“Sicurezza per gli anni Ottanta.” Tra Modena e il Bronx.

Posted on 24 dicembre 2016

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«“Sicurezza per gli anni Ottanta”: il cartello della socialdemocrazia tedesca mi accompagna in ogni stazione della regione del Reno settentrionale e della Westfalia. La parola “sicurezza” caratterizza le elezioni nella Repubblica Federale Tedesca. Chi offre più sicurezza, vince. Anche se i candidati sono favorevoli all’energia atomica. Si tratta della sicurezza per la propria Mercedes, per le vacanze a Tenerife, perché nessuna utopia venga a mettere in discussione il soddisfatto presente della Germania occidentale. I cartelli di Videla a Buenos Aires e quelli dei socialdemocratici in Westfalia hanno lo stesso denominatore comune: la sicurezza. Da esule, ho il privilegio di leggere la stessa parola in due paesi, in due diverse lingue: Seguridad, Sicherheit. E mi sento profondamente insicuro. Ma non ho il diritto di comparare le due realtà, il crimine con il timore, l’aperta caccia all’uomo con la paura di perdere la libertà. Anche se sulla spalla percepisco il fremito di un presagio. Se i popoli cominciano a votare “sicurezza”, cosa accadrà? In dieci anni, voteranno con entusiasmo per la parola “repressione” e, in due decenni, saranno ancora più galvanizzati dalla parola “tortura”. Tutto in forma democratica. Quando si comincia a insufflare la parola “sicurezza” nel cittadino, l’inquisizione può vincere le elezioni.»
Osvaldo Bayer

 

Mancava giusto questo estratto di Rebeldía y Esperanza. Storia di un esilio tratto da Carmilla per proseguire il discorso iniziato. Tassello mancante che calza alla perfezione.

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C’è la Germania appena colpita da un attentato e c’è uno scrittore argentino costretto all’esilio per aver scritto un paio di libri, poi bruciati nelle pubbliche piazze della sua terra soffocata dalla dittatura militare di Videla.

“Non posso avere un’immagine asettica e impersonale della Germania, perché percepisco la realtà come se fosse rovesciata, come se gli scenari fossero trasformati, cambiando di latitudine e retrocedendo nel tempo.”

Ci sono i libri che ardono nella Berlino del ’33 che si riflettono nella Cordoba del ’76 e c’è quella “Sicurezza per gli anni Ottanta”, quelle parole, che si specchiano alla vista dei nostri giorni. A pensarci bene poi c’è quel neoliberismo che qualche anno prima cominciò ad essere applicato ad un altro Paese dell’America Latina, il Cile di Pinochet. Un’altra dittatura militare nella quale le politiche economiche dettate direttamente dai Chicago Boys avanzavano alle spalle di una feroce repressione.

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Lo si afferma senza mezze misure: oggi le politiche di draconiana austerità, la cui crudeltà stiamo cominciando a sperimentare in questi anni, possono imporsi solo con un combinato mix di paura e falsi bersagli. Occorre che la rabbia, che cova e si intensifica guardando in alto, si sfoghi ciecamente verso il basso. È una sorta di fascismo l’unica exit strategy prevista per il neoliberismo.

15380672_1262457767123941_8014911734403090192_nNon è certo da oggi che la paura si fa funzionale al governare. Essa è il collante più efficace, quello più economico per una società sfilacciata e con enormi disparità. Strano come l’età più osservata, più fotografata, più spiata, più “social” e monitorata della storia sia anche la più insicura. Accanto a noi, i nostri vicini francesi non fanno che prolungare l’État d’urgence che più che a combattere l’Isis sembra destinato a facilitare la deglutizione dei bocconi amari imposti dal neoliberismo, loi travail in primis. Se vi è un alleato privilegiato della governamentalità di questo tempo questo è senza dubbio il terrorismo fascista che colpisce nel mucchio. Camminano a braccetto come due uomini d’affari che si avvicinano a un’occasione. Se poi il terrorista è un islamico, un non-bianco, uno a cui si può cucire addosso una varietà di abiti appropriati ad alimentare la canea verso gli ultimi, dal profugo al clandestino, “Occidente vs. Islam” ancora meglio. Un Breivik o un Casseri non producono di certo gli stessi pezzi, le stesse analisi, gli stessi allarmi, lo stesso rumore di fondo.

