
Modena, dove c’eravamo lasciati?
All’onnipresente Massimo Bottura che celebrava la nuova vocazione turistica della città in epoca pre-Covid con “messère Rothschild e monsieur Arnault che camminavano a braccetto per il centro” ed erano “parte di quello che è Modena” mentre ai lavoratori in lotta fuori dai cancelli delle aziende venivano recapitati fogli di via, come durante il ventennio, o all’arrivo del nuovo nemico pubblico numero uno della città: le famigerate “babygang” aka i suoi addolescenti?
A questi ultimi sicuramente, anche se, a ben guradare, tra le due cose c’è un nesso evidente, sia di classe che di diritto alla città, perché, come ricorda Kracauer, “ogni strato sociale ha lo spazio che gli spetta” e a Modena, tutto ciò, è ormai molto evidente. Ma andiamo con ordine e risaliamo le tracce di questo nuovo spazio urbano che dietro alle luminarie scintillanti nasconde un modello di città che mette i brividi, letteralmente…


… dove ai giovani che hanno conteso lo spazio di un “centro-vetrina” svuotato dal Covid dai flussi turistici e dai consumi si risponde esclusivamente con polizia, telecamere, agenti in borghese e militari.
Oppure ancora dove gli spazi sgomberati manu militari in questi anni per essere “rigenerati” da attori economici o istituzionali e restituire così “decoro” alla città, giacciono ancora tutti abbandonati a quel “degrado” a cui erano stati sottratti per attività sociali e solidali da persone che ora si ritrovano a fare i conti con una “giustizia” che ha il sapore peculiare della più ottusa repressione.
Il concetto lo riassume bene anche Piarpaolo Ascari nel suo saggio “Corpi e recinti” : “Ci ritroviamo così di fronte a un meccanismo perfetto, che si alimenta dei propri gas di scarico, un luogo in cui la risposta a qualcosa che è andato incredibilmente storto consiste nel favorire “le stesse forme di oppressione e le stesse prescrizioni che hanno genrato il problema”.*” Pierpaolo tra le altre cose è pure modenese e non sarebbe stato male che chi imbratta quotidianamente le pagine dei giornali locali avesse provato a leggerlo in qualche maniera il suo libro oltre che pubblicizzarlo. In altri settori la chiamano “formazione” / “aggiornamento”, un genere di pratica che potrebbe risultare utile anche a quel particolare gruppo di persone chiamato, giorno dopo giorno, al difficile compito di “in-formare” la popolazione. Utopia. Utopia, considerato ormai il livello e la qualità della stampa cittadina, molto più affine alla propaganda che all’informazione vera e propria.

Ma riavvolgiamo il nastro alla fine del 2020. Più o meno negli stessi giorni in cui l’assessore al “decoro” della città inaugurava le luminarie che ci avrebbero “aiutato a sentire più forte il senso di Comunità” gruppi di adolescenti del centro della città si trasformavano nel problema principale di questa sedicente “Comunità” con la maiuscola. Passano due mesi e questa formula così fruttuosa “babygang” continua a rimbalzare e a campeggiare tra le prime pagine dei due principali quotidiani della città, Resto del Carlino e Gazzetta di Modena; in particolare su quest’ultima nonostante da quelle stesse pagine qualcuno abbia tentato inutilmente di fargli notare che quell’espressione non era proprio tra le più felici. Perché funziona così, più o meno: per la cronaca non ci sono quasi mai filtri e si possono utilizzare tutti i marcatori connotativi del caso “babygang”, “clandestini”, “antagonisti”, “balordi”, “disadattati” ecc. , si può dare pieno sfogo al proprio estro e, a volte, anche alla propria fantasia, poi però quando si capisce di aver esagerato un po’ troppo, allora arriva qualcuno, di quella stessa redazione, che prova a rinfilare il dentifricio nel tubetto intervistando qualcun altro che ti spiega che magari non è proprio tutto così, che le cose sono un po’ più complesse di come sono state descritte fin lì. Il danno rimane, ciò che si tutela veramente è solo la facciata “progressista” e “democratica” della redazione.
