
Prima le strade, poi i quartieri, poi licei, poi gli aeroporti, in Francia, in questi giorni, si è cominciato a bloccare tutto. Dalla grande metropoli al più piccolo paesino non vi è luogo che non si sia mobilitato, almeno in parte, contro la misura fiscale che ha fatto da trampolino al movimento. Gilets jaunes l’hanno soprannominato per via delle pettorine catarifrangenti utilizzate durante le prime proteste.
Tanto si è scritto su questo movimento e tanto ancora ci si interrogherà sulla sua reale natura in divenire. Da parte nostra, ci limitiamo a suggerire due cose:
La prima è di osservare sempre bene dove si posizionano i vari maggiordomi della borghesia, liberisti o fascisti che siano (il confine si sta facendo sempre più labile) per comprendere al meglio le coordinate in base alle quali schierarsi.
La seconda è la traduzione di questo testo, qui di seguito, che, lungi dal definire chicchessia, analizza il moto tellurico da un punto di vista generale ma, a nostro avviso, preciso e estremamente interessante.
Il pezzo è questo, preso e tradotto da lundimatin.
Nel movimento dei gilets jaunes è la calsse media in quanto tale quella con cui abbiamo a che fare. Non persone normali e “politicizzate” (rimarchiamo le virgolette), ma persone normali, punto.
Ora, qual è il problema della classe media, dal punto di vista rivoluzionario? Essa ha lo svantaggio di non incarnare nessuna oppressione particolare, sempre legittima, a cui non mancherebbe che la radicalità. Mentre il proletariato, i paria, nel sentimento dei rivoluzionari, se non si posizionano necessariamente dalla parte giusta, sono piuttosto prossimi al lato giusto. Il rivoluzionario ha immediatamente voglia di essere solidale con il proletariato, con i poveri, con gli esclusi, gli stigmatizzati. Se il suo discorso non è troppo chiaro, perlomeno, lo sono le sue condizioni.
La classe media è la non-classe per eccellenza, è la classe che essa stessa, da sola, risulta sufficiente a contraddire qualsiasi discorso sulle classi. Essa aggiunge allo sfasamento del discorso una condizione puramente confusa. Oggi, si scopre con i gilets jaunes, che la classe media fa un’entrata folgorante sullo scenario politico.
Il movimento sembra aver imparato e tenuto in considerazione ciò che hanno espresso tutte le lotte recenti. Strategicamente, si vuole autonomo, senza cedere a partiti o sindacati. Tatticamente, opta per l’irruzione, rifiuta i luoghi che gli si impone e adotta gesti apertamente di rivolta. Politicamente, non è nulla, nient’altro che il rifiuto. Non possiede ancora un discorso. Non ha il minimo luogo di organizzazione eccetto i social network. Per il momento, questa grande massa di persone che agiscono non discute di politica se non in maniera informale, nel bel mezzo dell’azione, durante i blocchi o attorno ad un fuoco. Ciononostante il movimento una cosa l’ha affermata davvero: la sua determinazione, il suo carattere irrecuperabile e totalmente incontrollabile. Infine, nel surriscaldarsi della giornata del 24 novembre a Parigi, il movimento ha parlato di rivoluzione.
I gilets jaunes, sono un qualcosa di pressoché incomprensibile dal punto di vista rivoluzionario, è la classe media, l’eterno ventre molle, che si arrabbia.
Certo, alcuni parleranno di proletarizzazione, diranno che si tratta di classe medio-bassa. Ma la cosa importante non è quella. L’importante è essere in grado di ammettere che la rivolta non arriva mai per lusingare qualcuno, non arriva mai per corrispondere agli schemi tanto attesi. La rivolta, smuove le acque, è torbida, da che tempo è tempo, oppure non è una rivolta. Bene voilà, ora sono i gilets jaunes a smuove le acque secondo il parere e nelle proiezioni delle persone “avanzate”, “politicamente consapevoli”. Non è nemmeno una questione di pregiudizi, è decisamente una questione di distanza etica, epidermica. Difficile dirlo in altri termini: abbiamo voglia di rivolta, ma non vogliamo che questa parta da là. Per molto tempo, per così dire, abbiamo aspettato che i quartieri popolari si ribellassero. Anche se solo in minima parte, abbiamo creduto nella rivolta contro la loi travail, abbiamo creduto nei ferrovieri. Ma lì, non potevamo crederci.
