Giorno del Ricordo, Polizia di Stato, Giovanni Palatucci e previsioni del tempo.

Posted on 17 febbraio 2021

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“Who controls the past controls the future. Who controls the present controls the past”.
Eric Arthur Blair

Sarà stato per via di quei giorni particolari dell’anno, scanditi con i rituali celebrativi di una ristrutturata “memoria” nazionale, sarà stato per la loro simultaneità con l’avvicendarsi del governo e con l’avvento di Mario Draghi a palazzo Chigi – “la Banca sopra la Politica, il Nord sopra il Sud, i maschi sopra le donne: una fotografia perfetta dello stato di cose presente e delle sue inamovibili gerarchie” sintetizzerà perfettamente Marco Revelli su il Manifesto – fatto sta che il nostro barometro rivela da una settimana nuove scurissime ombre all’orizzonte. Umore nero e pessimi presagi.

Se è vero che il centro spesso acceca e che per comprendere al meglio un fenomeno, alle volte, è meglio osservarlo prima dai margini, allora, in questa circostanza si tenterà un ulteriore sguardo obliquo, rivolgeremo gran parte delle nostre attenzioni al passato nella speranza che, queste, possano aiutarci anche nella lettura del presente oltre che a fornirci una sorta di bussola per orientarci nel futuro.

Flashback. Tre anni fa, di ritorno dalla manifestazione antifascista di Macerata prendemmo un paio d’appunti che provammo a diluire in un pezzo chiamato“Il candidato”. A rileggerlo ora, a distanza di tre anni, sembra quasi che quel titolo e quelle righe finali fossero invecchiate apposta per l’avvento del governo Draghi. Oggi come allora siamo in quell’unica parte dell’anno dove la storia torna a rivestire una sua importanza relativa o, per meglio dire, il suo utilizzo in chiave simbolico-propagandistica; ci troviamo cioé a breve distanza da quel paio di settimane nelle quali si intrecciano due celebrazioni dall’alto valore simbolico – il Giorno della Memoria (27 gennaio) e il Giorno del Ricordo (10 febbraio), date sulle quali si andranno ad infrastrutturare quasi tutte le residuali percezioni del passato “ufficiale” e della “memoria” nazionale collettiva. Dunque, se la prima commemora le vittime dell’Olocausto la seconda è stata istituita al fine di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. Ora, nonostante la legge istitutiva del giorno del ricordo sia del 2004 e parli espressamente anche della“più complessa vicenda del confine orientale”, nel giro di pochi anni sembra che, di questa “complessità”, nel discorso pubblico ufficiale, non vi sia praticamente rimasta traccia. Nemmeno l’Anpi ormai sembra avere più il coraggio di sostenerla, questa “complessità”.

Eppure è abbastanza evidente come quella giornata, anno dopo anno, sia diventata un esempio clamoroso di utilizzo distorto della storia a fini politici. Un crescendo che quest’anno ha portato lo storico Eric Gobetti a pubblicare un breve saggio “E allora le foibe?”, libro che, non a caso, come spiega lo stesso autore, “nasce da una urgenza. Quella di fermare il meccanismo che si è messo in moto, impedire che il Giorno del Ricordo diventi una data memoriale fascista.” Quanto accaduto in questi ultimi anni intorno al 10 febbraio ce lo dice lo stesso Gobetti in quest’intervista allo pubblicata su Radiocittà Fujiko: “l’istituzione stessa della giornata memoriale per ricordare il fenomeno storico, per come è stata voluta dalla politica, ma soprattutto l’evoluzione che l’appuntamento ha avuto nel nostro Paese rischia infatti di trasformare la data in una celebrazione del vittimismo fascista che arriva a ribaltare la stessa verità storica attorno a quei fatti. A partire dai primi anni Duemila in Italia il calendario istituzionale subisce delle trasformazioni. Nel 2001, durante la presidenza della Repubblica di Carlo Azeglio Ciampi viene ripristinata la Festa della Repubblica del 2 giugno, con tanto di parata militare, bandiere tricolore e inno nazionale, mentre l’istituzione del Giorno del Ricordo delle foibe avviene nel 2004 e si inserisce in un processo nazionalistico della memoria, che si arricchisce del 150° anniversario dell’Unità d’Italia e del centenario della Prima Guerra Mondiale. Quando viene istituito il Giorno del Ricordo la volontà politica bipartisan, in particolare di Alleanza Nazionale e Pds, quindi gli eredi diretti di fascisti e comunisti, era una volontà di stampo nazionalista che ricucisse lo strappo tra gli opposti estremismi avvenuto durante la guerra civile 1943-45, sulla base di una visione nazionalista di una vicenda che in realtà aveva aspetti soprattutto ideologici e non nazionali.” Gli stessi timori espressi chiaramente, appena un anno dopo l’istituzione di quella giornata, dallo scrittore e accademico Predrag Matvejević in questa breve lettera pubblicata sul quotidiano fiumano Novi List e tradotta da Osservatorio balcani. Ora, per inquadrare e circoscrivere ancora meglio la questione, prima di poter parlare di ciò che a nostro avviso è successo di inedito e rilevantente nelle celebrazioni del 10 febbraio di quest’anno, riportiamo un breve stralcio del saggio di Gobetti:

