Hacer comunidad.

Posted on 4 luglio 2016

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“Nonostante il disfattismo che tendeva a liquidarle come “prive di sbocchi”, quelle lotte avevano sedimentato immaginario e ispirato nuove prassi. I sovversivi lo hanno sempre saputo: il conflitto primario è sui tempi. La concretezza dell’utopia si misura nella capacità di sottrarsi alla tempistica del potere, di rallentare la catena di montaggio, di sospendere la routine e coltivare quella sospensione, farla vivere nel maggior numero di momenti della propria vita. E’ qualcosa di molto simile a ciò che Alain Badiou chiama “fedeltà all’Evento”: esperienze come quelle di Venaus e della Clarea, di Puerta del Sol a Madrid o Zuccotti Park a New York avevano prodotto tante  fedeltà all’Evento  da parte di migliaia di persone che avevano abitato la rottura. In parole povere, avevano lasciato nelle teste e nei cuori qualcosa di  irrinunciabile. Pensandoci, si provava un’acuta nostalgia; non nostalgia del passato, bensì  del futuro che potrebbe essere. Era un impulso utopico, la visione di un “paradiso perduto” riconquistabile ed estendibile. La fedeltà all’Evento influenzava tutto: il linguaggio, la postura dei corpi, l’indisponibilità a fare certe cose se non insieme ad altri, la fine stessa della paura.” [1]

Forse la difficoltà risiede proprio qua, non tanto nel descrivere ciò che c’era quanto in quella consapevole percezione di ciò che sarebbe potuto essere. Da un lato vi è la proiezione che si assume ogniqualvolta un qualcosa venga reinserito nella condizione del “possibile”, dall’altro un tempo scandito sempre più in maniera autonoma, un battito più vicino alle esigenze proprie, più riconoscibile, meno dettato dai ritmi imposti e dalle necessità di produzione e riproduzione di un mondo vitale governato dal profitto.

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C’è un testo a cui spesso si ritorna quando si sente quella parola specifica che negli ultimi mesi è stata pronunciata sempre con maggior continuità: comunità; è un pezzo vecchio di Matteo Dean, giornalista scomparso in Messico l’11 giugno del 2011.

Quando il freddo arriva nella terra delle anatre, all’improvviso, senza che nessuno dica niente, senza che vi sia un’assemblea che lo decida, una qualunque di loro si alza in volo. Il becco dritto verso sud e le ali che sbattono con la forza della voglia di stare meglio. Questa prima anatra si alza in volo e, senza che si debba voltare per dirlo, le altre si alzano in volo e la seguono. Non chiederanno mai nulla perché conoscono la ragione del volo. Quando la prima anatra si stanca, si fa da parte e quella dietro di lei la sostituisce in prima linea. E così fino ad arrivare alla meta. Alla fine del viaggio tutti avranno guidato il gruppo e nessuno potrà dire che c’è un capo, un dirigente. Tutti avranno partecipato, tutti avranno diretto di comune accordo.

Dire comunità oggi può significare tante cose. Se da una parte ci raccontano che “comunità” è la società in cui viviamo, che rispettare le leggi e i precetti è fare il bene della comunità, se ci dicono che il funzionario pubblico lavora per la comunità, dall’altra parte possiamo cominciare a pensare (perché ne abbiamo gli strumenti) a un altro concetto di comunità. Questa non è più una cosa che ci viene spiegata e definita dall’alto, che ci dicono cos’è, quanto piuttosto qualcosa che dal basso – proprio da qui, dove ci troviamo – possiamo immaginare e costruire.

La parola comunità e il concetto in essa nascosto hanno un’origine tanto semplice quanto invece è complessa la sua interpretazione. La parola “comune” dà origine a quel concetto. Comune è tutto ciò che ci unisce, tutto quanto ci fa condividere tempo e sogni. Comuni sono i desideri. Comune è l’idea che qualcosa va male, comune è la voglia di rompere con tutto ciò per trasformarlo.

Abbiamo detto rompere? Abbiamo detto trasformare? E come si fa?

L’anatra che si alza in volo non ha la risposta. Nessuno ce l’ha. C’è molto istinto in tutto questo. Quell’istinto che le fa volare verso sud. Quell’istinto che le fa volare verso un luogo caldo dove possano stare bene.

Abbiamo detto ROMPERE. La rottura di quest’ordine di cose che ci dicono chiamarsi società, si fa tutti i giorni. Si fa cominciando dalla voglia di sognare fino alla pratica quotidiana. La rottura risiede precisamente nel sogno di costruire qualcosa di meglio, perché il mondo in cui viviamo vuole che smettiamo di sognare, vuole che ci adeguiamo a quel poco che ci è concesso, che restiamo quieti sottomessi al ritmo della musica che ci vendono, che ci narcotizziamo con le droghe che ci vendono, che ci abituiamo alla vita che ci è permessa. La rottura sta quindi nel sogno di qualcosa di diverso. La rottura oggi è renderci incompatibili con quel sistema, la rottura è scappare dalle sue regole troppo strette per i nostri desideri. Incompatibili, quello siamo.