In realtà, la situazione è molto più aperta di quanto non sembri, e giustifica che ci si creda, anche se naturalmente nulla assicura che l’embrione rivoluzionario, quello che ne contiene il fiore, si dispieghi e vinca.
Per prima cosa, dobbiamo ricordare che un movimento dipende sempre dalle forze che si attivano o non s’attivano nella battaglia. Se i rivoluzionari si astengono, esercitando il loro diritto di riserva, il piano risulterà inclinato. Supponendo che questo movimento guadagni ancora forza, esso rimarrà confuso, quindi più o meno reazionario.
Quindi occorre prendere sul serio quello che sta succedendo. Come si arriva ad una situazione nella quale gente programmata per non ribellarsi (la classe media), programmata al meglio per parodiare la sovversione, si rivolta per davvero?
Anche se occorre innanzitutto non scartare l’eventualità del peggio, occorre sospendere la divisione sinistra/destra, che qui ci impedisce di comprendere ogni cosa. Cosa esprimono i gilets jaunes? Una sensazione di strangolamento economico. Immediatamente, abbiamo il riflesso di dire a noi stessi: cosa, questa gente non pensa veramente che al proprio portafoglio? Siamo delusi: cosa, il prodotto del modello dominante di vita è sotto i nostri occhi, cioè la fine del mondo, e questa gente si solleva per una storia di tasse?
Le condizioni sociali sono condizioni politiche, la sociologia, è della politica stratificata. Ogni condizione corrisponde a un rapporto col denaro, che occorre conoscere. Al ricco non importa del denaro, quello non è mai un problema per lui. Il ricco, è colui che è troppo ricco per pensarci. Si potrebbe dire che lui è denaro. Anche il rivoluzionario non si preoccupa dei soldi, ma perché non dimentica che si tratta di una pura convenzione. Esso sa che tutto ciò che si riferisce al denaro tende al sortilegio più completo. Per lui, il denaro riassume una certa pratica religiosa che ha per assoluto il livellamento di tutte le cose. Quindi, per ragioni completamente opposte, i ricchi e i rivoluzionari hanno la stessa non-preoccupazione per il denaro. Viceversa, essere poveri è quella situazione in cui la preoccupazione per il denaro è estrema, massimale, al punto che solo un’immensa rassegnazione sembra essere in grado di compensarla e quasi di farla dimenticare, rendendo la privazione qualcosa di naturale. La condizione di povertà si impone come una quasi fatalità. Per tutta una serie di motivi, o piuttosto di coincidenze assurde, essere poveri, è sempre, in una maniera o nell’altra, essere in una condizione di accettazione – perché non appena si fa diversamente, si smette di essere poveri. Si armeggia, si traffica, si fa tutto il possibile per non identificarsi con questa condizione, che ci si riesca con mezzi legali o meno. Il povero è colui che non diventa un “bandito”, tra gli altri.
In generale, sconfiggere la povertà, per prima cosa, è sempre innanzitutto un rompere col fatalismo. La classe media, spesso sotto forma di success story familiare, conserva in essa il souvenir di questa vittoria sulla povertà. In realtà, questa memoria la ossessiona piuttosto come un trauma, quello della possibilità reale, memorizzata, di un ritorno all’indietro. La preoccupazione per il denaro è permanente, e questo tanto più quando finalmente abbiamo accesso ad esso. Si è della classe media quando si guadagnano abbastanza soldi, consapevolmente o meno, direttamente o meno, e si pensa solo a quelli. Essere della classe media, questo ci si merita. Questo richiede di per sé una serie di conquiste sociali senza le quali si decade immediatamente da questa condizione: il lavoro, il lavoro onesto, i bambini, la casa, i comfort, una buona immagine sociale, l’acquisizione di un certo numero di tecnologie e di oggetti in voga, le vacanze e, ovviamente, l’automobile.
Sul piano della psicologia sociale, sul piano politico, quando si è della classe media, non si è nella condizione della leggerezza tipica di chi ha superato definitivamente la povertà: si è letteralmente intrappolati, bloccati tra l’obiettivo irraggiungibile di diventare troppo ricchi per non essere più preoccupati dal denaro e la realtà fatta dal rischio permanente del declassamento sociale.
