
“Abbiamo avuto il bis, come prevedevo. Siciliani, ripeto, non mi sembra all’altezza della situazione… La mia opinione è che si dovrà venire ai campi di concentramenteo.”
I campi di concentramento.

Il dispaccio di Emilio De Bono, ministro delle colonie del governo fascista e già quadrumviro della marcia su Roma, a Pietro Badoglio, governatore delle colonie libiche e già eroe della Grande Guerra, è del 10 gennaio millenovecentotrenta e si riferisce alla irriducibile, esasperante, straordinaria resistenza nella zona montuosa della Cirenaica da parte dei guerrieri senussiti guidati da Omar al-Mukhtàr. Eppure De Bono, all’alba del terzo decennio del secolo, non ha bisogno di spiegare a Badoglio cosa intenda per campo di concetramento. La locuzione è, evidentemente, ben nota, la pratica corrispondente già in uso, entrambe ricorrono nella storia della colonizzazione italiana in Africa e nei suoi documenti ufficiali già prima di questa data.
La soluzione del campo di concentramento è stata adottata in passato per piccoli contingenti di nemici irriducibili e modesti gruppi di civili deportati per varie ragioni dai loro territori d’origine. Il campo di concentramento è una misura estrema, un provvedimento a cui si addiviene in ultima ratio ma, tutto sommato, è una parola consueta. Il quadrumviro della marcia su Roma non esita a pronunciarla e l’eroe di Vittorio Veneto non rabbrividisce nel riceverla. D’altro canto, da mesi sono molte le cose che non vanno in Cirenaica. E così, dopo la strigliata di De Bono, il 10 gennaio Badoglio invia a Tripoli un altro dispaccio. È per Siciliani, suo luogotenente contestato dal ministro per i ripetuti fallimenti con al-Mukhtàr. Questa volta è lui, il maresciallo d’Italia e marchese del Sabotino Pietro Badoglio che non esita a nominare in un documento scritto un’altra delle parole che faranno inorridire il secolo: iprite. Il devastante gas vescicante impiegato durante la Grande guerra e poi bandito dai conflitti tra i popoli “civili”.
“Approvo pienamente azione. Continui rastrellamenti e vedrà che salterà fuori qualcosa. Si ricordi che per Omar al-Mukhtàr occorrono due cose: primo, ottimo servizio d’informazioni; secondo, una buona sorpresa con aviazione e bombe a iprite. Spero che le dette bombe le saranno inviate al più presto.”
Campi di concentramento. Iprite. Entrambe nominate ufficialmente nel medesimo giorno del gennaio millenovecentotrenta. Comincia qui una sorta di torneo tra le parole e le cose, una corsa a inseguimento in cui le parole sono altisonanti, tronfie, terribili e le cose, invece, squallide, grame e comunque terribili. […]
In un bollettino a Badoglio e a De Bono il conquistatore del Fazzan (Graziani n.d.r.) scrive: “Così come sono le cose, senza una cura radicale dell’intero organismo potrebbero invece andare avanti per decine di anni ancora, perché escludendo che l’azione militare, sia pure martellante, possa distruggere definitivamente i duar che sono sempre pronti a ricostruirsi per un fenomeno di endosmosi, che fa capo agli accampamenti dei sottomessi. Per me dunque la situazione della cirenaica è paragonabile a quella di un organismo intossicato che emette, su un punto del corpo, un purulento bubbone. Il bubbone in questo caso è il dor Omar al-Mukhtàr che è la risultante di tutta la situazione infetta. Per guarire questo corpo malato bisogna distruggere l’origine del male, più che gli effetti di esso.” Se il capo della ribellione è un sintomo, una pustola, il suo popolo è una malattia.
