi più poliziotti che infermieri, a fronte di un continuo calo delle statistiche sulla criminalità e di perenni tagli alla sanità che hanno prodotto una situazione di questo tipo: (leggi qua)

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Ah le priorità del più grande sindacato italiano! Sigh!

Ma, digressione a parte, torniamo per un attimo a Marco Bottura, della Cgil in versione sindacalista/giornalista. Come riportato sempre sulla Gazzetta, nero su bianco, il segretario della Flai afferma che su AlcarUno «abbiamo fatto articoli» battaglie specifiche certo, «ma articoli sull’Alcar Uno [Sigh!], in cui contestavamo, ad esempio, l’operazione dell’azienda di richiedere dei finanziamenti pubblici alla Regione, pur con questo sistema di appalti».

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“Ma se si riavvolge un secondo il nastro delle vicende nell’ultimo paio d’anni di vertenze nel territorio modenese si capisce chiaramente come l’azione del più grande sindacato italiano sia stata una strategia molto più mediatica che reale” scrivevamo già nel 2018.

Ed effettivamente è solo spostandosi avanti e indietro cronologicamente e incrociando il maxisequestro di questa settimana all’Alcar Uno alle vicende legate alla Castelfrigo, vale a dire, a quell’altra grossa vertenza sindacale che ha “scosso” in questi anni il distretto carni modenese, (Castelfrigo dichiarata fallita in Tribunale e acquisita solo qualche giorno fa, tramite Inalca, dal gruppo Cremonini) che si può abbozzare un quadro effettivo della situazione.

Di ciò che in tanti a Modena ormai cominciano a denominare del “Sistema”.

E perdonateci se facciamo acora un passi indietro a quanto scrivevamo due anni fa, in un pezzo sempre chiamato Modena Pork: “Come arrestare Luciano Lama ai tempi della Cgil”, nel quale scrivevamo:

A fare da spartiacque il caso Castelfrigo che tiene banco nell’inverno scorso. In quest’occasione è la Cgil a gestire la vertenza e, complici le elezioni imminenti, ai cancelli dell’azienda si fa vedere e sentire anche tutto quel ceto dirigente della politica locale sempre pronto ad investire in visibilità e consenso sulle spalle dei lavoratori.

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Arrivano così  anche le prime “inchieste” con tutto quello sfoggio istituzionale fatto di comunicati, pacche sulle spalle e ipocrisia allo stato puro. L’operazione della Guardia di Finanza riguarda cinque aziende e quattro persone indagate per intermediazione illecita, sfruttamento del lavoro ed evasione fiscale fino tre milioni di euro. Altra anomalia: né la procura né la guardia di Finanza rendono noti i nomi delle aziende. Ma a Modena sembra funzioni così: se sei un cittadino normale riportano nome e cognome, se cinque aziende sono accusate di caporalato ed evasione i nomi non escono, tipo quel film con Kevin Costner: “Gli intoccabili”.

La finanza non fornisce i nomi delle aziende denunciate e chi fa informazione non glieli chiede di certo (poi ci domandiamo come le mafie abbiano potuto attecchire facilmente in questo territorio!) però sui giornali si possono leggere vere e proprie perle come queste: “La Finanza non ha reso noti i nomi delle società, ma nell’ambiente sono ben note.” Oppure: “Il provvedimento, notificato lunedì a cinque società (quattro delle quali fanno riferimento ad un unico soggetto), è un unicum nel panorama italiano dal momento che viene affidato agli imprenditori coinvolti un commissario.”

La sensazione è che altre “anomalie” verranno a galla nei prossimi mesi eppure, fino ad ora, sembrava già tutto così scritto, trama e interpreti, in un racconto “di fantasia” del novembre scorso dal titolo: Pastorale emiliana.

Negli stantuffi di Modena, dove batte il suo Pil, tra cemento e esportazioni, il tempo non scorre più, si attorciglia per tornare sempre al punto di partenza. In una nota pubblicata ieri su Facebook dal SiCobas  si poteva leggere:

Dopo 24 ore arriva la conferma che si tratta dell’ Alcar Uno di proprietà di Sante Levoni, cioè proprio la stessa azienda in cui per anni il nostro sindacato ha condotto una lotta durissima per affermare i diritti dei dipendenti in appalto, e che fu alla base della squallida montatura che portò prima all’arresto del coordinatore nazionale Aldo Milani con l’infamante accusa di estorsione ai danni proprio della famiglia Levoni, e poi a un processo per cui è ancora in corso la fase di appello nonostante l’assoluzione piena in primo grado.

