Dalla ‘Ley Mordaza’ alla ‘Loi sur la «sécurité globale»’, lo Stato di polizia in marcia sull’eccezione.

Posted on 30 novembre 2020

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Il 24 novembre, fra le proteste e la solita, brutale, violenza poliziesca, l’Assemblée nationale francese approvava il contestatissimo progetto di legge sulla «sécurité globale». Un progetto di legge talmente autoritario da preoccupare addirittura la maggioranza di governo nonché i principali quotidiani (di destra) del paese. Misure pre-dittatoriali, scriverà qualcuno, non discostandosi affatto dalla realtà, a nostro avviso.

Ma di che si tratta in sostanza? Che cos’è questa loi «sécurité globale», per opporsi alla quale, i cittadini francesi sono scesi in piazza in massa (più di 500.000 persone solo questo sabato) sfidando ovunque divieti e violenze?

Si tratta di una proposta di legge fortemente voluta sia dal governo che dai sindacati di polizia che se, da un lato, dà la possibilità di utilizzare droni per le operazioni di polizia e di ordine pubblico, con riconoscimento facciale in tempo reale, dall’altro proibisce di filmare o fotografare del tutto la polizia durante le sue oper-azioni. La norma più controversa è indubbiamente quella contenuta nell’articolo 24, il quale punisce con multe fino a 45.000 € e con un anno di carcere chiunque riprenda o condivida video o immagini di poliziotti in azione che possano «minare la loro integrità fisica o mentale».

Una norma volutamente opaca che, se fosse applicata così com’è scritta ora, potrebbe minare alle fondamenta l’emersione e il contrasto (attraverso i mezzi e il potere dell’informazione) di quella violenza poliziesca che sta caratterizzando sempre più la brutale repressione dello Stato nei confronti dei propri cittadini.

Se fosse applicata così com’è scritta ora, ad esempio, la «loi sur la sécurité globale», sarebbe stato facile insabbiare quanto successo a Michel Zecler, produttore musicale pestato a sangue con insulti razzisti da quattro agenti di polizia a Parigi solo pochi giorni fa, o le violenze perpetrate dalla polizia durante lo sgombero di un accampamento di migranti in place de la République, solo per circoscrivere, alla settmana appena trascorsa, la strutturalità intrinseca della violenza che lega e regge i rapporti di classe e razza all’attività di repressione poliziesca.

Sebbene gli articoli contenuti nella legge ormai approvati all’Assemblea Nazionale non vietino espressamente di filmare i poliziotti, essi attribuiscono comunque a questi ultimi la facoltà di arrestare e di porre in stato di fermo (garde à vue) chiunque osi filmarli, sulla base del semplice sospetto che si possano diffondere quelle immagini non per esercitare il diritto d’informazione bensì per istigare a un delitto contro l’agente stesso. In pratica, fotografare o accendere una telecamera di fronte a una divisa può costare l’arresto e la cella (garde à vue) finché un tribunale non si pronuncerà sull’accaduto. Dunque, oltre alle pesanti pene previste dalla legge e alle multe non proprio leggere, questa totale discrezionalità concessa alle forze dell’ordine nel valutare caso per caso, svolgerà chiaramente una funzione di «dissuasione» profonda verso qualsiasi forma di documentazione sull’operato della polizia stessa.

Ad aggravare ancora di più la situazione, inoltre, ci sarebbero le limitazioni a cui anche i giornalisti sarebbero sottoposti. Prima di poter effettuare riprese durante manifestazioni o le operazioni di polizia, infatti, per i giornalisti diventerà necessario farsi accreditare preventivamente dalla Prefettura, la quale, chiaramente, potrà sempre decidere di non accreditare qualcuno o i professionisti a lei sgraditi, che quindi rischieranno sanzioni come tutti gli altri cittadini.

Un po’ come accadeva durante la guerra in Iraq, in pratica, quasi vent’anni dopo quell’ “esportazione di democrazia” attraverso quell’“operazione di polizia internazionale”, per le strade della Francia di oggi si andrà formalizzando sempre più la figura del giornalista embedded e l’informazione – uno dei principali pilastri, generalmente riconosciuti, sui quali si fonda una democrazia – per documentare manifestazioni o proteste dovrà avere l’avvallo del potere di turno, pena sanzioni pesantissime o la galera. Insomma, una vera e propria manna per una repressione che già oggi, in Francia, ha assunto negli ultimi due/tre anni caratteristiche brutali con tanto di morti e mutilazioni.

In pratica, non potendo istituire direttamente una Polizia Segreta, stile Ovra, Gestapo o la Stasi per intenderci, il governo francese ha pensato bene di nascondere e di far diventare segrete tutte le oper-azioni della polizia ordinaria; rendendo così evidente la facilità con la quale, anche un paese della Ue, può scivolare verso derive autoritarie di stampo Erdoganiano.

