Non andrà tutto bene. Un anno dopo

Posted on 14 marzo 2021

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Ordine pubblico equivale in definitiva a pieno ritmo produttivo.*”

In Italia è tornato il fascismo. Lo affermiamo così, come incipit, senza alcun indugio. Potrà apparire un’affermazione forte ma non lo è affatto. In realtà dall’Italia il fascismo non se n’era mai andato, è sempre rimasto lì, magari poco visibile come un’incrostazione che si nota solo in controluce e che però c’è: è in Parlamento, affolla-va il Campidoglio, si annida fra le pagine di un codice penale ancora in vigore che quest’anno compirà novant’anni o in una legge come la Bossi-Fini che, dopo vent’anni, nessuno ha ancora avuto il coraggio di cancellare, lo si può incrociare facilmente alle pareti di questure e commissariati o fra gli atti, le affermazioni e i misteri di un ex ministro del Pd da poco approdato alla Leonardo; insomma il fascismo è tutt’ora una presenza nient’affatto marginale e incistata sempre più in profondità fra i cardini dello Stato e delle istituzioni.

L’avvento del governo Draghi, allo scoccare del secondo anno di pandemia, rappresenta, in questo senso, un’ulteriore accelerazione di un processo che era già in atto da tempo. Fascim is here, su questo blog, è un’espressione che abbiamo utilizzato almeno dall’estate del 2017 ed è quasi passato un lustro da allora. Oggi abbiamo un Paese dove da cinque mesi vige un coprifuoco (nell’Italia repubblicana non era mai stato applicato e bisogna risalire al 1943 per ritrovare una simile misura), dove un banchiere (ex uomo della Bce) è presidente del Consiglio, dove l’ex capo della polizia siede ora ai servizi segreti, dove un prefetto siede sulla poltrona del Viminale e un ex uomo del Sisde alla protezione civile, dove il nuovo capo della polizia ebbe un ruolo centrale “nell’”ampio depistaggio” sulla morte di Ilaria Alpi”, dove un generale degli alpini è stato nominato responsabile per le vaccinazioni e il più grande piano di investimenti pubblici della storia recente verrà redatto con la consulenza di una multinazionale, la McKinsey & Company, che “ha contribuito a far espandere governi autoritari e corrotti in tutto il mondo”, che ha spiegato, sotto la presidenza Trump, alla famigerata “Immigration and Customs Enforcement come aumentare la deportazione dei cosiddetti migranti irregolari e che, sempre negli Usa, “ha contribuito ad alimentare l’epidemia di dipendenze da farmaci a base di oppioidi causando 400mila morti oltre ad un forte aumento della criminalità.”

In politica spesso anche l’immagine gioca un ruolo non proprio marginale e se, all’inizio del 2019, il Partito Democratico fece notare l’inopportunità di un ministro degli Interni (Salvini) con indosso una divisa – «In questa istituzione non è consentito a nessuno di entrare nell’Aula o anche nel Transatlantico in divisa. Farlo è un gesto di una gravità assoluta che ricorda i Paesi dove non vige la democrazia: si presentano in divisa i dittatori non i deputati o i senatori» – oggi, a distanza di due anni, nessuno trova nulla da ridire a un generale che presenza alle riunioni in mimetica e la sua nomina riceve il plauso di chiunque, addirittura dell’unica apparente opposizione al nuovo governo, i post-fascisti di Fdi! Nel mentre, sul palco dell’Ariston, per la tradizionale kermesse nazionalpopolare di Sanremo, si esibisce per la prima volta la Banda Musicale della Polizia di Stato quando l’anno precedente era stato invece il turno della Banda Musicale dell’Arma dei Carabinieri. “Sono solo marcette, no?” Dopotutto, parlare apertamente di uno Stato di Polizia potrebbe risultare un’affermazione troppo forte nonostante un governo che, in tutta evidenza, continua a nominare militari e poliziotti nei gangli pulsanti di un paese ancora considerato civile e democratico.

Il golpe di fatto è la norma. Il nostro vero sistema di governo.
I golpisti italici non assaltano il Palazzo come gli sciamannati di Trump, non ne hanno bisogno.
Loro sono già dentro.
Come un patogeno cronico.
Sono connaturati al sistema.
Il plauso del media mainstream per Mario Draghi è unanime, un coro di osanna.
Si sono raggiunte vette di idolatria delirante.