Pensato nell’ottica della riconciliazione nazionale fra opposti schieramenti ideologici, il Giorno del Ricordo è diventato fortemente divisivo, fonte di continue tensioni non solo all’estero ma anche all’interno del nostro stesso paese. La vicinanza temporale e terminologica con il Giono della Memoria è funzionale alla volontà di assimilare i due fenomeni commemorativi, ma la vera contrapposizione è con il 25 aprile. Se i partigiani hanno una giornata di festa nazionale, sembra affermare questa costruzione memoriale, anchei fascisti devono avere la loro. Il tentativo di trasformazione di questa giornata da celebrazione nazionale a celebrazione fascista è simbolicamente evidenziata dal cambiamento dell’immagine dei protagonisti dei protagonisti dei film Il cuore nel pozzo e Rosso Istria tra il 2005 e il 2019: in quattordici anni le vittime italiane sono diventate vittime fasciste. Questa modalità di commemorazione rischia dunque di far passare i fascisti per vittime, ma anche le vittime per fascisti. Nel primo caso, si finisce per ignorare le responsabilità del fascismo quale iniziatore e perpetratore della violenza per almeno due decenni; nel secondo, si fa torto alla maggioranza delle vittime, e degli esuli in particolare, attribuendo loro un fardello di colpa che non hanno e non meritano. *

Ora, osservandole da un osservatorio privilegiato come le strade della nostra città, Modena, le celebrazioni del Giorno del Ricordo di quest’anno, non solo erano lievitate in gonfaloni e rappresentanze istituzionali ma si erano anche moltiplicate. Sono raddoppiate, letteralmente. Alla tradizionale cerimonia in piazzale Natale Bruni, quest’anno, se n’è aggiunta un’altra, parallela, nel piazzale antistante alla Questura, anch’essa con gonfaloni, ma più solenne, marziale, con addirittura un palchetto per le orazioni, due bandiere giganti (italiana e europea) e uniformi in riga. Senza contare come abbiano fatto il sindaco Muzzarelli e il questore a presenziare contemporanemente ad entrambe.

Una cerimonia tale con polizia, militari, monsignori e vigili del fuoco sull’attenti, che vista così, a un primo sguardo lasciava un po’ perplessi e spaesati, anche perché sicuramente, da quelle parti, mai e poi mai si sarebbero viste divise di quel tipo celebrare in quella maniera un giorno di festa nazionale come il 25 aprile, anniversario della Liberazione. Spesso però la realtà (così come la storia) è molto più complessa e articolata di ciò che appare a prima vista e la cerimonia che si stava svolgendo davanti alla Questura “nel” Giorno del Ricordo non era esattamente una funzione “del” Giorno del Ricordo, bensì un suo filone laterale, un suo spin-off.

