
“Noi puttane lo ribadiamo. Gli sbirri non sono figli nostri!”
È a questa folgorante frase apparsa presso via della Liberazione, in una Bologna del 2014, che abbiamo subito pensato appena terminato di leggere questo pezzo.
Si tratta di un episodio tratto dal libro Patagonia Rebelde di Osvaldo Bayer. Una storia dimenticata, un’epopea tragica di un lungo sciopero insurrezionale, che nel 1921, vide i peones, gli “ultimi”, tenere sotto scacco padroni e estancieros in quell’immensa landa selvaggia, perennemente battuta dal vento, che prende il nome di Patagonia.
Una storia tormentata quella di Antonio Soto, “El Toscano”, “68” e compagni, che sembra terminare con millecinquecento operai rurali fucilati dall’esercito argentino e sepolti in fosse comuni.
Anche solo il raccontarla, questa storia, non pare affare dei più semplici. Negli anni Settanta le copie della Patagonia rebelde finiscono in mucchi che vengono dati alle fiamme sotto lo sguardo di una soldataglia rispettosa di «dio, patria e famiglia», il libro è perseguitato, gli esemplari del volume hanno conosciuto, nell’Argentina dei sequestri di Stato, lo stesso destino toccato in sorte alle persone: qualcuno è venuto a prenderli e se li è portati via. Scomparsi nel nulla.
Il libro vedrà l’esilio così come il suo autore, prima minacciato di morte dal gruppo terrorista di estrema destra Triple A (Alleanza Anticomunista Argentina) in seguito dal colpo di Stato militare del ’76. Anche gli ingranaggi della memoria devono sfuggire ai terroristi, ai depistaggi e ai cantori interessati dell’oblio. In fin dei conti, mille millecinquecento cadaveri sepolti in fosse comuni, per poter continuare a macinare profitti su profitti, non sono di certo un conto esiguo da saldare alle casse della Storia. 80 pesos anziché 120 per i contadini; 90 anziché 130 per i carrettieri; 100 anziché 140 per i pastori di pecore, 120 anziché 160 per il personale di cucine e 12 pesos anziché 25 per i guardiani di vacche, ecco il risparmio sui salari minimi (che avrebbero dovuto essere applicati per legge) che gli estancieros ottengono con l’intervento dell’esercito e con le fosse comuni. Meglio non farci troppo marketing su certe faccende e la migliore pubblicità, in certi casi, equivale esattamente al silenzio, al religioso oblio. Senza di lui sarebbe stato “più facile dimenticare” dirà, in seguito, Osvaldo Soriano dell’omonimo Bayer.
La nostra memoria, la vostra condanna.
Ci sono corde che possono riecheggiare anche alla fine del Mondo e a distanza di quasi un secolo; che vibrano ancora ai nostri tempi e alle nostre latitudini più di quanto si sia disposti a immaginare. In un Paese nel quale la coscienza è ridotta a un percolato amorale paragonabile solo al suo dissesto idrogeologico, dove il razzismo cresce di pari passo al disimpegno, dove si chiacchiera di un “invasione” inesistente per giustificare un’inerzia italianissima, dove la “lotta al terrorismo” è confusa volontariamente, sul campo, in una costante guerra al “degrado”, tradotta, a sua volta, nella caccia al povero più spietata; ecco come, in siffatto contesto, certe storie riflettano di luce propria e contengano magari anche quegli anticorpi di cui oggi disponiamo a malapena.