Alessandra Daniele su Carmilla

Ma procediamo con ordine, perché è un po’ come se all’improvviso, con l’avvento del nuovo governo Draghi, fossero cominciate, ad un tratto, a cadere molte maschere. Chi aveva caratterizzato, attraverso un ruolo politico di primo piano, la stagione dei decreti sicurezza, di un feroce securitarismo condito con un attacco senza precedenti alla solidarietà, all’antifascismo e alle Ong, per finire con gli accordi criminali con la Libia e i suoi lager, è finito alla Leonardo spa, l’ex Leonardo-Finmeccanica, il più grosso produttore italiano di armamenti nonché la decima più grande impresa nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza del mondo. Sposare le cause del securitarismo, della lobby militare e del partito della polizia spesso ripaga (do you remember Gianni De Gennaro?) con un ruolo indubbiamente redditizio, definito da un giornale come la Repubblica “una seconda gamba della politica estera del sistema Italia”, una sorta di Ministero degli esteri ombra dove proseguire la propria “guerra con altri mezzi”. D’altra parte se, come recita la famosa asserzione di von Clausewitz «la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi» allora un ruolo ai vertici della Leonardo “non è che la continuazione della politica con altri mezzi”, senza contare i profondi e poco trasparenti legami fra il braccio armato delle politiche migratorie europee Frontex e l’industria della sorveglianza e degli armamenti o le relazioni incestuose del due Minniti-Gabrielli con la polizia del dittatore al-Sisi. Con gli assassini di Giulio Regeni tanto per tagliare con l’accetta.

Sembra in effetti che anche ad un primo sguardo superficiale questo governo abbia già inserito in molti posti chiave membri di quell’apparato militare-industriale e della sicurezza che non fanno presagire nulla di buono. Un intreccio i cui fili scoperti conducono direttamente alla maggior parte dei fondi del Recovery Fund, tra un Ministero della cosiddetta “transizione ecologica” messo in mano a Roberto Cingolani, ex dirigente di Leonardo-Finmeccanica, quello per “l’innovazione tecnologica e la transizione digitale” affidato a un ex uomo della McKinsey & Company come Vittorio Colao e Giancarlo Giorgetti (il leghista che da giovane apprezzava i testi del terrorista nero Franco Freda) al ministero dello sviluppo economico, “definito «esperto di conti», penserà lui a gestire i 30 miliardi di euro già stanziati dal suo Ministero a fini militari e gli altri 25 richiesti dal Recovery Fund, per portare la spesa militare italiana da 26 a 36 miliardi annui come richiesto da Usa e Nato”, si legge su il Manifesto.

Un anno fa, durante il primo tempo di questa pandem… ops, sindemia, si scriveva:

Se nell’immaginario collettivo si è diffusa così facilmente una razionalità di ordine bellico e il paradigma della “guerra contro il coronavirus” ha fatto breccia nella mente degli italiani è perché già da tempo abitavamo un contesto ed un’organizzazione sociale che aveva fatto della catastrofe la propria propulsione principale e che era in guerra contro il vivente, contro il bíos, già da molto tempo. Solo qualche giorno fa, su Avvenire, si poteva trovare un eloquente articolo dal titolo: “Nel 2019 il mondo ha speso per le armi 1.917 mld di dollari, solo 2 per l’Oms.” Lo choc creato dal coronavirus non ha fatto che seguire coordinate già imposte, capitoli di spesa pubblica già promessi a determinati settori piuttosto che ad altri. Come scriveva Frédéric Neyrat nel suo libro “Biopolitique des catastrophes” (2008), «le catastrofi implicano una interruzione disastrosa che sommerge il presunto corso normale dell’esistenza. Nonostante il suo carattere di evento, si tratta di processi in marcia che mostrano, qui e ora, gli effetti di qualcosa che è già in corso. Come segnala Neyrat, una catastrofe sempre si origina da qualche parte, è stata preparata, ha una storia.»

Insomma, più che interrompere il fluire dei tempi il Covid ne ha mostrato tutti i limiti, strutturali per così dire, esacerbando difficoltà, ingiustizie e storture già tutte presenti all’interno delle nostre società. Basti pensare all’enorme questione della precedenza delle logiche del profitto su quelle della salute, con un modello Big Pharma, come quello attuale, dove gli interessi economici prevalgono sulla salute.

Tutti elementi che erano già in incubazione, più o meno sottotraccia e che oggi divampano in tutta la loro urgente necessità. E ciò vale tanto per i vaccini alla mercé delle multinazionali farmaceutiche quanto a governance biopolitiche sempre più invasive e penetranti.

Abitudini di vita che erano già tutte in gestazione, fra nuovi “modelli di consumo“, una crescente abolizione della differenza tra “tempo di lavoro” e “tempo di vita” e una progressiva “desocializzazione dello spazio pubblico” e che procedevano in parallelo alle nuove tecnologie di una governance capitalista sempre più invasiva, onnicomprensiva e assolutizzante.