Passano due mesi e a nessuno, in quelle redazioni, salta in mente di andare a farci due chiacchiere con questi ragazzi. Un’operazione piuttosto semplice che infatti riesce bene al Tg3, che intervista un giovane il quale spiega che forse si tratta più di una “questione di scena” che di violenza vera e propria e se, come afferma, è tutto una “questione di scena” allora, aggiungiamo noi, occuparsene continuamente sui giornali ed elevarlo addirittura a problema pubblico numero uno per la città non forse la cosa più furba da fare. Senza contare che, molto probabilmente, se le stesse cose capitassero a qualche chilometro di distanza dal centro-vetrina in città non se le filerebbe quasi nessuno.
Oltretutto, giornalisticamente parlando, continuare per due mesi ad occuparsi continuamente di un problema senza mai pensare nemmeno di dare voce a chi è direttamente parte in causa, i ragazzi, è miserabile oltre che sbagliato, perché sembra quasi che questi adolescenti non siano altro che degli “oggetti” da posizionare o da togliere a piacimento dagli onori della cronaca locale, senza nemmeno provare lontanamente a immaginarli come dei “soggetti” in carne d’ossa dotati di pensieri propri, di opinioni, aspirazioni e di una dignità propria rimossa categoricamente dalla penna indecente del professionista di turno. Ed è un peccato perché questi ragazzi delle “babygang”, a parlarci, avrebbero pure qualcosa da dire e forse anche da insegnare a questi sedicenti scribacchini di provincia, più inclini alla propaganda che all’informazione, come dimostrano chiaramente i pochi secondi andati in onda al Tg3. Ma forse, per capire a modo come funzionano le cose in certe redazioni basterebbe ricordarsi la massima di Don Milani: “un fascista e dieci qualunquisti fanno undici fascisti”.
Non a caso, in quella stessa redazione, (Gazzetta di Modena) pare sappiano molto bene come si fa a fare finire i ragazzi sul giornale. Il discrimine, in questi casi, è solo una questione di tipologia del massaggio che si vuole trasmettere al lettore. In questo senso, lo spazio per un docu-reality che strizza l’occhio a quanti, in politica, vorrebbero reintrodurre la leva obbligatoria, e che suggerisce nemmeno troppo velatamente, una ri-educazione di tipo militare/poliziesco per dei giovani scapestrati in cerca d’obbedienza o, per dirla come il leghista Fugatti, “la nuova fiction si chiama “la Caserma” e porterà la “Generazione Z “a misurarsi con disciplina doveri…”, ecco, per questo genere di messaggio “promozionale” la Gazzetta lo spazio per i giovani lo trova eccome.


“Gli episodi di bullismo subiti da ragazzina l’hanno spronata ad aprire un canale YouTube nel quale ha trovato un po’ di riscatto verso chi la prendeva in giro. […] “La Caserma” è un esperimento sociale [sigh!] che farà riflettere sui ragazzi compresi nella fascia degli under 30. Parole d’ordine saranno disciplina, doveri, convivenza, addestramenti e dure esercitazioni.”
Avete presente quel motto del ventennio che recitava “Libro e moschetto…” ? Ecco, non siamo troppo lontani da lì. Ma forse non siamo nemmeno troppo lontani da quel “Credere obbedire e combattere” che ha portato 320.000 italiani, nel secolo scorso, a farsi ammazzare nel gelo della Russia, sui monti dell’Epiro, tra le dune della Libia o nel Mediterraneo.
In un giornale un po’ migliore della Gazzetta, il Dolomiti, Massimiliano Pilati lo dice espressamente:
Incuriosito e intimorito da un format basato sulla bellezza dell’educazione al rigore militare ho voluto guardare la trasmissione per rendermi conto di cosa si trattasse. Purtroppo i miei timori si sono rivelati fondati. In prima serata, il servizio pubblico manda in onda un programma che prevede una narrazione basata sugli stereotipi, evidentemente ben fondati in Italia, in cui tra punizioni e rimproveri, viene presentata in chiave moderna (le reclute sono influencer) la preziosa carica educativa dell’esperienza militare nella formazione della persona. Gli addestratori militari in più occasioni riprendono i ragazzi dicendo loro che ne faranno “persone nuove” grazie al rigore militare.
