“Achtung! Banditen” Sul linguaggio e sulla condizione operaia in provincia di Modena nel 2018: il caso Italpizza.

Posted on 14 dicembre 2018

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“La gente comoda nelle case asciutte provò dapprima compassione, poi disgusto, infine odio per la gente affamata”.
John Steinbeck, “Furore”.

 

Cariche e lancio di lacrimogeni da una parte, lavoratori che denunciano e che chiedono la fine di un sistema di sfruttamento con ampie fette di irregolarità dall’altra.

Questo, in sostanza, quello che è successo a Modena tra la fine di novembre e i primi di dicembre con il “caso” Italpizza.

Una vertenza sindacale molto importante (che si può ripercorrere qua), non solo perché sfida direttamente, per la prima volta in Italia (in contemporanea con Udine), le nuove leggi fascistissime, il Decreto Sicurezza per intenderci, che reintroduce il reato di blocco stradale (con pene che variano dai 2 ai 12 anni!), ma anche perché fa registrare un primo colpo a favore delle libertà sindacali e dei diritti dei lavoratori in un territorio che ha ormai dimenticato da tempo parole e significati semplici come lotte e giustizia sociale.

“In città (si scriveva un paio d’anni fa) aprono sedi neofasciste mentre chiudono le altre. Il consolante film “della città medaglia d’oro per la resistenza” è giusto una dolce illusione, sottotitolata e in bianco e nero. Di quel tipo di “egemonia”, in queste lande d’Emilia “rossa”, è rimasta giusto la nomea e quel deficit di pensiero tipico di un luogo nel quale c’era “il Partito” che “pensava al posto tuo” e ti diceva “cosa era giusto fare”. Oggi lo si nota maggiormente e prima ancora di aver colonizzato un “terreno” ciò che è stato conquistato da lungo tempo era prima di tutto un linguaggio, un lessico. Si perde sempre un pezzo alla volta. Le continuità tra pratiche e programmi di destra e amministrazione locale cominciano da lì. Da un linguaggio comune. È un concerto semantico a cui media locali e generali partecipano attivamente come amplificatori, colpendo a turno sugli stessi temi e sulle stesse vittime. […] Così, ad esempio: per riqualificazione intendiamo la cacciata dei poveri dal quartiere, chiamiamo accoglienza Cona o aiuto all’integrazione il lavoro gratuito (forzato di fatto se si considera il ricatto dei documenti), il racket è sempre quello dei lavavetri, l’alternanza scuola-lavoro un’opportunità, un’esperienza, il tirocinio non pagato è per il tuo bene e fa curriculum, chiamiamo Jobs-Act una serie di norme che non servono a creare lavoro ma a licenziare, chiamiamo rimpatri le deportazioni, missioni di pace le guerre, terroristi quelli dalla pelle scura o con la religione giusta che compiono stragi, squilibrati o ultras quelli bianchi e fascisti (questo ultimo termine è generalmente bandito), i diritti sempre tra virgolette, gli scioperi sono sempre di venerdì (come se non ci fossero categorie che lavorano anche al sabato e la domenica), il privilegio lo chiamiamo meritocrazia e assistenzialismo o spreco il welfare residuale…”

Ma cosa c’entra tutto questo con la vertenza Italpizza?

C’entra perché una delle preliminari e più invasive forme di controllo è proprio quella del linguaggio, del lessico. Le cose esistono, se le si nomina. downloadAd esempio, uno dei termini più spregevoli e utilizzati in questi anni dal linguaggio politico (e giornalistico), la parola clandestino, di fatto non esiste. Non la si ritrova in nessun testo di legge dello Stato, nemmeno nell’ultimo famigerato Decreto Sicurezza eppure, è perennemente sulla bocca di tutti. Dietro alle parole ci stanno le persone e spesso, la violenza compita sulle prime si trasforma nell’anticamera della violenza compiuta sulle seconde.

Le parole veicolano il mondo che ci circonda, lo caratterizzano e lo infrastrutturano di significato, proprio per questo ogni movimento sociale è anche un momento di sovversione del linguaggio nel quale le formule tradizionali e dominanti, quelle etichette che si appiccicano a cose e persone, vacillano.

Se si analizza la vertenza Italpizza attraverso i lunghi rivoli del linguaggio, del linguaggio del potere quello formato dai “media”, dagli “esperti”, dai “politici”, si possono trarre parecchie indicazioni a nostro avviso.

