
In un vecchio articolo del novembre 2013 (In fondo a destra), Alessandra Daniele nella rubrica Schegge taglienti, descriveva il sistema politico italiano come un mostro a dieci destre. Un passo indietro:
– La destra fascista di Storace e Casapound
– La destra fascistoide di Alemanno e Meloni
– La destra razzista della Lega
– La destra berlusconiana di Forza Italia
– La destra post-berlusconiana di Alfano e Cicchitto
– La destra vetero democristiana di Casini
– La destra padronale di Monti
– La destra neo democristiana di Letta
– La destra paninara di Renzi
– La destra populista di Grillo e Casaleggio
“Sei di queste sono attualmente al governo tutte insieme. […] A peggiorare la situazione rispetto ai precedenti, c’è il fatto che ormai pure l’opposizione sia monopolizzata dalle destre. Anche da quella parte le etichette sono diverse quanto i contenuti sono identici: via gli immigrati, viva gli imprenditori, si stava meglio quando si stava peggio, signora mia dove andremo a finire. […] Il peggio è che persino la cultura e l’immaginario di sinistra sono stati colonizzati da archetipi e ideali della destra storica: ordine, legalità, meritocrazia, disciplina, rispetto incondizionato per le istituzioni nazionali e internazionali, e per le alte autorità, politiche e religiose. Il ”pantheon della sinistra” è stato riempito di papi e magistrati, e il pareggio di bilancio è stato inserito nella Costituzione, mentre qualsiasi manifestazione di dissenso, compreso il semplice fischiare ad un comizio, viene sistematicamente bollata come terrorismo, se non addirittura fascismo. Il bue che dà del cornuto all’asino. Sia causa che effetto del rovinoso tracollo dell’Italia, l’egemonia culturale della destra ha raggiunto proporzioni totalitarie.”
Forse l’immagine di Casapound (attivisti secondo Repubblica sigh!) che manifesta sotto il Senato contro uno Ius Soli temperato è la perfetta cristallizzazione di una deriva difficilmente arrestabile. Quattro anni sono passati dal 2013 e da allora il mostro a dieci destre della politica italiana ha sedimentato, si è trasformato perdendo qualche pezzo qua e là, ma nel bilancio complessivo è comunque sensibilmente aumentato di livello e virulenza. Difficile non registrarlo rimanendo in qualche modo fedeli ad una qualche coerenza analitica di sorta.
Un ulteriore passo indietro. Bologna, Piazza Maggiore. È il 27 gennaio 2011. La piazza è piena, dal palco gli interventi spingono tutti verso un’unica direzione, parlano precari, scrittori (c’era ancora Stefano Tassinari), si fanno analisi dure, si parla di Capitalismo reale e di necessità di mobilitazioni serie. La possibilità c’è, la si intravede, molto più nitida di quanto potrà mai essere in seguito, serve solo un briciolo di volontà; è un periodo particolare quello, il fermento non manca ma occorre saldarlo per fargli fare un salto di qualità. Al governo c’era ancora Berlusconi e, molto più importante, la famosa letterina della Bce che di fatto ci avrebbe commissariato non partirà che ad agosto. Il pareggio di bilancio inserito in Costituzione, il Fiscal Compact, la “riforma” Fornero, la “buona” scuola, la cancellazione dell’articolo 18 e il Jobs Act fino ad arrivare al fascismo esplicito del pacchetto Minniti-Orlando saranno tutte cose che arriveranno dopo, senza significative mobilitazioni. Ma torniamo a Bologna. Quella piazza era frutto di uno sciopero generale regionale, indetto dalla Fiom, sotto lo slogan “il lavoro è un bene comune”, il tentativo piuttosto esplicito era quello di “forzare” una segreteria della Cgil quantomai restia a indire uno sciopero generale nazionale per il giorno seguente andando così ad accrescere un movimento che in quel momento serpeggiava nel Paese. Il segretario della Cgil, Susanna Camusso, avrebbe parlato per ultima. Piazza Maggiore, dopo un corteo che aveva attraversato la città, attendeva solo che due semplici parole uscissero dalla bocca del segretario: sciopero generale. Attesa inutile. La Camusso arrivò sul palco e dopo due minuti di intervento la piazza svanì, quelle due uniche parole non erano state pronunciate; il tempo del sindacato non coincideva più con il tempo dei lavoratori. Non fumammo con lei, non era venuta in pace. Quel giorno a Bologna ai fratelli tute blu si seppellì la speranza non le asce. Le differenze di resistenze tra Italia e Francia all’introduzione di nuove normative (Loi Travail e Jobs Act) per un sostanziale indebolimento e incatenamento del mondo del lavoro sono da ricercarsi anche in quella giornata.