“Intanto giornali come «La Union» gridano allo scandalo contro gli immigrati rivoluzionari […] In altre parole, il lavoratore argentino non sarebbe vittima dei capitalisti e dei latifondisti argentini o stranieri, ma di quei lavoratori stranieri che «portano idee estranee al sentimento nazionale». Il sindacalismo, la libertà, l’uguaglianza, il socialismo, l’universalità: tutte idee estranee. […]
Le truppe sono già in marcia. I potenti della Patagonia si sono mossi con intelligenza e tutti gli occhi del paese sono rivolti a sud. È incredibile la rapidità con la quale i giornali fanno proprio il linguaggio che, con gran maestria, i proprietari terrieri usano per definire il sindacato libertario: bandoleros, fuorilegge o assassini sono gli aggettivi più lievi. Ma ciò che è ancora più incredibile è il fatto che proprio i protagonisti della repressione – Varela, Anaya e Viñas Ibarra – riconoscono che lo scenario delineato dai potenti è falso, che le cose che vengono dette sui crimini degli operai sono menzogne. Viñas Ibarra, ad esempio, non solo dichiarerà che i braccianti sono sfruttati dai padroni ma ammette la ragionevolezza delle loro pretese. Eppure prenderà parte alla sanguinosa repressione e in seguito la giustificherà.
“Fucilare è stato un compito estenuante. E sebbene sia riuscito piuttosto bene e non sia costato poi così tanto, diventa però, giorno dopo giorno, un ricordo spiacevole. A chi più, a chi meno, tornano in mente le facce impaurite dei chilotes che muoiono, le facce rabbiose dei gallegos, la smorfia tragicamente ironica degli anarchici russi, tedeschi o polacchi quando sono davanti al plotone d’esecuzione dei soldati argentini.
Adesso però è finita, e i soldati si ammassano già nei porti della costa in attesa delle imbarcazioni che li riporteranno a Buenos Aires. Il tenente colonnello Varela ha un po’ allentato la disciplina. Tipo in gamba questo Varela. Per nulla tonto. In pochi giorni ha tirato il collo alla colonna degli insorti. Non gli è mai tremata la mano, non si è mai intenerito di fronte a quei chilotes sgozzati come montoni. Né ha mai permesso che ai suoi tremassero le gambe. Con quattro urla li sollevava di peso. Bastava questo a trasformare un mollaccione nel migliore dei fucilatori.
Dopo che tutto è finito, Varela ha persino avuto nei confronti dei suoi soldati dei gesti paterni. Ad esempio, una volta arrivati nei porti, permette loro di andare nei postriboli, perché si levino le voglie accumulate dall’astinenza. Da quando sono andati a caccia di chilotes e di anarchici, non hanno più visto una donna, neppure una cilena.
Questo avvenimento storico – il più crudele della storia argentina nei primi settantacinque anni del Novecento – ha tutti i tratti di una canagliata, di quelle che finiscono per fare sempre i maschi quando stanno per troppo tempo tra di loro, quando li si lascia soli troppo a lungo e sentono l’impellente necessità di dimostrare che sono duri, forti, maschi insomma. Hanno fucilato a sangue freddo. In silenzio. Niente urla né pianti di donna. Hanno messo in piedi loro stessi i chilotes, con le loro facce spaventate. Né suppliche né perdono. Una cosa tra uomini. Adesso però è un’altra storia. Nelle città ci sono le donne e tutto cambia. I duri in uniforme si trasformano ragazzetti miti che sorridono quando passa una donna. E allora si radunano i soldati, si ordina il riposo e si spiega loro che, a turno, potranno andare al postribolo. Anzi, un sottufficiale, in termini espliciti perché tutti comprendano, dà istruzioni dettagliate su come si deve fare uso di una prostituta senza prendersi la gonorrea o la sifilide. La cosa è stata organizzata bene, e infatti le gestrici dei bordelli sono state preventivamente informate che alla tal ora sarebbe arrivato il primo contingente di soldati, così da far trovare le ragazze già pronte.