Partiamo. Prima di tutto vi è il racconto. Sembra una frase fatta ma non lo è. È un dato oggettivo. Il primo. Perché questa volta il racconto c’è, non è un trafiletto di giornale piazzato in mezzo alla cronaca spiccia, tra furti, schiamazzi molesti e spacciatori come consuetudine per le lotte dei lavoratori dei distretti produttivi della provincia modenese. Perché lì finivano, almeno fino alla vertenza Castelfrigo (una faccenda che ha destato scandalo persino sulla stampa locale della quale abbiamo scritto qua) queste cronache dal mondo lavoro, come se il tag dalla razzializzazione della microcriminalità potesse essere trasferito “di costume” anche su questi lavoratori, prevalentemente stranieri, in forza a quei segmenti produttivi nei quali lavoro in appalto, cooperative spurie e caporalato erano ormai la norma. La teppa del lavoro. Nel mentre, gli unici sindacati che trovavano stabilmente ampio spazio tra le pagine della Gazzetta e del Carlino erano quelli di polizia o della municipale.

La vertenza Italpizza invece è esistita, ha avuto una sua dignità anche mediale tutt’altro che trascurabile. Sui giornali c’è finita, c’è finita eccome e questo non soltanto perché il sindacato (S.I.Cobas) oggi è più strutturato nella nostra provincia, ma anche perché lo scorso anno, tra Natale e Capodanno, la vicenda Castelfrigo ha squarciato l’immagine del bel presepe emiliano, delle “eccellenze produttive”, che scricchiolavano già da tempo e ovunque anche se mancava la certificazione della confessione pubblica del problema, soprattutto in certi ambienti. Un problema capillare e di “Sistema“.

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Ma come è stata descritta mediaticamente la vertenza Italpizza?

Innanzitutto c’è da registrare il solito giochino fastidiosissimo dei markers di significato. Uno di questi è sicuramente lo sport di confondere volontariamente fumogeni e lacrimogeni (perché è difficile pensare che un giornalista professionista ne ignori la differenza) che va sempre molto di moda tra i titolisti della Gazzetta di Modena. (Foto del 2016 ⇓)

Non è affatto uno scambio neutro, perché se i fumogeni sono tendenzialmente innocui e utilizzati generalmente dai manifestanti, i lacrimogeni, al contrario, non lo sono per niente, vengono classificati come un’arma chimica (banditi pure dalla Convenzione di Parigi) e sono ad esclusiva disposizione di forze dell’ordine ed esercito. Se li si confonde è solo per mischiare le carte, per mettere in buona luce una parte e gettare “ombre” su quell’altra.

Stesso discorso per un altro marker di significato tipico di queste situazioni, la parolina “scontri“, utilizzata sempre e solo a sproposito cioè quando degli scontri proprio non ce ne sono, ma ci sono solo delle cariche da una parte e della resistenza passiva dall’altra.

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Questo lancio, ad esempio, è un capolavoro.

Per far capire la valenza connotativa di questa semplice parola – “scontri” – basta prendere la Gazzetta di Modena del 12 dicembre, il giorno dopo l’accordo in Prefettura, e troviamo proprio quest’ultima in prima pagina – gli “scontri” – non la vertenza all’Italpizza.

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Su altri “lanci” non ci soffermiamo troppo, ricordiamo solo che quando titoli “guerrilla” poi non puoi stupirti più di tanto se nei commenti alla tua pagina social trovi chi afferma espressamente: “stirateli coi camion” riferito ai lavoratori che protestano.

Per la cronaca, è già successo in Italia che un lavoratore sia stato ucciso in questo modo, investito da un camion, durante un picchetto coi suoi compagni, mentre il responsabile del magazzino gridava quelle stesse parole che si ritrovano in certi commenti su Facebook: “andate avanti, andate avanti, asfaltatelo come un ferro da stiro.“ Si chiamava Abd Elsalam Ahmed Eldanf, ucciso a Piacenza nel settembre del 2016

Se questo è il discorso per quanto riguarda la cronaca tutt’altro capitolo è quello riservato alle dichiarazioni dell’establishment e della/e aziende. La vertenza dell’Italpizza, bisogna dirlo, sui giornali locali è stata molto plurale, non solo la voce dei padroni si è sentita, anche quella dei lavoratori è stata riportata ampiamente e fedelmente. I toni e gli argomenti utilizzati dalla parte aziendale però offrono molti spunti.

La prima uscita pubblica degna di nota da parte dell’azienda è del 7 dicembre, subito dopo la prima giornata di cariche e lacrimogeni (c’erano state anche nella serata del 5). In questo caso si parla solo di: “brutale aggressione di gruppi violentiai nostri cancelli si ripetono atti costituenti reatoperpetrati alla presenza degli esponenti delle forze dell’ordine che nonostante il loro encomiabile impegno…” insomma, per l’Italpizza i lavoratori che protestano a Modena sono “un gruppo di vandali che giunge da non si bene da dove intende mettere a ferro e fuoco la nostra azienda” testuali parole.