Ma perché rivangare un vecchio articolo del 2013 e una giornata del lontano 2011? Forse perché descrivono meglio l’attualità di quanto possano fare nuove sensazioni. Il sistema politico italiano sembra precipitato in un eterno ritorno. Tipo il vecchio film con Bill Murray sul Giorno della Marmotta (Ricomincio da capo). «Il loop temporale nel quale siamo ancora prigionieri sta collassando in una spirale discendente. Ad ogni reiterazione infatti l’orbita temporale decade, restringendosi, e avvicinandoci all’implosione finale» Oggi il timeloop è collassato. Siamo ormai bloccati, freezati in un solo fotogramma che si ripete all’infinito.
I mercati sono soddisfatti. (Da qua)
Apri il giornale e vi ritrovi ancora il faccione di Romano Prodi….
Questo week end è andato in scena qualcosa di analogo. Dapprima uno sciopero nazionale della logistica e dei trasporti (il venerdì) indetto dai sindacati di base (la Cgil non è più definibile sindacato da quel giorno del 2011, la Fiom di Landini smetterà di esserlo qualche anno dopo) mentre il giorno seguente (sabato) la Cgil scenderà in piazza assieme a un variegato mondo della sinistra elettorale contro lo “schiaffo alla democrazia” della reintroduzione dei voucher da parte di un governo che prima ne blocca il referendum con una legge ad hoc per poi reintrodurli poco dopo con un emendamento nella manovra correttiva di bilancio. Il carattere predatorio e antidemocratico del governo non è certo una novità così come non lo sono stati in questi anni gli schiaffi dati in faccia ai lavoratori per i quali la Cgil non ha mosso un dito.
“Il (prevedibile) comportamento del governo però rende ancora più grave l’atteggiamento tenuto dalla CGIL negli ultimi due anni: invece di organizzare delle lotte reali, ha investito ogni energia nella campagna per i referendum. Di fronte a un governo che, come ha mostrato il referendum costituzionale di dicembre, sta su con lo sputo, il più grande sindacato italiano, invece di organizzare una mobilitazione che lo facesse cadere, ha gentilmente fornito lo sputo per farlo star su. Addirittura gran parte della burocrazia sindacale ha argomentato, dopo l’insediamento di Gentiloni, che non si sarebbe dovuto andare a nuove elezioni per consentire lo svolgimento del referendum sui voucher (perfino dopo che era stato “casualmente” cassato quello sull’articolo 18!) Questa strategia non solo non ha avvicinato di un passo la riconquista dei diritti perduti, ma è servita solo a disarmare la classe lavoratrice, lasciandola nell’apatia (“basta una firma, al massimo un voto”) e nella confusione.” (Da qua) Ricorda qualcosa?
Non solo. La credibilità di un “campo” e di una piazza anti-voucher che vedeva contestarli in piazza anche chi li aveva votati direttamente in Parlamento senza contare chi li aveva utilizzati tranquillamente “in famiglia” (la stessa Cgil è ricorsa a questo strumento per un totale di 750 mila euro) è pari a 0, con tassi di ipocrisia all’apice della scala.
Ma c’è di peggio. Molto peggio.