 

Fosse solo la propaganda-nazi della stampa di destra, inadeguata persino come carta igienica, a cavalcare la bestia ce ne faremmo una ragione ma purtroppo non è così. È una battaglia aperta 24 ore su 24 quella che si dispiega perché non è facile fornire agli esclusi, ai precarizzati, ai voucherizzati, agli impoveriti e agli emarginati, di volta in volta, una falsa dicotomia sulla quale proiettare tanto la disuguaglianza quanto la propria esclusione.

In una società profondamente anestetizzata nella quale si muore per smog o sul lavoro, incapace anche solo di immaginare un orizzonte differente, si inarca il sopracciglio prevalentemente per l’ambulante, per la micro-criminalità, per il povero che si fa visibile, che osa anche solo invadere lo spazio pubblico. Provate a cercare altro sulla stampa locale, ci riuscirete ma saranno piccole dosi.

Così prima di calare l’osservazione su un piano cittadino si propone qualche sprazzo di un vecchio pezzo estremamente interessante: Il nemico della città.

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“Il discorso attorno alle nostre città e la retorica che esso produce assume sempre più caratteristiche di tipo militare. Ciò avviene dal punto di vista linguistico prima che materiale. Gli spazi pubblici sono soldati che hanno perso dei gradi (il degrado) e che devono riconquistarli con nuove decorazioni al valore (il decoro). […]

zercalcIl dilagare dell’ideologia del decoro – oltre che il suo presentarsi come trasversale, unanime, “né di destra né di sinistra” – è un prodotto della crisi economica. Diremo di più: il decoro è un modello di governance  nella crisi. Le politiche di austerità si impongono sul piano materiale e su quello psicologico. Ai tagli alla spesa pubblica e ai servizi, si sommano gli effetti di un capitalismo finanziario che produce sempre più disuguaglianza sociale. La città da spazio dell’affermazione e della conquista di nuovi diritti diventa palcoscenico delle disparità. Ma vince la narrazione più semplice. Quella che si ferma alla superficie del problema e soltanto in superficie intende operare. Poiché la superficie è evidentemente sporca è necessario disinfettare, fare pulizia. Emotività, pavloviana come quella di una vecchia pubblicità “contro lo sporco impossibile”. Una più complessa analisi eziologica richiederebbe quel tempo che manca agli abitanti circolanti nelle città congestionate.

Si afferma così una innovativa prospettiva che trova nella antinomia degrado-decoro, un originale punto di sintesi tra interpretazioni diverse dei problemi della città. Intorno a questa antinomia sembrano convergere interessi che solo parzialmente – diciamo così -corrispondono alla reale esigenza di una vita urbana più felice e più ricca. Sono gli interessi politici dei partiti che cavalcano la xenofobia e i valori dell’ordine, gli interessi di chi vorrebbe valorizzato il patrimonio immobiliare, l’interesse economico di società di servizio alla ricerca di nuove iniezioni di liquidità, l’interesse dei costruttori a ottenere nuove cubature garantendo di amministrare spazi sottratti al pubblico (ricorda qualcosa ?). Non ultimo, il sistema dei media, spesso legato ad uno o più di questi attori, e comunque interessato all’immediato riscontro che deriva dal cavalcare ondate di panico. I direttori invitano i loro redattori a scrivere un giornale come un post acchiappa-click, a cavalcare l’emotività del momento ignorando il contesto ed evitando di fare e farsi troppe domande.” [1]

A Modena, sfortunatamente, siamo provvisti di fantini di prima classe. Enrico Grazioli, direttore della Gazzetta, è sicuramente tra questi. Cavallerizzo dal costume liberale confeziona paure a sfondo razziale avvolte da quel buonsenso fasullo che sudora di cetomediume del più penetrante. Ci vuole abilità per compiere acrobazie tipo queste che lo scorso anno non fecero altro che da contorno alla fiaccolata della Lega.

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Quando non è il singolo episodio è la costruzione del giornale e il racconto della città che ne fuoriesce ad essere discutibile. Se ci si basasse esclusivamente sulla stampa locale al viaggiatore che desiderasse sbarcare a Modena sembrerebbe di atterrare in una sorta di Bronx con l’allarme sicurezza perennemente inserito. Giornali a sirene spiegate prontissimi a documentare la scritta sul muro, l’adesivo sul palo o il famigerato accattonaggio molesto quanto restii a porsi delle domande.

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È il faro del degrado ad indicare un certo tipo di legalità, quella che liscia il pelo ad un nuovo civismo indignato che schifa la povertà, che tende a cancellarne ogni traccia e che impreca ogni qualvolta che il proprio tram tram viene turbato da un corteo di protesta.