Il Format è chiaro, inizialmente quasi tutti i ragazzi sono poco inclini alla disciplina e al rispetto delle regole militari ma, un po’ alla volta, a suon di flessioni e di sveglie all’alba a cantare l’inno di Mameli (imparato a memoria a forza in piena notte) vengono messi in riga. Mi ha colpito molto ad un certo punto la frase di una delle ragazze presenti che, rispondendo ad altre due che si lamentavano dell’eccesso di rigore, ha detto loro: “Una cosa devi fare: obbedire”. In questa frase c’è tutta la retorica e la voglia di far passare la famosa educazione al rigore e alla disciplina che solo il servizio militare (secondo lo stereotipo ritrito militarista) può dare. Ecco quindi che le reclute, ormai sanno che si devono presentare come tali, capiscono lentamente che devono piegarsi e obbedire. […] Ma la guerra e la sua preparazione non possono essere un intrattenimento né tanto meno avere una finalità educativa attraverso questa tipologia di programma; la realtà della guerra è morte, sofferenza e ingiustizia. […] La volontà del mondo militare di presentarsi in modo moderno non può farci dimenticare che la preparazione della guerra non è finzione. Disciplina e rigore non sono necessariamente dei brutti concetti da imparare ma non lo sono neanche obiezione, disarmo, dialogo e risoluzione nonviolenta dei conflitti. E’ giusto sapere che potremmo avere a disposizione anche altre strade per evitare la barbarie della guerra. A quei ragazzi mi piacerebbe dire un’ultima cosa: una cosa dobbiamo quindi fare: pensare.
Per tornare a Modena, invece, su quelle stesse pagine della Gazzetta, come se il tessuto “norma-mentale” della cirrà fosse già imbevuto di tutte le scorie contenute nel “reality” di Rai2, si spacciavano gli interventi di polizia come surrogati di funzioni educative.

“…è interessante capire com’è maturato l’intervento, la sua “filosofia” «In questo periodo stiamo rafforzando la vigilanza sul centro in particolare nel tardo pomeriggio – spiega – in questo caso la scelta di presentarci in borghese era legata alla volontà di instaurare un dialogo con i ragazzi, per questo c’era con noi anche un’educatrice dell’Unità di strada, con finalità di osservare, verificare e condividere informazioni sulla problematica, nell’ambito di una strategia d’intervento congiunta che vuole creare un contatto anche con le famiglie. Il momento è difficile per tutti, e non si può pensare di risolvere una problematica comportamentale come quella che investe questi ragazzi con una semplice azione sanzionatoria: ma servono strumenti diversi, imprrniati su dialogo e sensibilizzazione.»” Tutto molto “filosofico” peccato che appena qualche riga più sotto questa“filosofia” si manifesti per ciò che è realmente: “E pare proprio che i ragazzi dovranno abituarsi alla “sorpresa” degli agenti in borghese…” […] “Sul posto sono arriviate tre pattuglie della polizia locale che erano già in servizio in centro, e in supporto anche militari del servizio “Strade sicure”. Un importante dispiegamento di forze che ha avuto il suo effetto.” […] “I due fratelli rispettivamente di 18 e 20 anni, senza precedenti, sono stati denunciati per resistenza a pubblico ufficiale (dai sei mesi ai cinque anni di reclusione). […] Faranno bene dunque a prendersi un buon avvocato. E a riflettere sulle conseguenze delle loro azioni per il futuro: non sarà certo il massimo domani presentarsi per una ricerca d’impiego con una macchia del genere sulla fedina penale, in caso di condanna.” Paternalismo penale della peggior specie spacciato per informazione tanto che, a leggere certe cose, verrebbe quasi da sperare che in un futuro non troppo lontano, la gioventù cresciuta in questi tempi marci, si rifiuti categoricamente di pagare anche solo un centesimo di pensione a professionisti di questo calibro.