A San Juliàn l’avviso è recapitato a Paulina Rovira, proprietaria della casa di tolleranza «La Catalana». Ma quando la prima squadra di militari si avvicina al postribolo, donna Paulina esce per strada e si mette a parlare con il sottufficiale. Deve esserci qualche problema, pensano i ragazzi sempre più nervosi. E in effetti dopo un po’ arriva il sottufficiale con questa spiegazione: è successo un fatto insolito, le puttane del casino si negano e la tenutaria afferma che non può obbligarle. Il sottufficiale e i coscritti lo prendono come un insulto all’uniforme patria. E poi la verità è che ormai ne hanno proprio voglia. Parlottano tra di loro e infine si fanno coraggio. Tutti assieme, in squadra, cercano di entrare nel lupanare. Ma ecco che da lì escono cinque fanciulle con scope e randelli che li affrontano al grido «Assassini!», «Schifosi!», «Con gli assassini non andiamo a letto!». La parola «assassini» lascia i soldati di ghiaccio, e sebbene facciano l’atto di mettere mano alle armi, in realtà cominciano a retrocedere dinnanzi alla determinazione di quel gruppo di donne infuriate che lanciano bastoni. Il disordine è grande. I soldati perdono la battaglia e si raccolgono sul marciapiedi di fronte.
Dalla porta, le ragazze non lesinano insulti. Oltre a qualificarli come «Assassini!» e «Porci!», li fanno oggetto di epiteti quali «Becchi malnati!» e – secondo il verbale della polizia -«di altri insulti osceni tipici delle donnacce». È troppo. Gli insulti tolgono ai soldati ogni desiderio. Ormai non hanno voglia di niente, se non di ubriacarsi rabbiosamente. La storia però non finisce qui. Interviene il commissario di San Juliàn, che ordina di portare in commissariato quelle donne svergognate. Le cinque prostitute sono condotte da due agenti, tra il sorriso burlone dei maschi e il disprezzo delle donne oneste del popolo. Portano via anche i tre musicisti dal postribolo: Hipòlito Arregui, Leopoldo Napolitano e Juan Acatto, che però hanno sempre prestato gratuitamente i loro servizi nelle feste patrie. Appena arrivati in commissariato vengono dunque rilasciati immediatamente, non senza aver sollecitamente dichiarato la propria disapprovazione per la condotta delle fanciulle. Le meretrici invece finiscono in cella. Il commissario sente tutto il peso della responsabilità. Innanzi tutto è stata insultata l’uniforme patria e poi si è preso partito per gli scioperanti. Per questo decide di chiedere consiglio al tenente David Aguirre, a capo della guarnigione militare. L’ufficiale non vuole scandali e preferisce che la cosa non arrivi alle orecchie dei superiori. A conti fatti, è solo l’opinione di cinque puttane.
Una paziente ricerca ci ha portati a conoscere il nome di queste donne coraggiose, capaci di chiamare assassini gli autori della carneficina di operai più sanguinosa della storia argentina. Ecco i loro nomi, che menzioniamo come un piccolo omaggio in ricordo di quelle cinque donne che hanno stretto le loro gambe come gesto di ribellione. E li citeremo nella forma in cui vengono riportate sulle carte ingiallite dell’archivio di polizia: Consuelo Garcia, 29 anni, argentina, nubile, ragazza del postribolo «La Catalana»; Angela Fortunato, 31 anni, argentina, sposata, modista, ragazza del postribolo; Amalia Rodriguez, 26 anni, argentina, nubile, ragazza del postribolo; Maria Juliache, spagnola, 28 anni, nubile, residente da sette anni nel paese, ragazza del postribolo; Maud Foster, inglese, 31 anni, nubile, residente da dieci anni nel paese, di buona famiglia, ragazza del postribolo.
Non ci sono mai stati fiori sulle fosse comuni dei fucilati. Solo pietre, cespugli grigi e l’eterno vento patagonico. L’unico fiore che abbiamo trovato è questo gesto delle ragazze del postribolo «La Catalana». È il 17 febbraio 1922.” *
*Osvaldo Bayer, Patagonia Rebelde – una storia di gauchos, bandoleros, anarchici, latifondisti e militari nell’Argentina degli anni venti – Elèuthera, II ediz. 2014 – a cura di Alberto Prunetti.
Posted on 22 agosto 2017
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