Davanti alla Questura di Modena, infatti (e come vedremo non solo lì), quella mattina, veniva commemorata la figura di Giovanni Palatucci, funzionario della Questura di Fiume, morto nel campo di concentramento di Dachau il 10 febbraio 1945. Una figura estremamente complessa, ambigua pure per certi versi. Un uomo di Stato, un poliziotto italiano che dopo l’8 settembre aveva aderito direttamente alla Repubblica Sociale Italiana e che a Fiume si trovava dunque a far parte dell’Ozak (Operationszone Adriatisches Küstenland) la Zona d’operazioni del Litorale adriatico che de facto la sottoponeva all’autorità dell’esercito nazista tedesco. Descritto e onorato come una sorta di Schindler italiano che avrebbe salvato dai campi di sterminio migliaia di ebrei (5.000 secondo la maggior parte degli articoli che descrivono le cerimonie di quest’anno, le prime di questo genere) era stato inserito negli elenchi dello Yad Vashem di Gerusalemme e riconosciuto come Giusto tra le Nazioni nel 1990 nonché onorato della Medaglia d’oro al merito civile nel 1995.

Come anticipato, dopo una prima rapida ricerca si viene a scoprire che cerimonie del genere, quest’anno, sono state organizzate per la pima volta dalla Polizia di Stato davati alle questure di tutta Italia e ciò che a prima vista poteva sembrare solo una faccenda di carattere locale (la Questura di Modena è ubicata in via Palatucci) in realtà aveva un’eco di risonanza nazionale. Quasi nessuno se n’era accorto in effetti tuttavia è un fatto abbastanza rilevante se tutte le questure d’Italia si metto a celebrare Giovanni Palatucci nel Giorno del Ricordo. Celebrazioni fortemente volute dal capo della polizia, Franco Gabrielli come suggerisce il Questore di Modena, Maurizio Agricola in quest’intervista : “è stata una forte iniziativa del capo della polizia, il signor direttore generale della pubblica sicurezza, il quale ha voluto che si dedicasse un memometo di ricordo” a Palatucci.

Peccato che la figura di Palatucci, ad oggi, non sia esattamente così limpida e lineare come le cerimonie davanti alle questure di tutt’Italia vorrebbero far sembrare. È vero, nel corso degli anni, a Palatucci sono state dedicate scuole, associazioni, vie, piazze, documentari, fiction, come se dopo Giorgio Perlasca, l’Italia potesse vantare un altro eroe dello stesso calibro; tuttavia già sulla sua pagina di Wikipedia la voce “Controversie” risultava quasi più sostanziosa della “Biografia” e nel 2013 il Primo Levi Center di New York diretto da Natalia Idrimi, dopo oltre sei anni di ricerche condotte da un pool di storici di differenti paesi su oltre 700 documenti ha ridimensionato di molto questo novello Perlasca, tanto da far rimuovere la sua figura dal Museo dell’Olocausto di Washington. A fronte di quella ricerc,a giornali internazionali del calibro del New York Times e dell’Indipendent la misero giù così:

Ma anche in Italia qualcosa era uscito. In un articolo uscito sul Corriere della Sera nel maggio del 2013 di Alessandra Farkas, si ricostruisce molto bene gran parte di quest’intricata vicenda.