Dallo Stato sociale allo Stato penale
Nel 1928, in un discorso a Palazzo Chigi di fronte ai giornalisti, Benito Mussolini provò a chiarire in modo definitivo quale fosse il ruolo della stampa in un regime totalitario: “In un regime unitario, la stampa non può essere estranea a questa unità.” Oggi siamo ancora distanti da quei tempi, tuttavia continuare ad ignorare del tutto, tanto le censure quanto i focus a cui il diaframma dell’informazione sceglie di volta in volta di dare campo non è un’atteggiamento sostenibile ancora per molto. In parallelo, in questi anni, al scivolamento dello Stato da una concezione welferistica ad una più prettamente securitaria e penale è corrisposto un adeguamento di una stampa e di un’informazione attorcigliata su una cronaca sempre più strillata e sensazionalistica mentre al tempo stesso scomparivano non soltanto le inchieste ma anche le semplici domande.
Detto ciò, ora vediamo come l’eco partito dalla Gazzetta travalichi il confine fra l’informazione e la propaganda giusto la settimana successiva, con un sindaco che, da quelle stesse pagine, parlava di “regole” e di “relazioni da rigenerare” con una formula molto simile a quella che pochi giorni dopo utilizzerà per rompere il lungo silenzio sulla strage al carcere di Sant’ Anna dell’8 marzo: “ricucire le lacerazioni”.

Certo, accostare le due cose potrebbe fare rabbrividire ma quando si parla così tranquillamente di “denunce” e di “arresti”, come se in questa società tali provvedimenti svolgessero ancora (ammesso che l’abbiano mai fatto) una qualsiasi funzione “ri-educativa”, allora forse l’oggetto “carcere” non è poi così distante da ciò di cui stiamo parlando senza rendercene nemmeno conto.
Dunque, nel cul de sac di quest’inizio di anni ’20, abbiamo, da un lato, i giovani della città che ormai sono ridotti ad essere considerati poco più che l’ “oggetto” sul quale modellare l’immagine pubblica di un sindaco, di un vescovo e in generale di istituzioni che stanno perdendo, mano a mano, sempre più tonnellate di credibilità e di legittimità o ad essere trasformati in “materiale” principale di pennivendoli da quattro soldi che da anni inquinano il dibattito pubblico con argomenti esclusivamente securitari; dall’altro invece abbiamo fatti gravi, come quelli dall’8 marzo scorso, con “morti che pesano come piume”, praticamente quasi ignorati da quella stessa politica e da quella stessa stampa che insiste tanto sulle cosiddette “babygang”, da inserire nella medesima identica formula che, trita e ritrita, mentre continua a insistere compulsivamente sul dispositivo securitario finge di non accorgersi che il carcere della città, al momento della strage, conteneva già più di 500 detenuti per una capienza regolamentare di appena 369 posti. Cioé siamo di fronte a quel “meccanismo perfetto” di cui parlava Pierpaolo nel suo Corpi e Recinti ,“che si alimenta dei propri gas di scarico, un luogo in cui la risposta a qualcosa che è andato incredibilmente storto consiste nel favorire “le stesse forme di oppressione e le stesse prescrizioni che hanno genrato il problema”!”
Con le scuole chiuse da tempo per il Coronavirus, il sindaco “democratico” di Modena, Muzzarelli precisa: “«Ai giovani serve una socialità regolata, continueremo l’impegno che stiamo sviluppando affiancando l’attività di controllo delle forze dell’ordine e della polizia locale all’iniziativa con l’educativa di strada e il coinvolgimento delle famiglie». L’articolo, sempre di tale Daniele Montanari, prosegue poi l’approccio di Muzzarelli è “multiazione ma non buonista” [Sigh!] “anche ieri il sindaco ha ricordato ai ragazzi che le follie compiute adesso possono condizionare pesantemente il loro avvenire per via di eventuali macchie sulla fedina penale, che non sono di certo un bel biglietto da visita per entrare nel mondo del lavoro.” Un bel monito da gettare in faccia ad una generazione che si appresta ad affacciarsi al mondo degli adulti fra una crisi economica ormai decennale e una pandemia destinata ad aggravarla ulteriormente.
Insomma, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno verrebbe quasi da dire che simili esercizi d’autorità, così sguaiati e paternali, non rappresentino nient’altro che un’ammissione pubblica di averla definitivamente perduta insieme ad ogni diritto di pretenderla. Uno sfoggio d’autorità tipico di chi non ha nient’altro da dire se non la propria smania di “governare” nemmeno la città, ma la vita di addolescenti sfortunati ai quali non solo non si ha proprio più un cazzo da offrire ma men che meno da insegnare!
