
«Sergente cosa le piace così tanto del deserto?»
«Che è pulito.»
L’avevano richiesto espressamente due settimane fa ed è arrivato, puntuale come un orologio svizzero. Uno sgombero annunciato quello del Cinema Cavour, con la Fondazione Auxilium che “termina la pazienza” e con Comune e questura felicemente genuflesse, pronte ad accontentarla. Cul e pataia come si dice da queste parti.
Non prendiamoci in giro, in città sono in molti ad essere contenti e a tirare un sospiro di sollievo per questo sgombero. Lo sono in Giunta, lo sono in Curia, lo sono i pennivendoli della Gazzetta che non sanno scrivere di altro se non di spaccio e “degrado”, lo sono i perbenisti sempre con la parola pronta e la frase fatta in canna ma non sono gli unici; lo sono anche gli amici, le anime in pena, quelli che si rendono conto che “qualcosa non quadra” ma che obiettivamente che ci puoi fare? Per questi ultimi il Cavour più che più che un’opportunità forse ha rappresentato un problema, lo spazio esatto delle difficoltà del momento, le nostre, e quelle di chi questo mondo cerca ancora di trasformarlo radicalmente. Un salto mai compiuto e una voce strozzata in gola. Cancellata “l’anomalia” risulta più facile pure l’esistenza, la vita di tutti i giorni.
Fiuu. Ora si potrà attendere finalmente che il posto del Cavour venga occupato dalla santissima mensa per i poveri®, un’operazione immobiliare a caccia di like, con la parolina magica “poveri” come pattern da attaccare giusto all’amo. E chissà, magari essendo un’operazione targata Fondazione Auxilium potrà avere un esito migliore dell’adiacente Manifattura Tabacchi, grande successo della “riqualificazione” della zona Tempio-Stazione a marchio amministrazione Muzzarelli. Se non si tratta di un puro caso di omonimia poi, Lorenzo Selmi, presidente della Fondazione, dovrebbe saperne qualcosa di operazioni immobiliari dato che sarebbe stato recentemente prima indagato e poi prosciolto proprio per una manovra di questo genere.
Ma è uno sgombero che la dice lunga anche sulla natura della città in cui viviamo, quello dell’altra mattina. Bastava osservare un poco per capire. Al carnevale della “legalità” non mancava proprio nessuno, un Gran Galà di divise al quale sembrava partecipare tutta la questura quasi come fosse una festa della polizia atto secondo. Pure il Questore era presente e, a parte il pattuglione di poliziotti annoiati, il resto appariva come uno strano mix tra la sfilata di moda e la gita aziendale, tutti in tiro, distintivi al collo, barbe fresche appena fatte (tranne che per gli hipster), abiti firmati conditi da un pessimo gusto e dalle solite facce da s… . Ad un tratto esce un’auto dai garage del palazzone adiacente al cinema Cavour. Così, dal nulla, manovra e dito medio alzato rivolto verso i tutori dell’ordine pubblico che ci rimangono malissimo. Può capitare in una città trasformata (momentaneamente?) in una caserma a cielo aperto. Se poi si ha la fortuna di scambiarci anche solo due parole, coi pullotti politici, te lo dichiarano chiaro e tondo che: «Noi siamo solo mercenari e lei questo lo sa perfettamente.» Di politici e di assessori non vi è traccia, dopotutto governano gli sbirri e va a tutti molto bene così. Pure il sindaco, d’altra parte, in questa città, non sembra capace d’interpretare bene altri ruoli se non quello dello sceriffo tutto polizia e laissez-faire.
In fin dei conti a Modena non si parla d’altro, si fanno i controlli anti-spaccio con gli elicotteri in volo sul Novi Park ma si continuano a chiedere a gran voce e da tutte le latitudini solo ed esclusivamente più uomini e più mezzi. I reati sono in calo ma aumentano gli arresti (lo dicono i dati diffusi recentemente dalla stessa polizia) eppure sembra continui ad essercene continuamente un sempre maggior bisogno. Più polizia è il salmo grigio gelido di questi tempi, l’unico che sentirete pronunciare apertamente da quei figuri che mercanteggiano al tavolo da gioco della politica.
È il lascito della dottrina di nosferatu Minniti, della «sicurezza che non è statistica ma percezione», del coltivare la paura mentre si finge di avversarla e potremmo anche ficcare uno sbirro in ogni casa, in ogni stanza, in ogni letto, senza per questo riuscire a rilassarci in alcun tepore di sicurezza. Tutt’altro. Già oggi la sorveglianza che ci viene imposta è molto maggiore di quella che c’era in Unione Sovietica e non lo affermiamo certo noi ma Richard Stallman sul Guardian. Noi semplicemente non ci stancheremo mai di ripetere che il primo esperimento di neoliberismo compiuto fu tentato nel Cile di Pinochet, e questo dato qualche cosa vorrà pur dire. Dopotutto, il comparto militare sembra essere l’unico non interessato dall’austerità, più si taglia dalle altre parti più i suoi stanziamenti aumentano sensibilmente. È una vecchia storia e un’antica ricetta che il capitalismo utilizza per rigenerarsi, una bella guerra e un’economia che si fa sempre più bellica. Poi non li sentite anche voi questi potenti rumori che si avvicinano, là fuori dalla finestra?