È una legalità del tutto particolare, che corre di bocca in bocca ma che si staglia perennemente in un’unica direzione, verso il basso. Un po’ come altre paroline magiche di questi tempi – meritocrazia, decoro, giustizialismo – significanti buoni per tutte le stagioni, che fanno leva su chiunque e che vengono agitate e richiamate tanto dal ricco quanto dal lavoratore o dal disoccupato ma che si applicano sempre e solo nella stessa direzione, verso il basso.

In una città nella quale chiudono aziende di buone dimensioni, dove nel mondo del lavoro si raggiungo soglie di illegalità non proprio irrilevanti (un esempio recente che parla chiaro) per non parlare di altro – dall’inquinamento alle mafie, dalla bretella alle cave, dagli alvei dei fiumi all’inceneritore, dalle case senza persone alle persone senza casa ecc. – il “discorso pubblico” presentato sui giornali spazia dalle polemiche sulle luci natalizie al disco rotto che ripete continuamente: sicurezza!

Che cazzo di sicurezza poi ci sia quando è sufficiente “la nutria” per “causare” un’alluvione e le tutele sul lavoro tornano ad avere le stesse peculiarità dei primi anni del secolo (scorso il ‘900) non abbiamo nemmeno bisogno di domandarcelo.

Gli unici sindacati “ospitati” ultimamente sulle pagine dell’informazione locale sono i sindacati di polizia che vi presenziano quasi quotidianamente.

Sembra come si sia attivato un triangolo privilegiato che rimbalza dai giornali all’amministrazione e dall’amministrazione al Siulp per poi ricominciare, a giro invertito, a passarsi la palla del vessillo della sicurezza. Non mancano nemmeno gli avvertimenti (vedere a fianco). Un corto circuito che dai vigili urbani passa alla polizia, rimbomba in Comune, squilla sui giornali e risuona sul cittadino medio.

 A osservare la quantità di dichiarazioni, d’articoletti, di precisazioni e di ribattute sembra che in città non esistano altre categorie di lavoratori se non le forze dell’ordine.

È una sinfonia asfissiante quella sulla sicurezza. Mentre si spacca il capello e si bada alla lettera alle ordinanze, ai permessi e alle norme senza più presa sulla realtà il territorio appassisce e galleggia in una palude di sofferenza, malapolitica, incuria (perché sì, quella non manca ma non manca ma per specifici interessi e non per il solito degrado) ed enormi profitti per una ristretta cerchia di soggetti.

Lo spartito mediatico, infine, con la fiocina a tripla punta – legalità, decoro, sicurezza – non criminalizza esclusivamente il margine, il povero, l’escluso ma tende a colpire anche il dissenso e quelle forme di vita alternative all’unico modello ammesso. Penne astiose che molto spesso non fanno altro che ingrassare quel flusso d’odio rivolto a chi resiste e che nel farlo si riserva una vita molto più libera di quella prevista sotto il nostro grigissimo cielo.

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La criminalizzazione del dissenso, inoltre, ha un’altra funzione, quella di scoraggiare la partecipazione politica relegando sotto altre categorie, dunque spoliticizzando, chi cerca di mettere in discussione e di modificare i rapporti di forza e le scelte politiche esistenti.

Al contrario, si finge di non vedere ciò che è palese, spoliticizzando o silenziando il più possibile fatti che non andrebbero minimizzati. Il 14 gennaio in città aprirà “Terra dei Padri” la sede di un “circolo culturale” dietro al quale si nascondono forze e attori provenienti dalla galassia neofascista. Il meccanismo subdolo è presto svelato:

Creare un’associazione, innanzitutto, permette a Forza Nuova e CasaPound di ricevere finanziamenti e, in secondo luogo, di presentarsi al pubblico con simboli e nomi diversi da quelli con cui sono conosciuti. Così facendo, spogli di simbologia ideologica e richiami partitici, quegli stessi militanti riescono a penetrare in diversi ambiti sociali. (Qua)

Dopotutto non serve chiamarli apertamente col loro nome e dichiarazioni ufficiali di esponenti neofascisti non mancano di certo sui quotidiani locali, quella che arriva è la manovalanza.

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[1] Maysa Moroni, Andrea Natella, Giuliano Santoro – Il nemico della città –  Nuova Rivista Letteraria n.2 novembre 2015,  Alegre