Susan Sontang un anno fa ci avvertiva che “trattare una malattia come fosse una guerra ci avrebbe reso ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate.”

È esattamente ciò che sta accadendo quando da un lato il “trattare una malattia come fosse una guerra” è palesato dalle mimetiche alle riunioni del ministro della salute, nella militarizzazione delle strade, nel coprifuoco, nei soldati promossi ad agenti di polizia, mentre dall’altro si constatano piani vaccinali senza vaccini, decreti d’urgenza, lockdown selettivi fissati durante le festività per garantire esclusivamente un pieno ritmo produttivo azzerando al contrario i bisogni dei cicli della vita, della socialità e della sua riproduzione, terapie intensive che si tornano a intasare e la conta dei morti che non accenna a diminuire.

“Ubbidienti e docili”, osservate sotto la lente securitaria le misure d’emergenza, instaurate per la pandemia, potrebbero avere la stessa parabola di quelle adottate per la precedente “guerra al terrore”, o alle più recenti “disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città” (decreti sicurezza), dall’état d’urgence francese alla «loi de sécurité globale» o alla «Ley mordaza» spagnola, urgenze il cui termine si è cristallizzato in un’eventualità da non prendere nemmeno in considerazione. Anche le norme adottate da un anno a questa parte si sono ormai normalizzate nella sfera quotidiana di molti di noi, basti pensare, ad esempio, alla totale assenza di dibattito o di messa in discussione di una misura come il coprifuoco, instaurata ininterrottamente da novembre e difficile da comprendere in chiave esclusivamente antipandemica.

Ed eccoci, un anno dopo, punto e a capo, come in un terribile deja-vu, con sindaci sceriffi intenti a ricalcare tutte le derive del decoro urbano e a presentarle riciclate come misure anti-pandemia. Un interminabile processione di strumenti repressivi che non servono a nulla contro il virus ma che tendono ad individualizzare le colpe del contagio, sanzionando comportamenti il più delle volte innocui ma che salvano la faccia a istituzioni assolutamente non all’altezza, le quali, dal tracciamento dei contagi fino a un reperimento dei vaccini tutto a vantaggio delle multinazionali farmaceutiche, hanno fallito su tutta la linea.

Ma anche in questo caso, la pandemia, non ha fatto altro che mostrare gli effetti lampanti di fenomeni che erano già in corso da tempo. Recentemente, Norma Rangeri su Il Manifesto ha etichettato Stefano Bonaccini come il “leghista democratico” e c’è tornato in mente un pezzo, del 2019, nel quale molte delle macerie civili e democratiche dell’Italia di oggi erano già osservabili in controluce:

È un po’ come se la «divisa», a un certo punto, fosse diventata senza accorgercene il «corpo stesso della nazione». Una simbiosi le cui metastasi hanno invaso ormai ogni terreno dell’ambito «civile».

Dove coprifuoco, mezzi militari, chiusura dei parchi pubblici e promozione di uno stile di vita sempre più atomizzato, consumista e antisociale erano tutti fattori già in avanzato stato d’incubazione:

“di solito a quell’ora la gente se ne sta già a nanna nel suo lettino” […]

I figli di Salvini e di Muzzarelli vanno a nanna presto! […]

Inoltre, nell’unica vera voce dove si registra l’espressione “pericolo per gli altri” non sono previste incredibilmente sanzioni pecuniarie. Forse perché, a far volare i droni presumibilmente sarà il cittadino modenese bianco, medio e benestante mentre a fare il “pic-nic con la famiglia” al parco è più facile che sia il cittadino immigrato, quello che ancora i parchi li frequenta (soprattutto quel parco) e non rimane a casa a consumarsi di TV o di Netflix.Ma non è finita qua. Se ci riflettete a modo e andate un minimo oltre le righe noterete che in quei regolamenti si vieta di fatto la socialità. E non è un caso se in città gli unici interventi di “partecipazione” promossi e incoraggiati da media e amministrazione risultino essere i «controlli di vicinato». Ora, se tornate un momento con lo scroll del mouse alla teca dell’edicola, in quell’immagine li troverete entrambi, i «controlli di vicinato» e quello stile di vita che ci stanno costruendo pian piano intorno, sempre più profondamente antisociale e tarato esclusivamente sul metro dello stuoino di casa e su un consumo autoescludente e individualizzante.”