All’indomani dello sciopero di venerdì, silenziato dai media e demonizzato con la solita retorica del venerdì di protesta (come se in certi settori non si lavorasse già anche la domenica!) l’unica visibilità pubblica che questo ha ricevuto sono state le dichiarazioni stizzite del Ministro Del Rio che ha messo direttamente in discussione il diritto di sciopero (un diritto costituzionalmente garantito) come se niente fosse, un po’ come quando c’era lui. Segno dei tempi. Neri e nefasti.
«Bisogna intervenire per evitare che una minoranza di lavoratori tenga in ostaggio una maggioranza di cittadini nelle loro esigenze quotidiane». «Prendiamo atto dell’ennesimo sciopero che si svolge, guarda caso, di venerdì». «Più in generale, va aperta una riflessione su come dare senso alla rappresentanza. Se una minoranza tiene in ostaggio anche i lavoratori di un’azienda, c’è qualcosa che non va». «Alle Camere ci sono proposte di Sacconi, Damiano, Ichino: una buona base di partenza» Ha affermato Delrio come se il problema dell’Italia fossero gli scioperi (quasi assenti) e non la gestione di un tessuto produttivo sempre più in mano alla mafia e al malaffare. Si ricorderà di certo della foto del Ministro Poletti legata a Mafia Capitale o delle amnesie dello stesso Delrio sulle infiltrazioni della ‘Ndrangheta negli appalti emiliani. “Eh dove andremo a finire signora mia, in fin dei conti quando c’era lui i treni arrivavano tutti in orario e non erano certo ostaggio di piccoli sindacatini.”
Certo, dopo articolo 18, lavoro gratuito obbligatorio per migranti e studenti (i tirocini della buona scuola) e la progressiva produzione amministrativa di ricattabilità, attuata tanto con l’aumento della clandestinità per la forza lavoro migrante, quanto con la spoliazione semi-definitiva dei diritti sociali, l’abolizione del diritto di sciopero era l’ultimo tassello mancante per trasformare definitivamente l’Italia nel Paese del bengodi per padroni, mafie e capitali con una classe di subordinati supina, spaventata e sostanzialmente impotente. Occorre registrare comunque come un determinato tipo di scioperi (quelli reali che incidono direttamente sulla ritmica della produzione e della riproduzione sociale e di capitale) siano ben temuti dalla classe dirigente nonché ostracizzati dalle sigle sindacali confederali e tanto le dichiarazioni quanto i progetti di cancellazione del diritto di sciopero non fanno che confermarlo. Logistica e trasporti, inoltre, sono settori vitali, alla base del sistema produttivo del Paese e si distinguono per essere caratterizzati da dimensioni di sfruttamento e precarietà sempre più insostenibili.
“Un attacco così feroce che perfino Susanna Camusso deve simulare una reazione dal palco di piazza San Giovanni davanti a migliaia di persone scese in piazza con la Cgil: «non ci piace l’attacco al diritto di sciopero». Ma anche il messaggio della segretaria generale di Corso Italia non è privo di ambiguità. Prima dice che lo sciopero di ieri era «sbagliato» e, a suo dire, senza piattaforma, poi ha ha spiegato: «Penso che il tema non sia quello della legge e del diritto di sciopero che va salvaguardato, peraltro ricordo che è un diritto costituzionale in capo ai singoli lavoratori anche se organizzato collettivamente, il tema è che finalmente il Governo si decida a fare la legge sulla rappresentanza e per questa via determinare chi ha rappresentanza e credibilità fra i lavoratori». La Cgil, dunque, chiede una legge sulla rappresentanza che «recepisca gli accordi già definiti tra le organizzazioni sindacali e imprenditoriali». Accordi capestro, firmati con entusiasmo dalla triplice, che impediscono qualsiasi dissenso alle Rsu e ai lavoratori e disarticolano, depotenziandolo, il contratto nazionale. Meno salario, meno diritti, meno sindacato. E, se non cambia il vento, fra poco meno diritto di sciopero.” (Da qua) Un modello sindacale che ricorda da vicino quel modello corporativo in vigore in epoca fascista.