Ci si attiva economicamente, si vive a credito, si fanno progetti o si vorrebbe essere in grado di farli. Non c’è una posizione sociale nella quale si conosca e si sappia meglio cos’è il denaro.
Che cos’è il denaro? È una pura convenzione ma dà vita ad un mondo, e la classe media è al centro di questo mondo. Quando si hanno entrambi i piedi in questo mondo, il denaro non è per nulla una convenzione, il denaro è, dalla A alla Z, un potere coercitivo.
Ora, ecco il sentimento che senza dubbio è all’origine dei gilets jaunes. I vincoli economici sono vincoli tout court. Sono vissuti come un potere che obbliga a delle cose e ne vieta altre. Il denaro è sofferenza concreta. Il denaro si paga in sofferenza. È la morsa allo stomaco davanti alla cassetta della posta, è ciò che è fuori dalla nostra portata e che diventa un’ossessione, è tutto ciò che non possiamo permetterci, è quello che possediamo e che non ci riempie mai, è la famosa fine del mese, è l’insieme dei debiti, è il sentimento di strangolamento che si può sempre scegliere di ignorare ma che non scompare mai del tutto, che è sempre presente, che regna.
Si considera generalmente che ciò che è degno di suscitare una rivolta, è un’ingiustizia pura e semplice, il fatto di non essendo in grado di “vivere una vita normale”. Ma ciò che è egualmente degno di suscitare la rivolta, è la normalità in quanto tale, è il modo in cui si paga la “gioia” e la “fortuna” di vivere una vita normale.
Pertanto, il momento in cui gente della classe media dichiara che quella decisione governativa è la goccia che fa traboccare il vaso, e di agire in conseguenza, è il momento nel quale si afferma questa verità sociale che tutti sperimentiamo: i vincoli economici sono vincoli politici. Quando si hanno entrambi i piedi in questo mondo, quando il proprio dovere è quello di pensare come tutti gli altri, quando non c’è alcuna ragione per considerare che ci siano altre cose al di fuori del mondo del denaro, allora, una tassa, una non rivalutazione del salario, qualsiasi decreto “economico” è vissuto direttamente come un potere che si esercita, come un abuso dichiarato. Questo può in qualche modo far scattare una rivolta. Non ha senso chiedersi perché sia stata questa goccia tra milioni di altre. È questa goccia che ha fornito l’occasione.
Queste sono le uniche parole che possiamo mettere sopra al movimento dei gilets jaunes: qualsiasi vincolo economico è un vincolo politico.
Ciò che aggiungiamo, quindi, è solo una generalizzazione. L’economia stessa è un puro vincolo politico. E dal momento che tutto è diventato economico attorno a noi, dobbiamo guardare all’economia per quello che è: un regime totalitario.
Ciò che aggiungiamo è che il vincolo generale, il vincolo dei vincoli, è il lavoro. Il lavoro non è più una maniera di vivere, e neppure di sopravvivere. Non ha niente a che fare con ciò che ti piace o non ti piace fare nella vita. E anche quando ti piace quello che fai al lavoro, vedrai presto che ciò che apprezzi, forzato dentro a quella dimensione, il lavoro lo sta distruggendo o sporcando.
L’oppressione dell’economia significa questo: occorre ammettere una definizione puramente politica del lavoro. Lavorare è collaborare con la macchina, con la macchina economica, con la macchina che distrugge tutto, che oggigiorno minaccia ufficialmente l’umano e il vivente. Non è nient’altro. È qui che la fine del mondo e la fine del mese, come direbbe quell’altro, sono la stessa cosa. Lavorare è sempre lavorare alla fine del mondo.
Macron propone di trattare entrambe le questioni e sappiamo come. Noi diciamo che l’unico modo per trattarle, il maniera liberatoria, è il rifiuto del lavoro. Non solo mettersi in sciopero, ma prendere la decisione di lasciare la nave per non affondare con essa. In questa storia, i topi non sono quelli che lasciano la nave, sono quelli che rimangono. Coloro che continuano a dire a tutti che ne usciremo, che troveremo delle soluzioni, conducendo sempre la stessa vita stupida, distruttiva e avvilente.