Ma se tutto questo è il metro della governance soft, in questi primi giorni di marzo si sono cominciate a intravedere anche le prime indicazioni di quella governance hard, comunemente detta repressione, adottate dal nuovo governo. Dopo la criminalizzazione della solidarietà con l’irruzione della polizia nell’abitazione di Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir e nell’associazione Linea d’Ombra ODV a fine febbraio è cominciata una rapida escalation che difficilmente può essere classificata come casuale. Quando la polizia bussa all’alba alle porte di 25 operai per portarli in questura solo perché a Piacenza è stata vinta una vertenza contro un colosso della logistica,

quando la polizia carica, schiaccia a terra e arresta lavoratori e le lavoratrici del comparto tessile che rivendicavano semplicemente quanto dice la legge, cioé 8 ore di lavoro e non 12, un giorno di riposo e malattia e ferie pagate, come alla Textprint, fra l’altro difendendo nei fatti un’azienda alla quale la Prefettura di Prato stava notificando contemporaneamente l’interdittiva antimafia, allora c’è qualcosa di profondamente traballante nell’impalcatura democratica e civile del paese.

Due operai sono stati trasportati in condizioni gravi al pronto soccorso. Uno dei lavoratori ha perso coscienza dopo aver ricevuto un pugno in testa da un agente. Sono molti i feriti più lievi per i colpi ricevuti dalla polizia e dopo essere stati trascinati sull’asfalto per metri.
Che questo intervento arrivi nel giorno in cui è diventata di pubblico dominio la notizia dell’interdizione per Mafia dell’azienda dagli appalti e bandi pubblici (dopo aver incassato 340mila euro nel 2020 per la produzione di mascherine) e a 24 ore di distanza dal tavolo con l’Unita di Crisi della Regione lascia senza parole.
Da quasi 60 giorni denunciamo l’intreccio tra Texprint e clan della ‘ndrangheta, e la figura di Zhang Yu Sang (detto Valerio), arrestato in luglio dalla DDA di Milano insieme a membri del clan Greco con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale aggravata dal metodo mafioso e dalla disponibilità di armi, autoriciclaggio, intestazione fittizia di beni e bancarotta.
‌La politica e le istituzioni devono assolutamente condannare l’operato della Questura senza giri di parole. Contro lo sfruttamento e gli intrecci tra mafie e imprenditoria non
‌bastano le dichiarazioni di circostanza. Serve il coraggio politico di dire da che parte si sta e agire di conseguenza. (Comunicato SiCobas Prato-Firenze)

Quando nella stessa città in cui, un anno fa, una caserma dei carabinieri, la Levante, veniva chiusa con militari arrestati per torture, violenze e sequestri di droga che veniva poi rivenduta dagli stessi agenti, quando in quella stessa Piacenza dove, nel 2019, il presidente del Consiglio comunale di Fratelli d’Italia veniva arrestato e condannato per ‘ndrangheta agli operai che rivendicano i propri diritti la Procura della città applica 5 fogli di via, 6 avvisi di revoca dei permessi di soggiorno, 21 indagati con possibili misure di sorveglianza speciale, sequestro dei pc, 13.200 euro complessivi di multa per violazione delle norme anticovid e l’arresto di due 2 sindacalisti SiCobas rinchiusi ai domiciliari, allora c’è qualcosa che non va.

Quando contemporaneamente a tutto ciò, a Bergamo, una delle città più colpite dalla prima ondata della pandemia, due persone di 64 e 65 anni, tra cui la segretaria provinciale del partito di Rifondazione, vengono perquisite e “indagate per “associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico e minacce aggravate”, e questo perché hanno preso parte alle manifestazioni del Comitato popolare verità e giustizia per le vittime da Covid-19″ allora, forse, cominciare a parlare di regime non è più così azzardato. Quando a tutto questo si sommano maxi-multe da 20.000 a 7 attivisti del Comitato No grandi Navi di Venezia o multe di mille euro a Bologna per un volantino, quando a Torino un’altra Procura con l’elmetto chiede decine di anni di carcere (applicando l’ennesimo articolo del codice Rocco “devastazione e saccheggio”) a minorenni e giovanissimi che scesero in piazza con una sana rabbia lo scorso ottobre minacciando addirittura di levare alle famiglie di questi ragazzi anche quel poco che hanno per campare, con una ferocia tale da offuscare ogni concezione di giustizia e facendo trasparire solo un odio verso i poveri che non ha nulla da invidiare ai racconti di Dickens, all’epoca vittoriana o al fascismo codificato da un tale, Alfredo Rocco, allora vuol dire che quest’ultimo è ancora dannatamente attuale.