Le dimesioni della truffa ai danni dei lavoratori e dell’erario pubblico sono gigantesche: 78 milioni di euro di redditi non dichiarati, 8 milioni di Iva non versata e 67 mila euro di ritenute non operate.
Tutto ciò grazie a quel fitto e sistematico utilizzo di somme versate ai lavoratori esentasse con la voce illecita di “trasferta Italia”, e della vendita al nero di tonnellate di prosciutti prodotti “di nascosto” grazie alle condizioni di sfruttamento schiavistico della manodopera garantite dal sistema degli appalti alle finte cooperative.
Tutto ciò a conferma di quanto il SI Cobas e i lavoratori di Alcar Uno e GlobalCarni hanno denunciato per oltre due anni, pagando con i licenziamenti, le manganellate fuori ai cancelli, il carcere e le montature giudiziarie.
Ora che il re è nudo, come sempre arrivano le dichiarazioni e i comunicati-stampa fuori tempo massimo della Cgil modenese: questi signori sono gli stessi che durante la vertenza contro i licenziamenti in Alcar Uno hanno erano in prima fila nella campagna di discredito e di diffamazione del SI Cobas. Sono stati complici di Levoni fino a ieri sera e ora hanno il coraggio di parlare di “diritti dei lavoratori”…
I VERTICI DELLA CGIL DA DECENNI SONO COMPLICI DI QUESTO SISTEMA, E OGGI DOVREBBERO SOLO TACERE E VERGOGNARSI!

Ed in effetti, ad osservarla a modo da fuori, stando un minimo attenti, si capiva subito come, in questi anni, mentre la Cgil «faceva articoli» chi effettivamente portava avanti le vertenze sindacali sul territorio, il SiCobas, (esempio Italpizza) veniva lasciato solo ad affrontare Questura e padronato.

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E quando parliamo di affrontare Questura e padronato stiamo parlando di centinaia e centinaia di denunce, di fogli di via (come ai tempi del fascismo), o di chi magari si è dovuto difendere in tribunale perché aveva accompagnato i propri figli al picchetto davanti ad Alcar Uno a deninciare proprio quelle irregolarità di cui ora si sono occupate le fiamma gialle, mentre questo, secondo la Questura di Modena, era banalmente il presupposto per un affido in comunità!

E sinceramente ora cominciamo ad averne piene le palle, o le ovaie, di banalizzare sempre, di sminuire, di minimizzare, di girasi perennemente dall’altra parte quasi come se Modena fosse divanta una Palermo di fine anni ottanta (e ci perdoneranno i siciliani ma non vogliamo di certo generalizzare, solo tentare di spiegare), dove vanno di moda le tre scimiette del «non vedo», «non sento», «non parlo».

Perché mentre la Guardia di finanza sequestrava moto, auto e chissà cos’altro alla famiglia Levoni, fino ad arrivare alla cifra monstre di 16 milioni di euro, il Tribunale della città mandava a processo 86 persone (quasi una per ogni milione di euro evaso da Alcar Uno) tra scioperanti e solidali colpevoli di aver scoperchiato letteralmente questa truffa ai danni dello Stato. Levoni

E tutto ciò accadeva senza che l’informazione cittadina avesse mai riportato nulla, nemmeno una riga, circa le dimensioni della repressione operaia che stava avvenendo su quella vertenza. (Anche sulle altre in realtà).

Ma forse alla Gazzetta erano troppo preccupati di pubblicare l’agiorgafia di Sante Levoni, oppure di ricevere qualche telefonata indisposta dagli uffici della Questura di Modena, un edificio nel quale poteva capitare tranquillamente di vedere sulle scrivanie della “polizia politica” gadgets e calendari di Alcar Uno.

Passa un altro giorno e, sempre sulla Gazzetta, Totaro torna alla carica: «Caso Alcar Uno, la lotta non è finita».

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È sempre la Cgil “naturalmente” quella a parlare, ma in questo secondo pezzo compaiono inaspettatamente anche le paroline magiche “sindacato” e “Sicobas”.