Il lavoro è una dipendenza socialmente costruita. Se il capitalismo inquina, è perché prima ha intossicato tutti noi. O un lavoro ce l’abbiamo e allora siamo sottoposti ad un’intossicazione volontaria (di noi stessi e del pianeta), e non sappiamo nemmeno come fermarci, lavoriamo ovunque, nei trasporti, a casa, ovunque. O un lavoro non lo abbiamo e ne cerchiamo uno perché ci manca.
Tabacco, alcol, gioco d’azzardo: è noto, lo Stato ingrassa sulle nostre dipendenze, non possiamo credere che abbia il minimo interesse a porvi rimedio. Ed è per questo che le persone (di destra) possono sempre dire che lo Stato tassa e s’ingrassa sul lavoro. È vero, lo Stato s’ingrassa anche sulla dipendenza dal lavoro. Ma al di là di questo genere di considerazioni laterali, coloro che ci guidano non hanno che un solo scopo nascosto e profondo: mantenere le persone entro i limiti delle strutture esistenti. Rendere le persone sempre più addicted al lavoro e all’economia. Letteralmente e politicamente: rendere le persone sempre più dipendenti.
Il movimento dei gilets jaunes, se vuole realmente rovesciare il governo con una prospettiva alle spalle, deve affermarsi come un movimento di distruzione della dipendenza economica. Ora, viviamo tutti in uno stato d’intossicazione. Ciò che comporta è estremamente profondo, e questo richiede la necessità assoluta di parlarne, di discuterne tra noi. Parlare tra noi, non al potere. È molto importante smettere di credere che le possibilità reali risiedano solo dal lato del potere, dalla parte di ciò che è sempre stato. Dobbiamo resistere alla logica del male necessario, del ricatto sociale. Il potere ormai ha persino la realtà contro di lui.
Politicamente, cos’è la fine del mondo? Questo è il problema di cui qualsiasi potenza d’inversione sociale deve assolutamente farsi carico. Perché non ha altra scelta e perché quello che sente è il segnale di un passaggio di portata storica. Questo è il problema numero 1, perché è quello che tutti i governi possono usare contro di noi come argomento shock, l’argomento inarrestabile. È il serbatoio inesauribile del ricatto politico per i secoli a venire. Ed è allo stesso tempo la grande opportunità storica di affermare qualcos’altro.
Concretamente, la rivoluzione ha un solo obiettivo: abbandonare le strutture esistenti per costruire qualcos’altro. Un’altra cosa è, per lo meno, uno stato di cose che bandisca il modo di vita economico e che inventi, stimoli e faccia proliferare altre maniere di vivere.
Ora, bisogna comprendere bene cosa vuol dire essere la classe media. È la sofferenza giustificata dell’essere felici nella vita. È la sofferenza del successo sociale ordinario. È il non poterne più che ci venga detto quanto siamo fortunati. E, la fine del mondo, aggiunge a tutto questo, nella bocca dei dominanti, un giudizio propriamente divino, un Giudizio Universale: l’esistenza ordinaria, normale è in realtà colpevole.
Il modello eretto durante decenni come standard di felicità, quello che ha legittimato il fatto, ripetuto milioni di volte, di lavorare come un coglione per tutta la vita per avere una casa in periferia e la macchina per arrivarci, questo modello è ora non solo superato, ma condannato.
Questa è la grande tragedia della classe media oggigiorno. Prima, si poteva annegare la noia di una tale esistenza in un senso d’appartenenza molto forte, quello di «fare come tutti gli altri». Oggi – quando non abbiamo fatto la scelta di fottercene di tutto e di tutti, non solo siamo annoiati, non solo stiamo cagati, non solo viviamo sotto pressione, ma in aggiunta dobbiamo confessare che in ogni caso abbiamo torto a vivere così. Naturalmente, tutte le condizioni sono soddisfatte per una psicosi in piena regola.
E il modo migliore per impazzire è quello di farlo insieme, è quello di invertire questa sensazione di disagio, questa impressione di un mondo alla rovescia, in una energia collettiva che debordi sistematicamente l’esistente.
Alle prossime notizie, il movimento è in corso.
Posted on 5 dicembre 2018
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