È chiaro e inequivocabile che questi segnali possono voler dire soltanto una cosa, che il nuovo governo avrà solamente la repressione da offrire come ricetta per le ingiustizie e i malfunzionamenti della società in una sorta di cristallizzazione autoritaria che ci consente tranquillamente di rimarcare la provocazione lanciata all’inizio di questo pezzo, ricordando che:

Il fascismo non rappresentò un rovesciamento o un’inversione del regime liberale per quanto riguarda la dose di violenza di stato, ma soltanto un mutamento nell’organizzazione di questa violenza. Troppo spesso, ponendosi consapevolmente o meno sulla scia dell’interpretazione crociana del fenomeno fascista come parentesi nella storia d’Italia, come “malattia” di un corpo sano prima e risanato dopo, si tende a presentare il periodo fascista – o se ne fanno le mostre – come lo “stato di polizia”, come una fase storica, iniziata con la marcia su Roma e terminata con la liberazione, al di fuori della tradizione costituzionale italiana, eterogeneo tanto riguardo al regime liberale che alla repubblica democratica. In vero, il fascismo esprime una perfetta continuità tra un regime e l’altro: la violenza poliziesca non caratterizza il ventennio mussoliniano più di quanto non caratterizzasse i governi “liberali” di Depretis, Crispi, Rudinì, Pelloux, o i governi repubblicani “democratici” da De Gasperi a Fanfani … […] sotto il fascismo: l’intero apparato statale formava una cappa di piombo sotto la quale ogni alito di vita democratica risultava impossibile; fascismo come cristallizzazione autoritaria di uno stato già poliziesco, in definitiva, piuttosto che la realizzazione di uno stato poliziesco (attraverso la corruzione dello stato liberale). *  

Le parole della procuratrice capo, Grazia Pradella, durante la conferenza stampa in questura dopo l’operazione repressiva di questi giorni a Piacenza sono estremamente indicative:

Siamo di fronte a condotte particolarmente violente che avevano un trend di pericolosità in crescita quindi è stato opportuno l’intervento delle forze dell’ordine e anche la risposta sul fronte giudiziario a fronte di comportamenti violenti e privi di ogni valenza sindacale. Tanto è vero che i sindacati che hanno sempre mantenuto un dialogo aperto e leale con la Tnt, come la Cisl, hanno con forza stigmatizzato il comportamento di questi soggetti.“

In pratica, la procura, in questa dichiarazione, non solo sta mettendo in discussione un diritto costituzionalmente garantito come quello di sciopero – e già solo questo dovrebbe fare drizzare le antenne a molti – ma sta anche utilizzando un sindacato confederale per dichiarane fuorilegge un altro, considerando un reato che i lavoratori lottino per i propri diritti. Lo diciamo chiaro e tondo perché ormai dovrebbe essere pure evidente, i tre sindacati confederali, Cgil compresa, sono già da tempo organizzazioni alla stregua di quelli che furono i sindacati corporativi che andavano di moda durante il ventennio.

 Nient’altro. E si fatica sinceramente a comprendere come dentro ad un simile contenitore ormai privo di contenuti possano ancora restare aggrappati così tanti compagni generosi. Un breve trafiletto di un vecchio volume sul potere repressivo della polizia sintetizza molto bene a nostro avviso le coordinate politiche del momento attuale:

La polizia di sicurezza, alias politica, la polizia tout court, come attività dello stato è dedicata in primo luogo al controllo del retto funzionamento della macchina sociale come base per il retto funzionamento della macchina produttiva. Tutte le attività dello stato rimangono subordinate a quella primordiale di polizia che al luogo di […] una limitazione al puro campo repressivo, tende al contrario ad estendere le proprie competenze e a ingigantire il proprio apparato invadendo tutta la vita pubblica fino nelle sue particolari dimensioni. La corporativizzazione della classe operaia, l’integrazione dei sindacati, l’assorbimento dell’opposizione parlamentare, lo sviluppo dei mass media, la riduzione dei margini d’indipendenza politica della magistratura, la monopolizzazione delle fonti d’informazione, l’uso provocatorio di uno squadrismo di ritorno… […] Allora veramente il potere di polizia diverrà la summa dell’attività statale in cui la repressione tradizionale lascerà completamente il posto alla prevenzione, e quest’ultima sarà onnicomprensiva e assolutizzante. *

La nostra tesi è che in questo momento, in Italia, si stia dispiegando una repressione preventiva assolutizzante e dai confini non ancora del tutto definiti. Nulla di inedito, sia ben chiaro, in fin dei conti, in questi anni, di arresti di sindacalisti del S.i.Cobas ce ne sono stati, da queste parti venne arrestato addirittura il coordinatore nazionale Aldo Milani con un’operazione che definire torbida è essere gentili, manganelli e lacrimogeni sugli operai in lotta non sono di certo mancati, con una “questura che è ovunque la stessa: delinquente e giolittiana*“ tanto per riprendere un’espressione di Gaetano Salvemini e, infine, una ciclopica repressione giudiziaria antioperaia che solo a Modena conta più di “500 imputati tra operai e sindacalisti per gli scioperi avvenuti nostra provincia“. No, non è una novità ciò che sta accadendo, è semplicemente il percolato oscuro di una Repubblica che di democratico ha sempre avuto solo e soltanto la facciata.