La verbosa diagnosi del generale nei panni dell’infettivologo, sebbene concordi con essa, irrita Badoglio ed esaspera la crescente rivalità con il suo prestiogioso sottoposto. Anche Graziani, dal canto suo, soffre sempre di più la supremazia di Badoglio che, a suo modo di vedere, si è intestato illegittimamente il merito delle vittorie nel Fezzan. Il soldato che è in Graziani, allora, tenta per un’ultima volta di cogliere una vittoria onorevole. Mirando all’accerchiamento e alla distruzione in combattimento del nemico, il 16 giugno il genrale lancia sui monti del Gebel al-Achdar, nell’area del Fayed, una grandiosa operazione di rastrellamento, minuziosamente preparata con il concorso di tutte le forze mobili disponibili in Cirenaica. Informato da ascari e disertori, Omar al-Mukhtàr fraziona i suoi guerrieri in piccoli nuclei che riescono a filtrare, invisibili, attraverso le colonne italiane con perdite leggere. L’offensiva di Graziani fallisce. Ancora una volta al-Mukhtàr, rifugiatosi in Marmarica, accresce la propria leggenda. Badoglio castiga il proprio sottoposto con parole sferzanti fino allo sberleffo. Il maresciallo d’Italia, forse perché morso dall’invidia per il suo sottoposto, forse perché pungolato dalla necessità di eseguire il mandato del Duce e di far dimenticare il proprio subdolo fallimento o, magari, più semplicemente, perché del tutto indifferente alla sorte di persone considerate subumane, si assume volentieri la responsabilità di ordinare la distruzione di un intero popolo.
Il 20 di giugno Pietro Badoglio scrive a Graziani: “Qual’è la linea da seguire? Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso fra le formazioni ribelli e le popolazioni sottomesse. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma oramai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguire sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica.” Emilio De Bono e Benito Mussolini approvano immediatamente la linea sanguinaria tracciata da Badoglio. Tutte le tribù del Gebel, centomila anime, saranno strappate all’altopiano e concentrate alle falde, in una fascia semidesertica tra le pendici e il mare. Il 25 giugno del millenovecentotrenta, soldati italiani sotto il comando del generale Graziani, per preciso ordine del maresciallo Badoglio, e con la piena approvazione di Benito Mussolini, iniziano in Cirenaica in nome del regime fascista una delle più grandi deportazioni della storia del colonialismo europeo.
La fotografia aerea del campo di concentramento di el Abiar rappresenta un enigma con proprietà quasi ipnotiche per l’occhio di chi la contempla. Voluta dal generale Graziani per illustrare il suo nuovo volume di memorie autocelebrative in preparazione – l’auspicio è che possa intitolarsi Cirenaica pacificata – l’immagine restituisce uno sconfinato pianoro completamente brullo, riarso e grigiastro, che si allarga a perdita d’occhio ai margini di un reticolo composto da quattro rettangoli giustapposti, ciascuno disegnato da otto indecifrabili corrugamenti nel terreno di colore più chiaro e perfettamente rettilinei, come tirati con un filo a piombo. In assenza di una didascalia, sarebbe impossibile stabilire la natura di quella vasta griglia di linee rette nel mezzo del nulla. Se non fosse per l’evidente aridità del terreno, si potrebbe pensare a un sistema di serre per la coltivazione intensiva di ortaggi. Ma no. La misteriosa figura geometrica apparsa sulla crosta della terra desertica nella fascia precostiera libica non presenta alla percezione visiva alcun segno di vita. Ricorda piuttosto dei geloglifi, le misteriose linee, tracciate per arcani scopi cerimoniali da popoli arcaici ne deserto Nazca, nel Perù meridionale, rimuovendo dalla superficie del terreno le pietre scure contenenti ossidi di ferro: sì, ecco, ci siamo. La fotografia aerea dei campi di concentramento italiani in Libia sembra un fotorilevamento archeologico, uno di quegli scatti dal cielo grazie ai quali in questi anni gli archeologi stanno imparando a leggere nelle diverse tonalità di colore del terreno, nelle sue alterazioni, nei suoi differenti gradi di umidità le tracce di antiche civiltà scomparese. Promana quasi un senso di quiete da questa immagine indecifrabile, incolore, inodore e soprattutto, indolore. È la quiete dell’estinzione, della cenere spenta, di ciò che resta di antichi fuochi una volta consumata ogni vampa, l’aura dei luoghi imperturbati dai quali da secoli è sparita ogni tubolenza di viventi.