Un capitolo a parte meriterebbe lo sciopero nella nostra città e non solo perché a Modena si sono registrate le tensioni più alte ma anche perché la città emiliana è la stessa che a gennaio ha visto l’arresto di Aldo Milani e che a settembre vedrà svolgersi un processo molto importante per le sorti del sindacalismo di base nel Paese. Il rischio è che passi la linea (tutta politica) del procuratore capo di Modena, Lucia Musti, che equiparerebbe ogni vertenza sindacale ad una pratica di estorsione.
Ecco, nonostante scene come questa, nonché la pratica (ormai da considerarsi prassi in provincia di Modena) di gasare con gas lacrimogeni i lavoratori, in città e sulla stampa locale, la visibilità di questa mobilitazione sarà pressoché nulla. La Gazzetta di Modena (sempre più pessima) riuscirà a ficcare la notizia in un trafiletto come questo a pagina 28, nonostante lo sciopero avesse un carattere nazionale e una discreta rilevanza per un settore, come quello della lavorazione delle carni, di dimensioni europee. Un’ informazione subdola, tutta tesa a nascondere lotte e rivendicazioni che non possono essere né criminalizzate apertamente ma nemmeno ricondotte in un alveo concertativo sostanzialmente innocuo per i padroni e deleterio per i lavoratori.
Ecco, come la celere bloccava i lavoratori in sciopero in mezzo alla strada impedendogli di raggiungere i propri compagni arrivati con i pulman da Piacenza, alla richiesta di passare la risposta è stata questa!
“L’uso indiscriminato di lacrimogeni su un picchetto operaio qui avvenuto merita una considerazione. Nella città amministrata ininterrottamente dal 1945 dal medesimo ceto politico che si forgia degli stemmi del Lavoro, una tale brutalità (nell’assordante silenzio dei media locali) è possibile perché la forza lavoro in lotta è razzializzata e il razzismo istituzionale è una dimensione sempre più pressante. In secondo luogo, la questura locale ha evidentemente voluto rispondere alla liberazione avvenuta il giorno prima dello sciopero di Aldo Milani, provando inoltre a pareggiare i conti con il corteo per la sua liberazione che a febbraio aveva rotto tutti i divieti a manifestare ridicolizzando il dispositivo repressivo. La risposta della piazza scioperante è però stata importante e vittoriosa, anche grazie alla solidarietà operaia da altre città, che rimane uno degli elementi di lotta di maggior rilievo per questo ormai decennale processo conflittuale.” (Da qua)
La polizia circondata dai facchini.
Nonostante scene come questa, in città non è volata una mosca, indice di un clima politico sempre più spaventato e omertoso. Nonostante l’accoppiata lacrimogeni/manganelli sia calata per l’ennesima volta sui lavoratori, “il più grande sindacato italiano” qua a Modena, si è ben guardato dal rilasciare qualsiasi tipo di dichiarazione. Un silenzio pavido e stridente che già a febbraio si era manifestato quando in città era stata lanciata una manifestazione nazionale e il questore aveva negato la piazza ai SiCobas. Uno strano sindacato la Cgil, un sindacato che non prende posizione quando i lavoratori vengono caricati e gasati e che rimane in silenzio pure quando viene vietata una manifestazione a un’altra sigla sindacale in una città, tra l’altro, le cui piazze si concedono tranquillamente ai fascisti. Uno strano sindacato davvero la Cgil, sempre più debole e sempre meno incline a difendere effettivamente i lavoratori. Qualche campagna ad hoc ben visibile sui giornali (sia chiaro non vogliamo di certo sminuire la denuncia e la vicenda grave) e qualche flash mob giusto per “tirare” la manifestazione o la campagna referendaria ma un imbarazzante silenzio a ricoprire tutto il resto.
Una Cgil, quella di Modena, sempre più debole che, recentemente, è stata anche attaccata da un raid di fascisti di Azione Identitaria sullo Ius Soli. Infine, una città con grossi problemi di “percezione” Modena, che sta mutando rapidamente e inesorabilmente, ma sembra che in molti facciano finta di non accorgersene, non abbiano ben compreso, o peggio, che, in fin dei conti, vada tutto molto bene così.
Posted on 18 giugno 2017
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