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In pratica una reductio a crime, a teppa del lavoro, una criminalizzazione delle istanze della vertenza nella quale non si tratta più di lavoratori che reclamano dei diritti giusti e che denunciano situazioni di irregolarità sistemica ma di “vandali”, di “banditi”. Si richiama quel diaframma della società neoliberale che tenta di dividere tra «classi laboriose» e «classi pericolose». Separazione – apartheid. Achtung! Banditen! arriviamo esattamente a questo.

D’altro canto le forze dell’ordine e la Questura di Modena già si muovono e si muovevano come se fossero impiegate proprio contro dei “banditi”. In quella stessa giornata del 7 dicembre, infatti, escono i primi comunicati di solidarietà ai lavoratori in sciopero, e nella nota dell’opposizione Cgil de “il sindacato è un’altra cosa” lo si afferma addirittura chiaramente: “ormai la polizia a Modena ha un ruolo attivo dentro ogni vertenza sindacale, spalleggiando smaccatamente la parte datoriale: cambiano i questori ma la musica è sempre la stessa, la polizia agisce come una novella “agenzia Pinkerton” al servizio dei padroni – pur essendo pagata dalle tasse dei lavoratori, anche dei manganellati…” 

La solidarietà si rivelerà un’arma efficientissima per la conclusione della vertenza. Non a caso, l’11 dicembre, i toni si fanno completamente differenti, non ci sono più i “vandali” e le aziende giocano in difesa.

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Questa volta a prendere parola (qua e in foto) è Andrea Fiorini presidente di Evologica, la cooperativa che insieme a Cofamo ha gli  in appalti in Italpizza. Loro, ci tengono a precisare, non sono affatto cooperative spurie con prestanomi stranieri, ma sono due imprenditori modenesi (prima i modenesi!) che  fanno “lavorare quasi 600 donne che altrimenti farebbero fatica a trovare lavoro”  – “Noi diamo lavoro a centinaia di persone, in gran parte donne straniere che altrimenti avrebbero grandi problemi a trovare un impiego. Se il tema è mettere ordine nei turni possiamo farlo ma sempre nell’alveo della legalità cosa che in questi giorni qualcuno non sta rispettando dipingendo questa azienda come se fosse Alcatraz. Qui abbiamo due noti imprenditori modenesi che danno lavoro a 900 persone oltre alle cento che dipendono direttamente da Italpizza”. Si vede che non guadagnano, né loro né Italpizza, che la loro funzione è prettamente caritatevole, che è tutto in regola e che loro si muovono nella legalità (i “briganti” sono altri). Certo, “se poi qualcuno vuole cambiare questo modello perché lo ritiene troppo vantaggioso per le imprese lo faccia ma di certo non si può dire che qui si operi al di fuori della legalità.” O ancora: “Possiamo sederci e parlare con i manifestanti ma non possiamo accettare la violenza di questi giorni.” Infatti, per avere un tavolo, se si è seguito un minimo la vertenza, ci sono voluti sei giorni consecutivi di sciopero, altro che “Possiamo sederci e parlare con i manifestanti” mentre le violenze inaccettabili non erano altro chela resistenza passiva dei manifestanti.

In pratica, un distillato del brodo di coltura del fascio-leghismo e del regime di apartheid da esso imposto recentemente col Decreto Sicurezza; tutto perfettamente compatibile col “modello emiliano” che proprio nelle sue vetrine produttive più importanti, stava silenziosamente incubando i virus più spregevoli.

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Dopotutto, ciò che rimane dopo una vertenza durissima come questa, sono le parole del Prefetto, Maria Patrizia Paba, che dopo l’accordo, si è detta soddisfatta dell’intesa ma ha, attenzione bene alle parole:stigmatizzato gli episodi di violenza che sono consistiti nel blocco dello stabilimento e nell’invasione della sede stradale che hanno causato anche rallentamenti alla circolazione e quindi hanno influito sul diritto alla mobilità dei cittadini modenesi e non solo.” Le violenze sono state il blocco dello stabilimento e l’invasione della sede stradale, cioè proprio quei mezzi che hanno consentito ai lavoratori di ottenere un tavolo di trattative e di farsi, se non altro, ascoltare. Verrebbe da chiedere al Prefetto se uno sciopero incide così tanto sul diritto alla “mobilità dei cittadini modenesi e non” cosa si dovrebbe pensare allora di Autostrade per l’Italia o del gruppo Benetton dopo il crollo del ponte Morandi?