La fotografia aerea illustra così perfettamente la teoria. La teoria fascista dei campi di concentramento, dettagliatamente esposta nelle circolari ministeriali, prevede, infatti, che le popolazioni deportate, essendo ostili ma non avendo mai combattuto gli italiani armi alla mano, non possano essere considerate ufficialmente “nemiche” e debbano, dunque, essere trattate in maniera civile. L’edificazione dei campi dovrebbe, perciò, avvenire in zone pianeggianti, con terreni fertili, forniti di suffucienti risorse idriche, in prossimità di gruppi indigeni pacifici e miti. Una volta individuat i luoghi idonei, i campi, alcuni dei quali con un’estensione di decine di migliaia di metri quadrati, vennero tracciati secondo lo schema a pianta quadrata del castrum romano, percorsi da due strade perpendicolari (il cardo e il decumano), larghe ognuna trenta metri, con al centro un ampio piazzale e ai lati quattro quartieri formati da migliaia di “abitazioni”, disposte in file da quindici o da venti, separate tra loro da ampi camminamenti. Tutto ciò a imitazione di uno dei vertici assoluti raggiunti dalla civiltà latina di cui il regime fascista si vuole erede. Altro omaggio al genio della somma tradizione culturale italiana, le tende previste per l’alloggio dei deportati. Il progetto teorico comprende, infatti, tende di tipo militare, modello “Leonardo Da Vinci”, di grossa e resistente tela beige, a base quadrata, con superficie interna di circa trenta metri quadri e alte due metri e mezzo al punto massimo, capaci ciascuna di ospitare comodamente un nucleo familiare.


“Con la Libia abbiamo affrontato anche un tema cruciale, ossia quello dei centri di accoglienza, dove dovranno essere rispettati i diritti umani.”
Marco Minniti, luglio 2017
Nelle foto: campi di concentramento libici nell'estate del 2017
Gli studi compiuti a Roma nei primi mesi del millenovecentotrenta per i siti di Soluch, el Agheila, Agedabia, Sidi Ahmed el Magrun, Marsa el Brega, hanno prestato, poi, grande attenzione alle esigenze materiali e spirutuali dei deportati, prevedendo un apio pozzo coperto con sistema meccanico di elevatore d’acqua, area recintata per il ricovero del bestiame, moderni impianti di cemento per i servizi igienici con docce piastrellate e gabinetti separati per uomini e donne, presidi medico-chirurgici, “ricoveri per menomati” e perfino luoghi di culto islamici in mattoni, calce e cemento capaci di contenere fino a cinquecento persone. L’igiene fisica e mentale, la salute corporale e spirituale, l’ordine concettuale e materiale. Nulla è stato trascurato dai burocrati romani nell’astrazione di pigre mattinate ministeriali, prima degli abbondanti pasti a prezzo calmierato e della lunga pennichella pomeridiana, consuetudine inveterata che nemmeno il Duce è riuscito a sradicare.

“Lunedì a Tripoli ho visitato un nuovo centro per immigrati controllato anche da personale Onu, una risposta a quelli che dicono che non si possono rimandare gli immigrati in Libia perché è un posto pericoloso.” Matteo Salvini, 27 giugno 2018
Ma la vita, com’è noto, tende per sua indole a smentire la teoria, soprattutto quando si tratti della vita in prossimità della sua apocalisse. E, infatti, se scendiamo di quota, mano a mano che ci avviciniamo al suolo, dapprima riusciamo a distinguere nella duplice linea scura ai bordi del campo il doppio reticolato di filo spinato, poi scorgiamo gli intervalli che spezzano le linee di tende lerce e cenciose, infine, quando il nostro volo a planare ha quasi raggiunto il suo grado zero, riconosciamo nelle macchioline nere, che prima ci erano apparse come insignificanti sgranature della riproduzione fotografica, esseri umani ridotti a una condizione larvale.