L’ipotesi di un salvataggio di massa da parte di Palatucci era già stata categoricamente esclusa dal Ministero degli Interni in un memorandum del luglio 1952 e successivamente dalla commissione dell’Istituto dei Giusti di Yad Vashem nel 1990. In una tavola rotonda organizzata dal Centro Primo Levi alla Casa Italiana Zerilli Merimò di New York, l’ex direttore di Yad Vashem Mordecai Paldiel ha spiegato che sotto la sua supervisione, nel 1990 Palatucci fu riconosciuto «giusto fra le nazioni» per aver aiutato «una sola donna», Elena Aschkenasy, nel 1940, e che la commissione «non ha rinvenuto alcuna prova né testimonianza che avesse prestato assistenza al di là di questo caso». Eppure nel 1955 l’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane gli conferisce una decorazione e nel 1995 lo Stato italiano la Medaglia d’oro al merito civile. Durante la cerimonia ecumenica Giubilare del 7 maggio 2000, papa Giovanni Paolo II lo annovera tra i martiri del XX Secolo. Nel 2004 si conclude la fase diocesana del processo di canonizzazione con la proclamazione a Servo di Dio dell’eroe morto a Dachau nel ’45, all’età di 35 anni. Ma chi ha condotto la ricerca storica sulla quale si sono basati questi riconoscimenti? Come nasce il mito del «Schindler italiano»? Le biografie ufficiali – di cui l’ultima, Giovanni Palatucci: un giusto e martire cristiano di Antonio De Simone e Michele Bianco con la prefazione del Cardinale Camillo Ruini – parlano di migliaia di ebrei da lui inviati nel campo di internamento di Campagna dove sarebbero stati protetti dal Vescovo Giuseppe Maria Palatucci, zio di Giovanni. Il famigerato campo che proprio il vescovo, nel 1953, definì un «luogo di villeggiatura». «Impossibile», replica Anna Pizzuti, curatrice del database degli ebrei stranieri internati in Italia (www.annapizzuti.it), «Quaranta in tutto sono i fiumani internati a Campagna. Un terzo del gruppo finì ad Auschwitz».

SOMMERSI E SALVATI Le biografie ricordano poi gli 800 reduci ebrei che nel 1939 si sarebbero clandestinamente imbarcati sul battello greco Agia Zoni che salpò da Fiume il 17 marzo 1939 diretto in Palestina e sarebbe stato allestito personalmente dall’eroico commissario. Ma dal diario della guida del gruppo conservato a Yad Vashem e dai documenti della capitaneria di porto raccolti presso l’Archivio di Stato, si scopre che fu un’operazione dell’Agenzia Ebraica di Zurigo, avvenuta sotto lo stretto controllo dei superiori di Palatucci che non solo innescarono un penoso processo di estorsione ma fecero respingere al confine i più bisognosi dei rifugiati, gli apolidi e i fuoriusciti da Dachau.

DALLA REALTA’ AL MITO Dagli archivi si scopre che Palatucci fu funzionario di pubblica sicurezza presso la Questura di Fiume dal 1937 al 1944, dove era addetto all’ufficio stranieri e si occupò dei censimenti dei cittadini ebrei sulla cui base la Prefettura applicava le leggi razziali. Proprio a Fiume i censimenti furono condotti con una capillarità ineguagliabile e le leggi applicate con un accanimento che provocò proteste internazionali e la reazione dello stesso Ministero degli Interni. Secondo la monografia di Silva Bon Le Comunità ebraiche della Provincia italiana del Carnaro Fiume e Abbazia (1924-1945) e i dati raccolti nel Libro della Memoria di Liliana Picciotto, durante la breve reggenza di Palatucci la percentuale di ebrei deportati da Fiume fu tra le più alte d’Italia. L’affresco familiare recentemente pubblicato da Silvia Cuttin Ci sarebbe bastato mostra con lucidità e accuratezza l’esperienza tragica degli ebrei fiumani.

FASCISTA ZELANTE E VOLENTEROSO – In Giovanni Palatucci, Una Giusta Memoria Marco Coslovich ricostruisce l’ambiguo profilo professionale di un vice commissario di polizia che appena trentenne giura fedeltà alla Repubblica di Salò. «Palatucci non fu mai questore di Fiume», rivela Coslovich, «ma vice commissario aggiunto sotto il controllo di superiori notoriamente antisemiti». Tutt’altro che in conflitto con essi, le carte mostrano che egli era considerato un funzionario modello. Definito «insostituibile» dal prefetto Testa, godeva appieno dei suoi favori. Tra aprile e inizio settembre 1944 fu reggente alle dirette dipendenze dei gerarchi di Salò Tullio Tamburini ed Eugenio Cerruti. Anche lo storico Michele Sarfatti nel programma tv La storia siamo noi dedicato a Palatucci, nel 2008 ha espresso dubbi sulla plausibilità di numeri sproporzionati rispetto a una comunità di poco più di un migliaio di persone che tra emigrazione e internamento era ridotta a poco più di 500 persone nell’ottobre del 1943.