Tuttavia, tutto ciò, divise, repressione, investimenti militari e sorveglianza di massa, non sono altro che la forma assunta dal potere in un sistema mortifero, estrattivo che di giorno in giorno si sta allontanando sempre di più da qualsiasi legame col vivente. Ma non è certo questo che dovrebbe spaventare maggiormente a nostro avviso. Il potere fa sempre schifo, che abbia la faccia rassicurante di Giuseppe Conte o lo sguardo glaciale di Mario Draghi, da qualsiasi parte esso arrivi o provenga perché, come cantava quel tale, «non ci sono poteri buoni»; sono i riflessi, i movimenti o le posture della società ad essere realmente interessanti e da indagare con attenzione perché sono quelle le linee di faglia su cui scorrono in potenza diversi mondi: quello di prima, quello attuale e quello che deve ancora venire, e che forse non arriverà mai.

In tal senso, se all’inizio di questo pezzo abbiamo rievocato un totalitarismo imperfetto di novant’anni fa, guardando alla società bisogna restringere e di molto lo spettro temporale. Proviamo a dirlo fuori dai denti, ci sono due cesure importanti, in termini rivelatori, che hanno fenduto l’ultimo lustro della società italiana a nostro avviso. Il primo è l’attentato di Traini sul quale recentemente è stato pubblicato anche un libro “Un attentato “quasi terroristico”. Macerata 2018, il razzismo e la sfera pubblica al tempo dei social media”. In quei giorni, su questo blog, scrivevamo che con l’arrivo di Minniti al Viminale si stava assistendo a una sorta di golpe anomalo, alla formazione cioè di un vero e proprio Stato di Polizia, mentre le reazioni dell’apparato istituzional-mediatico all’attacco terroristico di Macerata erano il segno inequivocabile del passaggio ad una nuova fase; a un punto di non ritorno.

In quest’intervista di presentazione del libro, uno degli autori, Marcello Maneri, delinea molto bene alcune delle linee di faglia che si stavano rinsaldando nella società italiana nelle quali razzismo, il mancato riconoscimento di fette rilevanti di popolazione e una vera e propria disumanizzazione nei confronti dell’ “avversario” etnico o comunque non accettato come interno alla comunità nazionale, cominciavano prepotentemente ad emergere in superficie per mezzo di un fatto di sangue.

…dell’attentatore, più che la punizione, si è celebrata la parziale redenzione; nessun rappresentante delle istituzioni o della maggioranza di governo, per ben quattro giorni, si è recato a fare visita alle vittime; infine, si è cercato addirittura da più parti di vietare o sabotare la manifestazione che avrebbe dovuto dare corpo alla reazione a questo attentato ai valori fondanti della nazione, che nella propria carta costituzionale ripudia il fascismo e le discriminazioni razziali. […] Come i “fatti sociali totali”, seppure in modo meno universale, i fatti di Macerata coinvolgono una serie di meccanismi e di logiche di funzionamento della comunità nazionale, mettendo in relazione elementi solo apparentemente lontani e dissimili. […] I fatti di Macerata e le reazioni che li hanno seguiti ci parlano anche di gerarchie sociali che si basano non solo sul requisito della cittadinanza formale, ma anche su un’idea di discendenza fondata sul sangue e sulla bianchezza. […]