Ma il sindaco poi prosegue, con parole che stanno molto bene sulla carta ma che cozzano “evidentemente” con la realtà recente di una città che si è impegnata a fondo per sgomberare e far chiudere quei pochi spazi sociali rimasti e ora giustamente ci informa: “ai ragazzi serve recuperare socialità ed è necessario che anche le istituzioni si rapportino a loro come soggetti, valorizzando il loro protagonismo nella vita sociale e richiamandoli, se serve, alla responsabilità, al rispetto delle regole: non dobbiamo lasciarli soli.” E chissà se il buon Gian Carlo con quel “valorizzare il loro protagonismo nella vita sociale” non si riferisse magari alle centinaia di denunce che la città ha riservato a quei ragazzi che in questi anni hanno provato effettivamente ad occuparsi ed interessarsi alla sua vita sociale? Le istituzioni effettivamente non li hanno affatto “lasciati soli”.

Ma ci arriviamo subito perché il giorno dopo l’uscita del sindaco, il 27 gennaio, sulla Gazzetta di Modena si informava dell’ennesima asta andata a vuoto per la vendita per la vendita dei cinema Olympia e Principe. «Purtroppo anche questa volta non si è presentato nessuno. Abbiamo in calendario un ultimo tentativo in aprile, ma drvrà confermarlo in Tribunale.» Ma cosa centra l’asta per la vendita di un cinema andata a vuoto coi discorsi fatti fino a qua?
Semplice, anche se il pezzo di Carlo Gregori dimentica stranamente di menzionarlo, come spesso accade purtroppo, uno di quei due cinema è proprio quell’Olympia, edificio storico che venne riaperto, occupato e “restituito” alla città novembre del 2017. Era chiuso e abbandonato dal 2002 nonostante si trattasse di “una significativa testimonianza di architettura dello spettacolo del Secondo Novecento” tanto per riutilizzare le parole del Ministero dei Beni Culturali e vincolato dal 2008 dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici.


Eppure quella stessa occupazione allora, fece abbastanza scalpore in città perché rese evidente non solo la quantità abnorme di spazi abbandonati ma anche la presenza, fra questi, di veri e propri gioielli artistico-architettonici legati fortemente anche in termini “affettivi” alla memoria della cittadinanza. Ma quella storia, così come ogni parentesi alternativa che si sia affacciata o abbia tentato di farlo all’ombra della Ghirlandina, è ovviamente un qualcosa da dimenticare, da nascondere il più possibile. “Le valutazioni al ribasso hanno ormai qualcosa di clamoroso.” Ma cosa ci sia di così “clamoroso” nell’ennesima asta andata a vuoto per un cinema che non verrà mai acquistato a tali cifre, un po’ perché vincolato dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici, un po’ perché quasi nessuno ormai va più al cinema se non nei grandi mutisala, un po’ per gli ingenti lavori di ristrutturazione che ci sarebbero da fare e un po’ perché, in generale, le logiche di mercato non tutelano più alcunché, non funzionano né si autoregolano, un po’ come per i vaccini di cui tanto si parlava.

Altrove magari lo si riconosce anche più apertamente ma se solo si volesse, anche a Modena ci sarebbe una bella carrellata lunga undici anni, di spazi sgomberati da andare a ricercare. Undici anni dello stesso spartito, con la polizia che si presenta all’alba, armata di cazzuola, malta e mattoni e che in in nome della “legalità”, della “rigenerazione urbana” o di quella battaglia che portano avanti accanitamente sventolando la bandiera del “decoro”, sgomberano edifici che giacciono ancora tutti (o quasi) abbandonati, restituiti al guano e alle blatte. Ma allora anche la “legalità” può essere vettore di “degrado”? Perché nessun giornalista in città si è mai preso la briga di andare a verificare che fine avessero fatto gli stabili e i progetti associati alle tante esperienze sgomberate a Modena in quest’ultimo decennio? Perché se tanto si parla di “degrado” e di “decoro” questo tipo di “abbandono” non viene mai citato né menzionato.