A tutto ciò andrebbe aggiunto un documento del Ministero degli Interni del 1952 il quale escludeva già allora che Palatucci avesse compiuto salvataggi di massa, che la “sua leggenda inizia nel 1952, quando lo zio, il vescovo Giuseppe Maria Palatucci, raccontò la versione dell’eroe per persuadere l’amministrazione pubblica italiana a concedere una pensione ai parenti di Giovanni l’opera dello zio il vescovo Giuseppe Maria Palatucci, raccontò la versione dell’eroe per persuadere l’amministrazione pubblica italiana a concedere una pensione ai parenti di Giovanni”, che Fiume nel ’43 contava solo 500 ebrei, la maggior parte dei quali, 412, finì ad Auschwitz come ricordato dalla direttrice del centro Primo Levi Natalia Indrimi e infine che anche la sua deportazione e la sua morte nel campo di concentramento di Dachau non è legata in alcun modo al salvataggio di ebrei (come lasciano pensare tutte le dichiarazioni – compresa quella del Questore di Modena Maurizio Agricola – e tutti gli articoli usciti quast’anno sulle celebrazioni) ma al fatto che Palatucci fosse accusato di tradimento dai tedeschi per aver trasmesso documenti della Repubblica Sociale di Salò agli inglesi che chiedevano di trattare l’indipendenza di Fiume (memorandum Rubini) o almeno così era motivato il suo arresto firmato dall’SS-Obersturmbannführer, Herbert Kappler.

Insomma, un tipo di celebrazione che, nel suo piccolo, riproduce da vicino tutte le storture già presenti nel Giorno del Ricordo (guarda caso sono state istituite lo stesso giorno) con una storia stiracchiata in nome di una memoria condivisa dove cifre sono altalenanti e spesso del tutto fuori scala nei discorsi pubblici, dove i carnefici sono equiparati e spesso trasformani in vittime, e dove il ruolo dell’Italia fascista nella Seconda Guerra Mondiale viene volutamente ignorato o taciuto. Anche per Palatucci, ad esempio, il discorso pubblico ufficiale parla quasi esclusivamente di migliaia” di ebrei salvati o di “5.000” in una regione che, come abbiamo visto, ne contava soltanto 500, oppure, per esempio, non menziona mai le “leggi razziali”che anche l’Italia fascista aveva emanato già nel 1938, oppure non accenna al fatto che la provincia di Fiume fu la quarta in Italia per numero di morti nei campi di sterminio nazisti dopo quelle di Gorizia, Firenze e Genova, o ancora che nell’Operationszone Adriatisches Küstenland si trovava la risiera di San Sabba (unico campo di concentramento con forno crematorio d’Italia) dove in pochi mesi vennero sterminate più di 5.000 persone con la complicità e in una zona che faceva formalmente parte di quella Repubblica Sociale Italiana a cui Palatucci aveva aderito dopo l’8 settembre.

Ora, sia chairo, con questo pezzo non si intende minimamente ridefinire in toto la figura di Palatucci, non è affatto nostra intenzione e non ne saremo nemmeno in grado, senza contare che qualche famiglia ebrea, da quella poca documentazione che abbiamo letto, molto probabilmente l’avrà salvata veramente, ciò che non possiamo non domandarci però è come, nel 2021, la Polizia di Stato italiana, per il forte volere del suo capo, Franco Gabrielli, abbia modo di celebrare, nel Giorno del Ricordo, con tale nonchalance, un personaggio che aderì alla Repubblica Sociale Italiana la cui opera meritoria è ancora oggetto di così profonde discussioni. Senza contare che un personaggio come Palatucci, oggi, potrebbe essere tranquillamente additato e bollato come “scafista” o come “trafficante di permessi di soggiorno” da quelle stesse istituzioni che lo celebrano. Oppure potrebbe tranquillamente essere tacciato di «errori di umanitarismo» – di “buonismo” diremmo oggi – tanto per rivangare un’espressione cara a Mussolini. Insomma, anche in questo caso, di quella complessità – “e della più complessa vicenda del confine orientale” – che evoca la legge sul Giorno del Ricordo ce n’è davvero poca, ma quanto sono legate le celebrazioni di Palatucci al Giorno del Ricordo? È solo un caso fortuito che queste cerimonie si svolgano lo stesso giorno oppure c’è qualcosa di più?