…a differenza degli attacchi che hanno insanguinato i paesi cosiddetti “occidentali”, che fossero di stampo jihadista o suprematista, nel caso di Macerata non c’è stato quel moto di solidarietà e di immedesimazione con le vittime che ritroviamo nelle reazioni agli attentati terroristici. Questo fa pensare che queste vittime non possono rappresentare la comunità offesa, perché tra loro e noi c’è una differenza importante. La scelta fortemente simbolica di Traini di colpire solo persone di origine africana e di pelle scura evidentemente non era cieca, ci parlava del fatto che, per molti, gli italiani possono essere solo bianchi. Con le persone di colore non ci si può immedesimare, perché non appartengono alla stessa “famiglia”. Così come non ne facevano parte i rom vittime di pogrom a Ponticelli. Che si tratti di un paradigma nazionale della bianchezza o una più generale idea di discendenza basata sul sangue, la questione non è di poco conto, mette in questione la distanza tra la costituzione formale e quella reale, tra i principi dichiarati e quelli vissuti, e in definitiva le stesse idee di nazione, identità e cittadinanza. In secondo luogo perché, come mostra l’analisi di Annalisa Frisina e Andrea Pogliano nel nostro volume, la violenza contro i soggetti razzializzati, caposaldo di ogni regime razzista, non è stata interrogata, se non da alcuni isolati commentatori. Giornali e telegiornali hanno individualizzato e psicologizzato l’attacco, depoliticizzandolo, e per di più adottando la prospettiva interpretativa del suo stesso autore, cioè quella di una reazione, quasi una difesa, per la violazione di una donna bianca, e dunque della nazione tutta. Il sistema di rappresentazione ha lavorato sulla notoria dicotomizzazione Noi/Loro. Da una parte la visibilizzazione, individualizzazione, spettacolarizzazione e umanizzazione del Noi/Traini, e del Noi/Pamela, la vittima da vendicare, simbolo dell’“innocenza bianca”; dall’altra la invisibilizzazione, il silenziamento, la collettivizzazione e in fin dei conti la de-umanizzazione del Loro, vittime sì, ma non meritevoli della parola o di un primo piano sui Tg della sera.

La seconda frattura dalla quale si potrebbero dedurre elementi significativi sul sistema immunitario complessivo della società italiana è, a nostro avviso, la strage del marzo scorso all’interno delle carceri. Un fatto enorme, senza precedenti in Italia e men che meno termini di paragone in Europa.

Un numero di vittime inaudito (13) oscillante per più di un anno in una coltre di silenzio generalizzato e spettrale. Nell’introduzione del dossier uscito da poco sulla strage del carcere di Sant’Anna era sostenuto “che quanto avvenuto a marzo nelle carceri era una sorta di “rimosso”, di delitto fondativo del “nuovo ordine” pandemico in Italia e che, come tale, avrebbe dovuto rimanere in qualche modo segreto, celato dietro a muri invalicabili.” Di quell’eccidio, in effetti, oltre al numero dei morti e alle voci di pestaggi di massa circolate fin da subito, impressionava il totale disinteresse da parte dei media e della società. 13 morti che non hanno prodotto pressoché alcuna reazione, nessun interrogativo né un sussulto di dignità civile, niente di niente, solo estraneità verso persone che molto probabilmente non venivano riconosciute nemmeno come tali, “perché se sono dentro qualcosa avranno pur fatto! Chi sbaglia paga e poche storie!” ancora una volta dunque, dopo tre anni, morti “non meritevoli della parola o di un primo piano sui Tg della sera.”

“Ci sono morti che pesano come piume – scriverà a gennaio Giovanni Iozzoli su Carmilla le grandi verità non tramontano mai. Nove morti vagano nella nebbia umida di pianura, persi, come fantasmi. Sono spettri che non spaventano nessuno. Se li incontri nella notte non li riconosci, perché non hanno volto, non hanno storia, non sono il retaggio di vite vissute. Nove morti nel giorno effimero della mimosa. Nove morti all’alba della prima ondata pandemica, nel cuore dell’ultimo avamposto progressista. La rivolta del carcere di Sant’Anna, a Modena, è una scoria radioattiva che continuerà a lungo a emettere luci velenose; hanno provato a interrarla, questa scoria, descrivendola come un suicidio di massa.” “L’indifferenza per il carcere e l’odio per i suoi ospitinota giustamente ancora Iozzolisono ormai incancreniti sotto la pelle della normalità “democratica”. Anni e anni di ideologie securitarie hanno annichilito non solo la tenuta civile e costituzionale della coscienza popolare, ma l’hanno abbrutita sul piano umano, hanno portato il normale cittadino – della pacifica comunità padana – a costituire una ideale tribù degli onesti, dei giusti, dei regolari, dal cui perimetro fortificato scagliare odio verso quelli dell’altra tribù – i malviventi, gli attentatori della proprietà, gli usurpatori, i frequentatori di negozi etnici e celle italiche.”

E noi oggi siamo esattamente qua, a una coscienza popolare sempre più marziale e sempre meno permeabile al confronto. Ed è questo che spaventa molto di più che le scontate torsioni autoritarie di un governo che, verosimilmente, tenterà di applicare ancora una volta quelle ricette neoliberali sperimentate per la prima volta nel Cile di Pinochet.