Uno di essi, un giovane maschio dall’incernato olivastro, piantato nello spiazzo tra il cardo e il decumano come un arbusto incenerito all’incrocio della gloria urbanistica dell’antica Roma, sta nudo sotto il sole a perpendicolo edll’estate africana, a piedi uniti, la teste penzoloni, la mascella crollata, le braccia tese ai lati del corpo e due grossi sassi appesi a ciascuno dei due polsi per mezzo di funi. Un cristo in croce a cui sia stato negato perfino il sostegno di una croce.
Come d’abitudine, il supplizio è cominciato a mezzogiorno, subito dopo la messa cattolica domenicale e, come d’abitudine, l’intera popolazione del campo in grado di reggersi sulle proprie gambe è stata condotta ad assistervi. Il supplizio è cominciato a mezzogiorno ma, considerata la temperatura di quaranta gradi all’ombra, per qunto possa essere tenace il suppliziato, non potrà durare ancora a lungo. Attorno a questo penoso resto d’uomo, fossilizzato in vita dalla tortura, si scorgono tende di terza mano logore e lacerate dalla furia dei venti del deserto, edifici in muratura inutilizzabili a causa di profonde crepe aperte dal tempo nell’inconsistenza di materiali di scarto, si fiutano nella canicola asfissiante i miasmi provenienti da pozzi inquinati per assenza di copertura, dalle lattrine intasate rigurgitanti escrementi che fermentano al sole, dalle supporazioni di ferite infette dei “menomati” accatastati come masserizie consunte in lazzaretti ignoti a ogni opera di disinfezione.
Osservato ad altezza d’uomo, il campo di concetramento di el Abiar s’incarica di smentire la teoria punto per punto. Passata al setaccio di malversazioni, ruberie, storno di materiali a ogni livello organizzativo, la magrezza scheletrica degli internati contraddice le precise norme dell’amministrazione coloniale riguardo all’alimentazione (a ogni indigeno, “giornalmente, 650 grammi di pane, un pasto di riso o pasta con condimento di pomodoro, olio e cipolla, due tazze di tè o orzo con zucchero, un limone e una cipolla cruda e due litri di acqua potabile”), i sintomi vistosidi dissenteria bacillare, tifo petecchiale, malaria, scorbuto, salmonellosi, vaiolo e setticemie assortite smentiscono la pianificazione della commissione sanitaria, il puzzo di cadaveri in decomposizione mortifica l’ingegneria militare e il suo progetto di allestire cimiteri dove inumare i deceduti in luoghi opportunamente scelti lontano dai campi e dalle falde acquifere. Infine, il programma d’igiene morale e rettitudine lo smentiscono le macchie di perdite uretrali sui calzoni cachi dei guardiani, chiaro segno della gonorrea, contratta insieme alla sifilide, alla candida, ai condilomi, da ascai eritrei e soldati italiani, senza distinzione di grado, rango, nazionalità, religione, convinzioni politiche e colore della pelle. L’unico aspetto scrupolosamente realizzato del progetto teorico dei civilizzatori bianchi – oltre alla riproduzione del castrum romano per l’architettura dei campi – riguarda i dispositivi di punizione. Nel sole abbacinante dell’estate africana, palchi e forche tremolano come un miraggio putrefatto sul vasto piazzale all’incrocio di cardo e decumano. È lì che viene impiccato il suppliziato non appena le sue braccia cedono al peso delle pietre e il suo corpo crolla al suolo sospinto da un improcrastinabile impulso di fusione con la terra, di ritorno alla quiete dell’inorganico. Ultimo desiderio che gli viene negato quando il suo corpo quasi esanime è sollevato di peso perché penzoli dalla forca. Assistono allo scempio, costretti dagli aguzzini italiani, i padri, i fratelli, gli amici e i parenti di ogni grado, compresi donne e bambini. *
Da quel 10 gennaio 1930, del quale parla questo estratto preso dall’ultimo libro di Scurati su Mussolini, sono passati esattamente 91 anni, eppure sembra quasi che il paese in cui viviamo non si sia mosso di un millimetro.