Ma le amnesie sulle ambiguità di Palatucci non sono di certo esclusiva della polizia italiana. Alla commemorazione davanti alla Questura di Modena partecipavano alla cerimonia il Viceprefetto, il Questore, il Sindaco, il Rabbino Capo Beniamino Goldstein e il Cappellano della Polizia di Stato Don Gabriele Semprebon e verrebbe quasi da chiederci se quest’anno, per il Giorno della Memoria, si fossero compiute cerminie pubbliche come quella dedicata a Palatucci, con tanto di lettura di un salmo in ebraico. Ricordiamo che in un vecchio pezzo uscito su Internazionale, nella ricostruzione della genesi del Giorno del Ricordo si diceva proprio questo:“alcuni comuni fanno economia celebrando il Giorno della memoria e quello del ricordo in un unico evento posto a metà tra le due date.”; e che il rischio che le due date sfumino in un qualcosa di torbido e di totalmente indistinto lo ricorda anche Gobetti il un capitolo del suo saggio intitolato “La nostra Shoah” che inizia in questo modo:

Durante la celebrazione ufficiale del Giorno del Ricordo, il 10 febbraio 2019 a Basovizza, il ministro dell’Interno e vicepremier Matteo SAlvini dichiara: I bambini morti nelle foibe e i bambini di Auschwitz sono uguali. Non esistono martiri di serie A e vittime di serie B. L’equiparazione con l’Olocausto è un topos che si sta affermando sempre più spesso nell’uso politico di questa vicenda. Secondo tale ricostruzione simbolica, le foibe sarebbero “la nostra Shoah” e chi ne sminuisce la portata viene di conseguenza accusato di “negazionismo”. Anche l’accostamento temporale e terminologico fra le giornate commemorative della Memoria e del Ricordo sembra sottolineare la similitudine tra i due eventi storici.*

Adesso però, per proseguire il nostro percorso, dobbiamo lasciare il campo della storia per entrare prepotentemente in quello della politica e della stringente attualità. E anche su questo terreno le domande non mancano di certo. Ma sono domande che, sinceramente, almeno a livello locale, non dovremmo porci solo noi e che idealmente dovrebbero interessare anche quei bravi cittadini che a parole si professano “democratici” o fedeli cultori della “Costituzione più bella del mondo”. Perché quando la Questura assieme a molte istituzioni della tua città celebra così tranquillamente nel Giorno del Ricordo un personaggio ancora così discusso, che aderì alla Repubblica Sociale Italiana e che il New York Times definì “as a nazi collaborator” allora forse qualche dubbio dovrebbe venirti. Soprattutto in un contesto ambientale nel quale, la Procura di quella stessa città, considera come corpo del reato, il cantare “Bella ciao” davanti a una manifestazione di Forza Nuova o dove si può essere denunciati per violazione di un Regio Decreto del 1931 se solo si osa scendere in piazza il 25 aprile!

Questo succedeva solo cinque giorni prima, il 5 febbraio, sempre a Modena ma in Tribunale dove si teneva un’udienza che era stata sospesa dopo che una delle teste si era ‘trasformata’ in indagata solo per aver ammesso di aver cantato con gli altri ‘Bella Ciao’. Sono domande che ci poniamo veramente e le ripetiamo volentieri anche ai bravi cittadini “democratici” perché i segnali ormai sono abbastanza eloquenti. Insomma in che razza di Stato ci troviamo, in una Repubblica che pur dichiarandosi fondata sulla Resistenza reprime chi canta “Bella ciao” e celebra i “repubblichini”?