Oggi, che su quella strage sta calando la scure dell’archiviazione da parte della Procura, prosegue, in città e non solo, un silenzio mediatico quasi assoluto, come l’anticamera del dimenticatoio. Sembra infatti che per la Procura di Modena le uniche responsabilità della strage del carcere di Sant’Anna siano da attribuirsi ai morti stessi, alle vittime che si sarebbero “suicidate” tutte allo stesso modo, tramite overdose, che fossero tossicodipendenti o meno poco importa. Ma non solo. Martedì 2 marzo, a pochi giorni dall’anniversario della strage del Sant’Anna è morta un’altra persona nel carcere di Modena. Zacaria Baba, di 31 anni che il giorno successivo avrebbe dovuto presentarsi in tribunale per un processo a suo carico per un furto di lieve entità. Le prime ricostruzioni fatte dalla Polizia penitenziaria parlano di suicidio ma avvocato e familiari non la vedono allo stesso modo. In città sembra che un’altra morte dentro a quello stesso carcere non faccia nemmeno più notizia. A una settimana di distanza non ha scritto praticamente nessuno solo l’estense di Ferrara e un breve trafiletto sul Carlino. La Gazzetta di Modena (giornale dei peggiori) “buca” la notizia e non ritiene importante in alcun modo darne conto, come se morire dentro al Sant’Anna fosse già diventata la nuova “normalità” e il carcere stesso si stesse trasformando in un lager dove si muore con molta facilità.

Sulla richiesta d’archiviazione presentata dalla Procura poi (che di dubbi e di lati ciechi ne fornirebbe parecchi) non ne parliamo, le poche cose uscite sulla stampa della città a riguardo (come quest’articolo di Carlo Gregori dal titolo schifoso che fa il paio con Modenatoday) sembrano voler evidenziare, ancora una volta, in maniera tutt’altro che neutra, le convinzioni comuni che i giornali stessi avevano contribuito a generare fin dalle prime ore.

Modenatoday addirittura riporta l’estratto di una relazione preliminare della polizia penitenziaria che spiega, senza ulteriori motivazioni, che: “I fronti della rivolta aumentavano continuamente ed evolvevano in modo simultaneo e rapidissimo, secondo un disegno criminoso evidentemente predeterminato, volto a indebolire la capacità di in di contrasto e l’efficacia delle misure di contrapposizione: tempi e modalità della protesta ne sono un chiaro sintomo.” Nient’altro. Che quello stesso verbale della polizia penitenziaria fosse stato redatto soltanto il 21 luglio, cioè a sei mesi di distanza dalla strage, pare non insospettire nessuno, né la procura, né i giornalisti. Che poi nella richiesta d’archiviazione spuntino cose che fino ad ora erano state del tutto escluse o negate come gli spari, le ecchimosi sui corpi o le autopsie “tutte fatte solo dai consulenti della pubblica accusa, senza consulenti delle persone offese, nominati successivamente”, non interessa praticamente a nessuno. Così come pare non interessare a nessuno che le ricostruzioni di quanto accaduto fatte dalla Procura si basino principalmente “sulle relazioni e sulle dichiarazioni di agenti e graduati della polizia penitenziaria e di operatori sanitari del carcere ed esterni” mentre “i detenuti sentiti a verbale sono pochissimi.”

Mentre ad oggi, 14 marzo, gli unici articoli (questi: Carceri, anatomia della strage del Sant’Anna e Strage del Sant’anna le tesi “assolutorie” della procura) che ricostruiscono un minimo quanto scritto nelle carte della procura si trovano sul sito giustiziami.it seminvisibile e lontano dagli occhi dell’opinione pubblica e di una città che si è bevuta la storia delle 9 morti per overdose di metadone con quella tossicità tipica di una comunità che non ambisce a nient’altro che alla propria autoassoluzione.

Tutto ciò porta dietro di sé non soltanto il sapore amaro della rimozione ma anche quello di una crescente disumanizzazione che sarà bene non ignorare, perché come è stato giustamente scritto e letto davanti al carcere di Sant’Anna domenica scorsa:

“Tredici invisibili, invisibili da morti come lo erano da vivi. La cancellazione collettiva della morte di tredici persone deriva dalla negazione della loro esistenza. C’è una terribile contiguità tra le morti in carcere e le morti nel Mediterraneo: la non appartenenza, il non riconoscere a migliaia di esseri umani sentimenti propri, sogni, affetti, relazioni… e l’indifferenza per la loro scomparsa l’atroce conseguenza, risultato di un modello di società sempre più escludente, classista e razzista.”

“I vuoti di oblio non esistono. Nessuna cosa umana può essere cancellata completamente e al mondo c’è troppa gente perché certi fatti non si risappiano: qualcuno resterà sempre in vita per raccontare. E perciò nulla può mai essere praticamente inutile, almeno non a lunga scadenza.”

Hannah Arendt

*Angelo D’Orsi, Il potere repressivo: La polizia, Le forze dell’ordine italiano, Milano, Feltrinelli, 1972