Il 16 luglio dell’anno appena trascorso, alla Camera, veniva approvato, con un voto bipartisan, il rifinanziamento della cosiddetta “Guardia Costiera Libica” prevista nel Decreto Missioni (47 missioni militari all’estero, 8.613 unità di personale militare coinvolte e un costo complessivo che supera abbondantemente il miliardo di euro). Fra queste costosissime missioni all’estero dunque rientrava anche il rifinanziamento per l’addestramento e l’appoggio della famigerata “Guardia Costiera Libica” con l’obiettivo di (parole del testo del provvedimento) “fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e della tratta di esseri umani tramite l’addestramento dei militari libici”. Che la stessa “Guardia Costiera Libica” fosse già ritenuta da più parti responsabili di reiterate violazioni dei diritti umani nei confronti dei migranti e di collaborare con gli stessi trafficanti di esseri umani è solo un dettaglio.

Che uno dei capi della cosiddetta “Guardia Costiera Libica”, Abdalrahman al-Milad detto Bija, fosse uno dei più potenti trafficanti di uomini del paese, indagato per traffico di migranti dalla Corte penale internazionale dell’Aja poi arrestato nell’ottobre del 2020 e avesse partecipato, nel maggio del 2017, ad un meeting organizzato dal Viminale, è un altro.
Ricordiamo solo che di lì a poco sarebbero partiti gli l’assalti alle Ong, additate da media e istituzioni come “colplici dei trafficanti”, mentre nella realtà era invece lo stesso governo italiano ad affidarsi ai trafficanti. Lo riassume in una sola frase il giornalista Nello Scavo nella sua inchiesta su Bija: “Un negoziato – si legge nell’inchiesta – che avrebbe consentito a figure di spicco delle organizzazioni criminali di venire accolte nel nostro Paese con la considerazione solitamente concessa a esponenti di governo.”
E’ l’inizio di quella cooperazione che delegava alla “Guardia Costiera Libica” la cattura dei migranti in mare mentre l’Italia di Minniti, in tandem con l’Europa, annunciava interventi per aprire campi di raccolta per “conCENTRAre” i migranti nel Paese nordafricano. Una vecchia storia dal sapore imperial-coloniale. Una vecchia storia per “celebrale la stagione del colonialismo dal sicuro sapore littorio” direbbero all’ufficio marketing del pastificio la Molisana. Una storia che ci parla esplicitamente di “frontiere esternalizzate”, di campi, pardon, di CENTRI di raccolta, nei quali viene “ricollocato” il materiale umano in eccesso a cui non deve essere consentito in alcun modo di raggiungere il continente. E se persino un candidato al Premio Nobel per la Pace ti dice chiaramente che le tue politiche mirano solamente a delle morti silenziose, lontane dagli occhi sostanzialmente e che gli accordi intrapresi costituiscono una regressione sul piano civile, morale ed etico allora forse due domandine dovresti cominciare a fartele. Perché non esistono canali legali e percorsi sicuri per un fatto umano semplice come il respirare, cioé il migrare, con i quali nessuno affiderebbe mai la propria vita ai trafficanti?
L’avvocato Maurizio Veglio, curatore di una pubblicazione a più mani dal titolo “L’attualità del male. La Libia dei Lager è verità processuale”, in un’intervista pubblicata su Altraeconomia, ci fornisce alcuni elementi in più su questo parallelo di novant’anni:
“Ciò che accade in Libia in realtà è documentato ormai da diversi anni da organizzazioni non governative e da agenzie delle Nazioni Unite. Nonostante questo l’opinione pubblica non sa, non vuole, non sembra interessata a conoscere. Si giudica con molta nettezza e con molta superficialità l’immigrazione dalla Libia perché manca il diritto alla parola di chi l’ha conosciuta. Secondo Medici per i diritti umani, l’85% di chi è sbarcato in Italia dalla Libia tra 2014 e 2017 ha subito torture, eppure ciò non lascia tracce nel dibattito sulle politiche migratorie.”


“Il governo italiano però rivendica la bontà della “strategia” in Libia.