In realtà, anche in seno all’Unione Europea, questa legge non è di certo un unicum. Cinque anni fa, in una Spagna attraversata da movimenti come Rodea el Congreso, veniva varata un’altra legge liberticida, un’altra legge di Sicurezza, conosciuta come “legge bavaglio” – in castigliano, “Ley Mordaza” – che prevedeva sanzioni pecuniarie altissime e il divieto di pubblicazione delle immagini che ritraevano forze dell’ordine in servizio nonché grosse limitazioni alla libertà di riunione, che avrebbero già dovuto fare alzare di qualche tacca il livello dall’allarme sullo stato di salute del “regime democratico” nel vecchio continente.

Norme che, al contrario, sono passate perlopiù inosservate al grande pubblico nonostante abbiano prodotto 765.416 procedimenti e 415,5 milioni di euro di sanzioni, dal luglio 2015 al 31 dicembre 2018, ai danni del popolo spagnolo il quale, non a caso, è tornato più volte a chiederne l’abolizione.

La libertà, è risaputo, si toglie un pezzo alla volta e la Francia del 2020 sembra incarnare perfettamente l’orizzonte più avanzato della torsione autoritaria che stiamo vivendo. Dall’ “État d’urgence” prorogato quasi initerrottamente dal 2015, alla repressione muscolare ed eversiva in risposta ai cicli di lotte contro la “loi travail”, prima, al movimento dei Gilets jaunes, poi, per finire con le mobilitazioni contro la riforma delle pensioni, la Francia può essere considerata come il laboratorio più avanzato di un potere che si contorce ormai su se stesso e che è costretto a stringe sempre di più quelle maglie di libertà che fin’ora aveva finto di concedere.

Se in Italia, con l’assenza quasi totale di movimenti di protesta popolare, può bastare la repressione preventiva di un codice Rocco qualsiasi e di un diritto penale ereditato direttamente dal fascismo e mai abrogato, agli scopi repressivi, per paesi come la Francia, attraversati da anni di ingenti mobilitazioni, gli strumenti ordinari sembrano non bastare più, e l’ “eccezione” diviene così la nuova “regola” che si sovrappone all’ “eccezione” precedente, fino alla distopia più cupa di questa fine del 2020.

Al termine del primo lockdown, in Francia, avevano suscitato scalpore le immagini del violento arresto di un’infermiera in camice bianco, trascinata per i capelli da un celerino durante una a manifestazione, un’immagine che strideva non poco con la retorica di facciata voluta da Macron e dal suo entourage di governo sulla «guerra contro il Covid». In quegli stessi giorni (siamo sempre in giugno), inoltre, grazie alla diffusione di immagini riprese dai cellulari di semplici cittadini, o dalle telecamere dei giornalisti, l’opinione pubblica francese veniva a conoscenza dell’uccisione di Cedric Chauviat a seguito di un controllo di polizia, in circostanze molto simili a quelle che portarono alla morte di George Floyd negli Stati Uniti. Si veniva a scoprire poi che indicativamente, solo tra il novembre 2018 e l’aprile 2019, la polizia aveva già mutilato 23 manifestanti, (hanno perso un occhio) a colpi di flashballs, che in 5 avevano perso una mano per il lancio di granate a dispersione e una donna era morta, a Marsiglia, Zineb Redouane, uccisa da un tiro di lacrimogeno che l’aveva raggiunta fin dentro al suo appartamento.

Non solo, con la nuova legge sulla «sécurité globale» pare che il governo abbia concesso ai poliziotti fuori servizio la possibilità di passeggiare armati nei luoghi pubblici. Una misura, questa, che inserita perfettamente nella progressiva militarizzazione delle forze di polizia nonché in continuità con lo Stato d’eccezione permanente orami in vigore in Francia da più di un lustro. Con l’ “État d’urgence” emanato nel 2015, infatti, il governo francese aveva autorizzato i poliziotti a portare le armi da fuoco anche fuori dal lavoro; l’anno successivo, poi, aveva esteso l’utilizzo di queste ultime anche al di fuori dell’ambito e dei paletti della legittima difesa. Così, dal 2016, un poliziotto otteneva “il diritto di sparare” non solo per difendersi, ma anche per “difendere un luogo sotto la sua responsabilità”. Che, tra il 2016 e il 2018, il numero dei proiettili (da arma da fuoco, non flashballs) sparati dalla polizia fosse aumentato del 54% non è affatto un caso e che anche gli “incidenti” legati alla nuova dottrina della “sicurezza” fossero aumentati nemmeno.

E se persino il presidente della Corte Costituzionale francese, organo molto meno indipendente dal governo rispetto al corrispettivo italiano, si è scomodato per ricordare che lo stato di diritto e la libertà di stampa devono essere garantiti, allora la situazione prefigurata da un arnese legislativo come quello sulla «sécurité globale» dovrebbe suscitare non pochi allarmi.

Per il momento pare che le massiccie mobilitazioni di questi giorni abbiano messo all’angolo il governo Macron, ma in un’epoca dove l’ “eccezione” si sovrappone all’ “eccezione” non è mai detta l’ultima parola e tanto in Francia quanto in Italia: «Il n’y aucun véritable choix à part la rue.»