«Dopo una fase in cui negli anni 2000 la Flai-Cgil di Modena aveva sollecitato le imprese del settore, le organizzazioni imprenditoriali, le istituzioni e le amministrazioni a contrastare il fenomeno dilagante delle false cooperative di manodopera, si è iniziato a denunciare alle autorità competenti le illegalità del sistema: intermediazione illecita di manodopera, applicazione di contratti di lavoro inadeguati, evasione fiscale e contributiva a danno dei lavoratori, illeciti vari nella conduzione delle cooperative stesse, spesso di fatto gestite delle aziende committenti. La famiglia Levoni non si è fatta mancare nulla: una cooperativa di manodopera “fatta in casa”, la “Log-man”, gestita da famigliari dei Levoni; un’altra cooperativa, “Alba Service”, il cui presidente denunciava sconsolato al tavolo prefettizio che i soci-lavoratori venivano gestiti di fatto dall’azienda committente; un’altra cooperativa ancora, la “Planet”, che faceva parte del famigerato “Consorzio Job Service” che, oltre a produrre cooperative una dietro l’altra (tra le quali quelle che operavano anni fa in Castelfrigo), creava buchi milionari per l’erario.
Infine, in piena vigenza del Testo Unico della Regione Emilia Romagna per la “Promozione della Legalità e per la Valorizzazione della Cittadinanza e dell’Economia Responsabili”, la richiesta di finanziamenti pubblici per 7,6 milioni di euro (di cui 1 milione dalla Regione Emilia-Romagna!) per le “innovazioni tecnologiche” e per espandere, di fatto, il modello vincente degli appalti di manodopera.»

Allora siccome a Modena i giornalisti sono spesso più occupati a nascondere che a domandare le domande che oggi sorgono spontanee le poniamo noi.

1. Se la Flai-Cgil aveva già «denunciato alle autorità competenti il fenomeno dilagante delle false cooperative di manodoperale» e le irregolarità del sistema nel 2000, cosa è stato fatto in tutto questo tempo? Sono passati vent’anni da allora, quanti occhi e orecchie sono stati chiusi nel frattempo?

2. È indubbiamente vero che la politica abbia latitato parecchio circa i problemi di sfruttamento del lavoro che emergevano dal territorio. È vero che spesso ha assunto la posizione comoda di chi esprimeva “preoccupazione per i licenziamenti” tuonando, al tempo stesso, contro le “illegalità dei picchetti”. È altrettanto vero però che man mano, latitando ambiguamente la politica locale si sia fatta sostituire dai corpi armati dello Stato, Questura e magistratura, non sarebbe il caso di cominciare a interrogarci anche suruolo che hanno svolto questi due istituti in tutta questa vicenda?

Quando c’è un dirigente della Digos di Modena che intercettato a colloquio con l’amministratore delegato di Alcar Uno che dice, testuali parole: «Ma che scheggia impazzita. Abbiamo devastato i Cobas a livello nazionale, Lorenzo. Abbiamo fatto una cosa pazzesca.» E ancora: «Abbiamo fatto un bingo che non ne hai idea. Per noi è una cosa pazzesca, Lorenzo. Perché adesso i Cobas… Come arrestare Luciano Lama ai tempi della Cgil d’oro.» non sarebbe l’ora di alzare la mano e vederci più chiaro?

Già che ci siamo, ricordiamo pure che ormai la Digos a Modena sequestra e distrugge anche le opere d’arte dedicate all’eccidio del 9 gennaio, quello delle Fonderie Riunite, quello al quale la Cgil di Modena ha da poco dedicato una mostra.

 

3. Quand’è che sulla stampa locale verrà finalmente detto che ci stanno 86 persone denunciate per gli scioperi ad AlcarUno e per un corteo in solidarietà a quella lotta? Non è fose anche (e soprattutto) grazie a loro se questa maxievasione è venuta a galla?

4. Cosa rappresentano 80 milioni di euro evasi da una singola azienda in un momento nel quale, la Regione Emilia-Romagna, si vanta di riuscirne a stanziare rapidamente appena 38 per rafforzare gli ammortizzatori sociali in risposta all’emergenza epidemiologica coronavirus?

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5. E a fronte di tutto ciò, cosa significa processare con costi abnormi per il sitema giudiziario 86 persone (lo ribadiamo, quasi una per ogni milione di euro evaso da Alcar Uno) solo perché protestavano denunciando proprio questo sistema di illegalità? Quand’è che si comincerà ad affrontare seriamente e politicamente il problema della repressione e del populismo penale che ci circonda? Quando sarà troppo tardi?

Già oggi è illegale fare qualsiasi cosa. Anche scioperare, almeno fino al 31 marzo, stando a ciò che dicono le istituzioni destinate a “proteggerci”.

La sensazione è che le chiacchiere ormai stiano a zero e gli scricchiolii comincino ad essere evidenti anche sotto l’opprimente cappa della pax emiliana fatta di aria tossica e “normalità” apparente, fra una richiesta securitaria sempre pronta a domandare qualche poliziotto in più e una spesa sociale e sanitaria che in questi giorni sta lanciando un profondo grido d’allarme.

Delle due l’una, o Stato sociale o Stato penale, e bisogna cominciare a dire chiaramente da che parte stare!

 

Winter is coming.