Il Pd a Modena chiude i cinema e apre il lager.
Potrebbe bastare questa semplice frase a immortalare agevolmente la situazione. In una città sempre più arida socialmente e sterilizzata da ogni voce contraria, l’unica cosa che cresce spontaneamente e in maniera profonda e endemica è l’ipocrisia. Ne abbiamo a bizzeffe e potremmo nuotarci tranquillamente come facciamo tra lo smog. Prendete, ad esempio, questo documento di Liberi e Uguali Modena sulla prossima apertura del CPR in città, nel quale, in sostanza, si dice che se proprio si deve fare, allora che si faccia, basta che non manchino (indovinate un po’?) altre divise e forze dell’ordine aggiuntive, leggetelo e poi tirate lo sciacquone!
Ma quanto sete brutti,
voi sete er risultato
de secoli de preti,
de ladri e de mignotte.
Ma quanto sete brutti,
a messa e alle partite
cantate tutti ‘n coro
ma manco ve guardate.
Ma quanto sete brutti
e io ve odio a tutti,
perché voi sete brutti
vijacchi e farabutti.
Una caserma in abiti civili, è questo che è ‘sta città in fin dei conti e poco altro.
Il fascismo storico non vince sui campi di battaglia, ma per aver inaugurato l’epoca del governo dei dispositivi. Cinema e radio sono i dispositivi originari che s’insinuano definitivamente tra noi e il mondo che ci circonda, determinando il nostro modo di pensare, di parlare, di osservare gli eventi e di agire. Durante l’esilio, Brecht sentì l’esigenza di puntare i piedi nel flusso torrenziale attraverso cui i media (stampa, cinegiornali ecc.) presentavano la guerra: bisognava “dare un taglio” al film della catastrofe, per provare a riconnettersi con la materialità delle “cose”, e fu così che escogitò quel particolare dispositivo di smontaggio e rimontaggio della realtà che sono i fotoepigrammi, poi raccolti nel libro L’abicì della guerra. (Da Abicì antifascista)
Piccolo flashback di una settimana. Altro cinema. È un venerdì sera d’Aprile a Modena e alla sala Truffaut proiettano il film Il giovane Karl Marx. È l’unica data prevista in città. In via degli Adelardi la fila arriva fino alla strada. Non si era mai vista una simile ressa attorno alla Truffaut o perlomeno il fatto è decisamente inusuale. La sala è piena e sullo schermo avanzano le prime scene. Fiato sul collo, sbirri a cavallo e bastoni pronti a reprimere brutalmente un gravissimo “crimine”, quello di alcune mani e alcuni corpi che hanno osato raccogliere la legna caduta dagli alberi, in un bosco. È l’Europa della prima metà dell’800, della rivoluzione industriale, dove il raccogliere legna da terra diventa un “furto”.
Quello che sentiamo però, semi-inghiottiti dalle poltroncine, non è affatto il peso delle immagini ma il loro riflesso perfettamente sovrapponibile alla realtà quotidiana anno 2018. Quella non è l’Europa del 1840. È l’oggi. Quella che scorre non è l’alba della specie, del capitalismo, con la mano che afferra la legna sottratta a non si sa bene quale proprietà quanto piuttosto la lavoratrice di Collegno licenziata per aver raccolto dall’immondizia un monopattino gettato via per regalarlo al figlio, è il Comune di Genova che approva un regolamento “di polizia urbana” per sanzionare con 200 euro chi rovista nei cassonetti, sono gli “spazzini” livornesi e pisani che saranno costretti a indossare braccialetti elettronici per tracciarne tempi e spostamenti, e ci piacerebbe pure indagare quest’attenzione morbosa verso i rifiuti, che non siano forse i nostri principali manufatti oggigiorno? Scorrono le immagini e in sovrimpressione ricordiamo le “squadre speciali” anti-accattonaggio predisposte dal Comune di Modena davanti al mercato Albinelli al sabato mattina o i chilometri d’articoli di Gazzetta e Carlino sull’annoso problema del “degrado” cittadino.
Un film che proiettato in quella sala della città, a quel pubblico, tuttavia non era altro che la perfetta fusione della realtà col proprio spettacolo.
È l’orologio fascista che impone un solo tempo, il suo Tempo, senza possibilità di discussione e a esclusione di tutti gli altri tempi possibili. Questa violenza fascista si esprime tanto a livello dei tempi di vita, quanto a livello dei tempi di pensiero, di riflessione, di creatività e di ricerca (e dei possibili intrecci). Il grande orologio fascista produce costantemente spazzatura, ergendosi sulla spazzatura che produce, e nelle sue discariche temporali possono finire contemporaneamente la forma di vita di una tribù amazzonica o di un quartiere popolare, e quei percorsi di ricerca che provano a inquadrare il presente per strapparlo alle sue pretese “evidenze”, a sospendere l’evidenza del tempo unico e omogeneo. (Da Abicì antifascista)
Si è chiuso un capitolo giovedì in questa città, se ne apriranno altri… altrettanto inadeguati, altrettanto in ritardo… scarpe rotte eppur bisogna andar.
Posted on 14 aprile 2018
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