Eppure non sempre è filato tutto liscio. Anzi. L’11 maggio del 2016, in una giornata che ancora oggi si fatica a ricordare per il profondo dolore che fa riemergere, a cinque anni di distanza, ad esempio accadde di tutto. “Anche l’inimmaginabile. Mezzo centro di Modena completamente ‘sigillato’ e militarizzato, bus deviati, Università chiusa la mattina stessa direttamente dalle Forze dell’ordine, poliziotti che entrarono da una finestra, pistole in pugno, per sgomberare famiglie con bambini, giornalisti allontanati dalle ‘operazioni’ di sgombero e un’ambulanza che venne fatta attendere dai carabinieri per più di 20 minuti prima che le fosse consentito di soccorrere Francesca.” (Da qua)



Quel giorno, sotto la pioggia, più di 80 persone fra cui molti minori vennero sgomberate con modalità da gestapo da edifici che ancora oggi, a cinque anni di distanza, risultano tutt’ora vuoti e abbandonati.
E proprio lo stesso giorno in cui Muzzarelli usciva sul giornale affermando che «i giovani hanno bisogno di regole», nel Tribunale della città si celebrava il processo per i fatti di quella giornata, processo che vedeva imputato anche il poliziotto che colpì ripetutamente, con un manganello impugnato al contrario, il volto di Francesca (allora 15enne). Il caso ha voluto che proprio quel processo si svolgesse nell’aula di un altro ex cinema storico della città, del 1913, il Metropol, (coetaneo, fra l’altro, dello Scala un altro ex cinema occupato, sgomberato e tutt’ora abbandonato dal 10 maggio 2011, dieci anni fa) ristrutturato e trasformato di recente in aula di tribunale. Immagine estremamente plastica di quel “populismo penale” che sta avvolgendo da tempo il paese in una “legalità” tutta formale la quale ha abbandonato ormai ogni aspirazione di giustizia affogandone la politica in un clima sempre più plumbeo e privo di senso.
Di quel processo, che è un processo importante e che si sta celebrando a porte chiuse per via del Covid, nessuno ha scritto nulla in città. Nessun giornale ne ha parlato, nonostante almeno un giornalista fosse presente all’interno dell’aula. Forse perché a Modena la repressione non esiste o non deve in alcun modo essere mostrata. Dopotutto, della lettera aperta protocollata e consegnata al sindaco di Modena da parte del Consiglio Popolare nella quale si denunciava “il deterioramento del clima democratico e il restringimento delle agibilità sindacali” sul territorio, non c’è ancora nessuna traccia su alcun giornale locale, nonostante la stessa lettera fosse stata spedita preventivamente a tutti i quotidiani della città.
Ed è un peccato perché seguendo un minimo quell’udienza si sarebbe potuto scoprire, ad esempio, che uno dei teste dell’accusa, era quel dirigente della Digos Marco Barbieri che intercettato poco dopo l’arresto di Aldo Milani pronunciò le famose frasi: «Per noi è una cosa pazzesca, Lorenzo. […] Come arrestare Luciano Lama ai tempi della Cgil d’oro. […] Ma che scheggia impazzita. Abbiamo devastato i Cobas a livello nazionale, Lorenzo. Abbiamo fatto una cosa pazzesca. Hanno perso la faccia su tutti i fronti. Non ne hai idea» e che nel frattempo era stato promosso a Vice Capo di Gabinetto della Questura di Modena.
Insomma nulla di nuovo sotto le nebbie della Ghirlandina, però forse bisognerebbe anche cominciare a far presente a certa stampa locale che quando nella tua città “sono 458 i procedimenti penali imbastiti dal 2017 ad oggi contro i Si Cobas, oltre a 12 fogli di via e al blocco delle pratiche di cittadinanza per decine di operai che hanno protestato”, allora forse qualcosina che non va c’è e il non scrivere nulla di processi importanti in corso è un segnale che va al di là della semplice dimenticanza.
A nostro avviso il problema c’è, ed è ormai assai grave e chissà che anche qualcun altro non cominci a farlo presente esplicitamente e pubblicamente.
* Pierpaolo Ascari, Corpi e Recinti. Estetica ed economia politica del decoro, Ombre corte / culture, 2019
Posted on 30 gennaio 2021
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