MV Faccio fatica a immaginare un esempio di manipolazione concettuale e lessicale più efficace di quello applicato alla Libia. Uno dei ritornelli che ci accompagna da tempo impone la tutela della sicurezza delle persone prevenendo i viaggi in mare. In realtà, la domanda rimossa è un’altra e cioè “Per quale motivo le persone sono disposte a mettersi sul mare piuttosto che rimanere su quella terra?”. Continuo a stupirmi – e per questo la sentenza è uno strumento fondamentale non solo in chiave storica ma anche lessicale – del fatto che gli interventi della cd. “Guardia costiera libica” sono ancora definiti da molta stampa “salvataggi”. L’ex ministro dell’Interno Marco Minniti, che ha sottoscritto gli accordi con la Libia del febbraio 2017, parla di una politica che è “patrimonio dell’Italia”. I sequestri e le detenzione a fini di estorsione nei campi libici vengono presentati come “ordinarie” esperienze di incarcerazione di persone prive di documenti di soggiorno, secondo una parvenza di prossimità allo Stato di diritto. La realtà è radicalmente diversa e la sentenza lo dice in modo molto netto.”
“Esiste la “Libia dei Lager” o è una forzatura?
MV Non sostengo un’equiparazione frettolosa tra gli odierni centri di sequestro libici e i campi di concentramento, perché presupposti e finalità non sono sovrapponibili. Paradossalmente è molto più “banale”, per richiamare l’opera di Hanna Arendt, la dinamica odierna: in Libia si viene sequestrati perché pur essendo uomini privi di qualunque bene si è ancora potenziali produttori di reddito. Nei centri libici si pratica l’abominevole arte di strizzare i migrante per ottenere denaro.
Credo però ci siano parallelismi molto forti dal punto di vista dell’esperienza soggettiva di chi finisce catapultato in questi luoghi. Un’esperienza di privazione assoluta, di disfacimento della vita, in cui uno dei pochi momenti di riaffermazione della propria individualità è quello della telefonata ai familiari, quando durante le torture dei carcerieri si può parlare con qualcuno che si conosce, invocando un aiuto per la propria sopravvivenza.”
“Nel libro sottolineate più volte il parallelismo della lingua parlata nei campi libici con l’esperienza dei campi di concentramento. Perché?
MV Primo Levi ricordava come le persone appena entrate nei lager cadevano in una condizione di sordomutismo. Chi non era in grado di capire i rudimenti del tedesco era tagliato fuori. Levi stesso affermava che una delle risorse che gli hanno consentito di sopravvivere era proprio la conoscenza di base del tedesco, per aiutare la comprensione di quella versione brutalizzata, umiliata, bestializzata diffusa nel campo. Sappiamo ancora molto poco delle lingue parlate nei centri libici. Oltre all’arabo, che molti sequestrati non conoscono, circolano le lingue dei mediatori e quelle dei kapò, ai quali viene affidata la gestione dei campi, come l’imputato del processo di Milano, un cittadino somalo di vent’anni, investito del compito di gestire uno dei centri situati nei pressi di Bani Walid, che sembra cedere a un autentico delirio di onnipotenza.”
L’intervista poi prosegue riaffermando l’importanza della lingua, delle parole per raccontare e testimoniare. Ora, per terminare la nostra carrellata, torniamo per un attimo in Italia e trasferiamoci a Torino – ma sarebbe potuto benissimo essere Roma, Bari, Palazzo San Gervasio, Macomer, Trapani, Gradisca d’Isonzo, Milano, Caltanissetta o Brindisi, cioé i luoghi che attualmente ospitano un Cpr, dopo la criminale approvazione della prima legge “fascistissima” del nostro tempo, la Mnniti-Orlando, la quale, fra le altre cose, ha di fatto riaperto questi lager – e vediamo quali sono le parole che utilizza un internato nel Cpr di corso Brunelleschi, in diretta telefonica su Radio Blackout, per descrivere la sua condizione.
«Sono nel centro di espulsione di Torino, io non lo chiamo centro di espulsione, io lo chiamo campo di concentramento perche ci trattano come gli animali».
*Antonio Scurati, M. L’uomo della provvidenza, Bompiani 2020.
Posted on 10 gennaio 2021
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