Non sono domande gettate lì così, in un’eterna mischia fra “opposti estremismi”, come piacerebbe alla vulgata dominante e a un’informazione fra le più pezzenti del pianeta, perché guardando ciò che accade intorno a noi, risulta evidente che il problema del “fascismo” fra i gangli dello Stato è una faccenda sempre più generale ed europea.

In Polonia, pochi giorni fa, tanto per ritornare sul campo della storia, un neonazista è stato scelto per dirigere la sede dell’Istituto per la memoria nazionale di Breslavia (Auschwitz per chi non lo sapesse è in Polonia), in Grecia il governo, fra scontri e proteste, ha approvato, sempre pochi giorni fa, un disegno di legge che impone per la prima vola la presenza della polizia nelle università, cosa che non accadeva dalla Dittatura dei colonnelli degli anni ’70. In Spagna invece, più o meno contemporaneamente, la polizia faceva irruzione nell’Università di Lleida per arrestare e portare in carcere il cantante Pablo Hasél, primo artista in Europa occidentale ad essere detenuto per una canzone o un tweet. Una vicenda che chiarisce perfettamente non solo la torsione autoritaria in atto in Europa ma anche la progressiva fascistizzazione di molti dei suoi apparati statuari. Una pagina nerissima per l’Europa, un cantante portato in carcere per un reato d’opinione, per aver calunniato cioé la corona spagnola [sigh!] e quello stesso re, Juan Carlos, che nel frattempo era scappato negli Emirati Arabi per sfuggire ai processi per corruzione. Tutto ciò mentre a poca distanza temporale e spaziale da quegli agenti che facevano irruzione nell’Università di Lleida, in una manifestazione neofascista con braccia tese e si potevano tranquillamente pronunciare parole come “il nemico è sempre lo stesso, l’ebreo” tanto per far capire quali siano, in Spagna, le opinioni tutelate e quelle invece sanzionate come crimini d’espressione.

E avremmo potuto continuare ancora a lungo ma abbiamo preferito circoscrivere il nostro spettro d’analisi giusto alle prime due settimane di questo febbraio 2021. Sono più che sufficienti.

Anche Marco Revelli ai primi di febbraio, su volerelaluna,osservava già il buio che incombe commentando la caduta di Conte e l’arrivo dell’uomo forte Draghi in questa maniera:

Per questo resto pessimista. Di un pessimismo – come direbbe Piero Gobetti – “vetero-testamentario”, ovvero “senza palingenesi”, con la sensazione di essere da tempo avviati su un piano inclinato che assottiglia sempre più i margini di sopravvivenza del nostro modello democratico, con la sgradevole sensazione che quelle che ci sembrano, al momento, possibili soluzioni siano in realtà potenziali dis-soluzioni. Ed in cui lo sfuggire a un pericolo comporti, in qualche misura, la possibilità d’incontrarne un altro altrettanto grave se non peggiore. […] Ma ce lo vediamo noi un governo di emergenza come quello che si prospetta, con tutti i partner politici acciaccati e le rispettive leadeship ulteriormente infragilite metter mano a quella riforma elettorale che non sono riusciti a fare in sedici mesi per superare quell’obbrobrio tecnico e politico che è il “Rosatellum” (parto di quel Rosato portatoci in regalo dal solito ineffabile Renzi)? E riusciamo a immaginarci cosa ci porterà il voto nel ’23 (centenario della famigerata Legge Acerbo) se si svolgerà con quella legge elettorale e con un Parlamento ridotto di più del 30%? Chi di noi può, da oggi in poi, sentirsi sicuro?

E se si pensa che il nuovo governo Draghi, già parecchio spostato a destra e su posizioni conservatrici, non avrà praticamente opposizione, esclusi i post-fascisti della Meloni – che per questo potranno mettere le mani, come forza d’opposizione [sigh!], sulla commissione di vigilanza Rai e sui servizi – allora forse qualche brivido potrà cominciare a coglierlo un po’ chiunque.