Purtroppo è tutto già estremamente chiaro e basta ascoltare questa brevissima dichiarazione, rilasciata a TvQui da Eleonora Bortolato del S.I.Cobas per rendersene conto.

L’a,b,c dei diritti dei lavoratori:

1) Tutte le 13 lavoratrici e lavoratori colpiti da licenziamenti, sospensioni e trasferimenti punitivi torneranno al loro posto di lavoro, entro e non oltre il 20 gennaio prossimo, regolarmente retribuiti per tutto il periodo di assenza.
2) I turni di lavoro dovranno rispettare periodo di riposo, festività e riposi compensativi. L’odiosa e illegale pratica del lavoro a chiamata deve cessare.
3) Istituzione di un tavolo sindacale in cui valutare le condizioni contrattuali, retributive e contributive di ciascun lavoratore. 

A,b,c che hanno scritto comunque “un bel pezzo di storia sindacale” della città e che sarebbero da considerare come l’unica misura anticrisi messa in campo da un po’ di tempo a questa parte. Perché, diciamocelo pure, è proprio dentro la precarietà, il deprezzamento del lavoro, la ricattabilità di un permesso di soggiorno o la paura di non trovarne più alcuno che si annidano le ragioni della crisi e allora scioperare, tentare di spezzare queste catene economiche e strappare un po’ ricchezza anche per chi è forzato al lavoro sono da considerarsi una ricetta anticrisi!


Post scriptum:

Giusto ieri, due imponenti operazioni di polizia a Cosenza e Milano si sono scagliate contro comitati per il diritto all’abitare, cioè contro quegli attivisti che, negli ultimi 15 anni, hanno dato una risposta politica alla mancanza di case attraverso l’occupazione di edifici dismessi, tramite la denuncia del malaffare e con la pratica dell’azione diretta. Le accuse sono pesantissime: associazione a delinquere e una vera e propria inquisizione orchestrata unicamente per la depoliticizzazione delle pratiche di lotta.

Sui giornali gli accusati sono sbattuti in prima pagina con nomi e cognomi, compaiono addirittura dei video sottotitolati con le presunte intercettazioni criminose.
Un’accusa che come ricordano i membri del comitato, è totalmente paradossale. Volano diffamazioni anche gravi come il presunto scambio di denaro per le occupazioni, ma le risposte degli attivisti sono ferme: “abbiamo denunciato i poteri forti e tutto il carrozzone che gestisce davvero in modo delinquenziale l’emergenza abitativa del territorio ma la procura è impegnata a perseguire gli attivisti sociali”, riporta un abitante da Cosenza.

Azioni che ricordano da vicino l’affaire Aldo Milani, l’arresto del sindacalista del S.I.Cobas, a Modena nel gennaio 2017. Anche il quel caso un video senza audio fu dato in pasto a tutte le testate giornalistiche, locali e non, che le pubblicarono subito come prova di evidente colpevolezza.

Ma lo si dovrebbe avere capito ormai, anche dopo il caso eclatante di Mimmo Lucano (ma non solo), cosa si intenda oggi in Italia con la cosiddetta “legalità”.

Vi si lascia con una riflessione quanto mai attuale, la legalità del male:

“Si possono definire “delinquenti” dei ragazzi che fanno del bene senza trarne alcun vantaggio, profitto o lucro? È giusto accusarli degli stessi reati imputati ai mafiosi? Dipende dal significato che si attribuisce al termine “bene”: un tempo lo mettevano in pratica anche le persone impegnate a combattere le ingiustizie sociali. Negli ultimi anni si è andata invece affermando l’idea che soltanto la carità, le collette solidali e la beneficenza siano atti di “bene”. Invece chiunque si riappropri in pubblico, megafono alla mano, di ciò che è negato a milioni di donne e uomini, è visto come un disadattato, un potenziale terrorista oppure, nella meno perfida delle ipotesi, come un “buonista”. È chiaro che c’è una bella differenza tra conflitto sociale e beneficenza. Lo sanno anche le autorità costituite per le quali l’obiettivo reale non è il contrasto dell’illegalità. Magistrati e poliziotti sono impegnati a cancellare l’idea stessa che attraverso un uso ragionato e collettivo della forza si possa ottenere quel che il nostro sistema vieta a milioni di persone: la dignità.”

Il riassunto della situazione ⇓

https://twitter.com/sardoedmodna/status/1073581999137292288