Abbiamo detto TRASFORMARE. La trasformazione, invece, non si sogna ma si pratica. La pratica della trasformazione è la pratica del comune che ci unisce.

Da quaggiù lo stormo di anatre disegna un bel quadro nel cielo. Se ci fai veramente attenzione, ti rendi conto che disegna una rete. Una rete nella quale ogni anatra rappresenta un nodo di un filo invisibile che le unisce tutte.

Siamo una rete, una rete di individui, di persone, di esseri umani. Siamo una rete di sogni prima di tutto. Siamo una rete di pratiche, forme e punti di vista. Infine siamo una rete di conoscenze. Quello che ci fa rete è la volontà di stare in comune, di condividere le nostre conoscenze per il bene comune. Questo è l’atteggiamento che dobbiamo avere. La volontà di condividere, di cooperare tra di noi e di trovare il modo di condividere con altre persone.

Se durante il volo un’anatra si stanca, se una di loro s’indebolisce, subito altre due la fiancheggiano e l’aiutano a volare, a sostenersi, perché qui non si tratta di arrivare per primi, ma che tutti arrivino alla propria destinazione. La destinazione ci fa comuni. La destinazione è la meta che tutti vogliamo: stare meglio.
La cooperazione tra noi non è altro che la cooperazione sociale, la ricchezza di cui disponiamo per realizzare i nostri sogni. Qui non si tratta di chi possiede le idee, o di chi possiede i mezzi per metterle in pratica, o di chi ha la conoscenza per portarle a termine. La questione è, piuttosto, che quella conoscenza, quei mezzi e quelle idee vengano fuori dalla cooperazione. Tutti abbiamo idee, tutti siamo capaci. Guardiamo alle istituzioni educative come il non plus ultra della conoscenza, quando invece il valore più alto della conoscenza si ottiene dalla sperimentazione, dall’incontro e dalle soluzioni che tra tutti possiamo scoprire.

Questa conoscenza prodotta dalla cooperazione sociale è la vera ricchezza. Vogliamo sentirlo dire con altre parole? Dunque, nessuno sa come alzare un recinto, nessuno sa come si fa una rivista, nessuno sa come si porta a termine un ciclo di film all’aperto, nessuno sa come s’organizza una cena, nessuno sa come si raccoglie il denaro per tutte queste iniziative, nessuno sa come si fa un’inchiesta, nessuno sa come si cambia il mondo. Ma forse tra tutti, provandoci una volta e poi un’altra, troveremo un modo. E quella conoscenza nessuno te la regala. Te la sudi però domani ce l’avrai, pronta per essere usata ovunque. E tutto questo non farà altro che rendere più grande il nostro comune e farà delle nostre idee una ricchezza inestimabile.

Nelle rete che siamo l’unica forma di sopravvivenza è la solidarietà. La solidarietà che tende la mano a chi adesso non ce la fa, che comprende lo sforzo di tutti e lo rispetta. La solidarietà sincera che critica per aiutare, che aiuta per superare, che coopera per crescere, che cresce per cambiare, che cambia per migliorare, che migliora per potere, finalmente, essere felici. Ma questa solidarietà dev’essere sincera e degna. Sincera quando dice le cose, quando esprime dubbi e certezze, quando dà opinioni e quando ascolta. E degna tutte le volte che afferma e difende la sua affermazione. Senza timori perché nessuno è stupido. Senza timori perché nessuna idea è vuota, al contrario, tutto può arricchire, assolutamente tutto. E’ necessario crederci, nient’altro.

Nella Bibbia, meraviglioso libro di storia e filosofia, spettacolare romanzo, incredibile metafora della vita dell’essere umano, si racconta di quando Mosè un giorno decide di ribellarsi agli egizi. La tirannia del faraone chiede troppo al popolo. Ed è così che si decide di disobbedire alle regole del tiranno. Il popolo ebreo decide di sottrarsi al dominio. Esiste il momento della guerra, il conflitto, ma c’è anche il momento della disobbedienza, della detrazione. Il popolo ebreo, racconta la Bibbia, decide di andarsene in un’altra terra, la terra promessa. Inizia così l’esodo. Ognuno raccoglie le proprie cose, si prende le cose che vuole portarsi via, che sono per costruire un nuovo paese in un’altra terra.

L’esodo a un’altra nuova terra. Il nostro è un esodo a un altro mondo. Quello che stiamo facendo è andarcene, sottrarci a questo mondo verso un altro più accogliente in cui possiamo costruire e realizzare i nostri desideri.
Cominciamo a camminare, quindi, iniziamo a camminare verso un altro mondo. Portiamoci i nostri sogni, raccogliamo le nostre idee che sono quelle di tutti noi. E’ una grande responsabilità, quella di cominciare a camminare insieme. Significa tendere la mano a chi è stanco. Significa difenderci dall’esercito egizio che ci perseguita perché significa avere fiducia l’uno nell’altro e far sì che l’altro si fidi di te.

 

[1] Wu Ming 1, Le “libere Repubbliche” No Tav della Val di Susa, Nuova Rivista Letteraria n.3 maggio 2016,  Alegre