Per capire chi vi comanda basta scoprire chi non vi è permesso criticare”.
François-Marie Arouet

Ma Draghi o non Draghi, a nostro avviso, per capire a fondo il grado di pendenza del piano inclinato nel quale ci troviamo, oggi come oggi, non dobbiamo tanto badare a ciò che accade a Montecitorio o a Palazzo Madama ma osservare altro. Utilizzare cioé lo sguardo obliquo che si accennava all’inizio di questo pezzo. Per capire a modo lo Stato delle cose oggi in Italia, quant’è profondo il mare in cui si naviga, la direzione, i venti e le tempeste che si ammassano all’orizzonte bisogna guardare altrove. “C’è chi ha sostenuto che quanto avvenuto a marzo nelle carceri sia una sorta di “rimosso”, di delitto fondativo del “nuovo ordine” pandemico in Italia e che, come tale, debba rimanere in qualche modo segreto, celato dietro a muri invalicabili”, scrive su Carmilla, il Comitato Verità e Giustizia per la strage di Sant’Anna. Ecco, a nostro avviso per capire a modo dove ci troviamo occorre partire proprio da lì e osservare quale sia stata, a un anno distanza, la risposta dello Stato alla strage nelle carceri del marzo scorso. Se (tanto per citare nuovamente Votaire) “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri” allora dovremmo cominciare a sbirciare anche a quanto accade su quel fronte lì, perché non ci pare proprio che in molti altri paesi europei ci siano state stragi di quelle dimensioni dentro le carceri e quanto accaduto là dentro non riguarda di certo sontanto la popolazione carceraria, ma ha effetti evidenti e duraturi anche sulla salute della nostra spenta e fiaccademocrazia.

Letta in questo senso, la circolare del 29 gennaio firmata dal Capo della Polizia, Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, “il sincero democratico” Franco Gabrielli, che a un anno dalle proteste e dalla morte di 13 detenuti, stabilisce le procedure per reprimere le sommosse e elicotteri e idranti per contrastare eventuali manifestazioni di protesta, non lascia di certo ben sperare. Senza contare che è alquanto bizzarro che sia sufficiente un atto amministrativo come questo per disciplinare e armonizzare materie tanto complesse.Basta “solo” una circolare per regolare interventi così delicati e complessi? Non sarebbe serviti almeno dei decreti ministeriali, se non una legge ad hoc? Il capo della polizia ha tutta questa autonomia decisionale oppure ha concordato il testo con i referenti politici del Governo uscente o con i vertici dell’Amministrazione penitenziaria? È vero che le direttive sono in contrasto con la normativa sulle mansioni e le responsabilità dei direttori di carcere? E che cosa ne pensa la neoministra della Giustizia Marta Cartabia?” si domandano, in forma anonima, su la Repubblica alcuni addetti ai lavori, mentre dalla Cgil Funzione-Pubblica qualcuno ricorda che: “l’esecuzione penale non è parte del sistema di polizia e non potrà esserlo mai in ossequio alle Regole penitenziarie europee che nella racc. n. 71 ribadiscono che: “Gli istituti penitenziari devono essere posti sotto la responsabilità di autorità pubbliche ed essere separati dall’esercito, dalla polizia e dai servizi di indagine penale”.”

In questi anni, a Modena, abbiamo visto più volte Questura e Prefettura fare supplenza a una politica in liquidazione, tanto a suo agio a gestire gli affari correnti del lassez faire e della cosiddetta “rigenerazione urbana”, quanto incapace ad affrontare anche uno solo dei problemi sociali che gravano sulla città e sulla sua popolazione. Anche durante la pandemia questa dinamica si è ripetuta, con una politica che ha appaltato in buona parte la gestione di un problema di natura sanitaria ad apparati militar-securitari. I vuoti in politica vengono riempiti, sempre.

Ecco, non vorremmo che, come ha scritto giustamente Revelli, quasi trent’anni dopo la famosa frase con cui Agnelli commentò il governo Ciampi – «dopo il governatore, c’è solo un generale, o un cardinale» – ritornasse d’attualità.

*Eric Gobetti, E allora le foibe?, Laterza 2021