Ma veramente è così semplice professarsi antifascisti nell’Italia contemporanea? (Prima parte)

Posted on 21 ottobre 2021

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«Stavolta non possiamo prendercela con i giudici cattivi e gli sbirri manganellatori: stavolta stiamo facendo tutto da soli, nell’ignavia, nell’imbarazzo, nella estenuante incapacità di cogliere il senso delle cose.»

La Solenne Dichiarazione di Bao Yiang”

«Se non ti organizzi per insorgere, non ti lamentare se chi insorge non lo fa secondo i tuoi canoni».

“Collettivo Di Fabbrica – Lavoratori Gkn Firenze”

Sono tempi complessi e anche parecchio confusi, non c’è dubbio, quelli in cui la pandemia sembra averci definitivamente immersi con la fine dell’estate. Tutte le principali bussole politiche sono saltate, impazzite, girano su sé stesse senza indicare più alcuna direzione.

L’utopia vorrebbe che, in periodi come questi, ci si impegnasse al massimo nella pratica della sospensione del giudizio e si attivassero, al contempo, tutti i recettori capaci di captare disagio e sofferenza, condizioni ormai comuni a gran parte della popolazione della penisola e in continua e progressiva espansione. Almeno, se non altro, per cercare in qualche modo di coltivare una sorta di idioma comune, per riconoscersi ed evitare così che le forze centrifughe governamentali possano ulteriormente polarizzare e dividere in mille rivoli e rancori un corpo sociale già ampiamente frammentato e senza più alcuna prospettiva. Perché, sfidiamo chiunque qua sopra, a non trovare almeno qualcuno a lui vicino, fra parenti colleghi, amici e conoscenti che non sia stato posto in condizioni di profonda difficoltà da questo sgambetto tecnologico denominato «green pass».

Ulteriori fratture e nuovissimi appittimenti binari della realtà stanno già fermentando nel brodo di cultura del cosiddetto lasciapassare verde e della decisione scellerata del governo Draghi di imporlo anche sui luoghi di lavoro, nonostante (piaccia o non piaccia) una fetta minoritaria ma non insignificante di popolazione, per tutta l’estate, avesse manifestato in piazza contro questo genere di provvedimento; il quale, come la gran parte degli strumenti adottati fino ad ora durante la pandemia, aveva poco a che fare col piano sanitario ma rispondeva piuttosto alle solite logiche di tipo securitario: controllo sociale, divisione, segregazione e annichilimento del già scarsissimo potere contrattuale dei lavoratori. D’altro canto, che il “goveno dei migliori” fosse visto, venduto e vissuto con quest’aura da “dispotismo illuminato” – illuminato non si sa bene da cosa – era risaputo e che un governo di siffatta caratura – che comprendeva fra l’altro la quasi totalità dell’arco parlamentare – non guardasse più in faccia nessuno era scontato.

E che questo dispotismo padronale mortifero tirasse dritto per la sua strada non badando più a niente e a nessuno nonostante nel paese circolasse in giro già un sacco di sofferenza – sia economica che psichica – era chiaro a tutti tranne forse al più grande sindacato italiano, la Cgil, che assomigliava ogni giorno di più a quel modello di sindacato corporativo in vigore in epoca fascista.

Anche perché in Italia, da tempo, l’unico vero «green pass» ce l’avevano avuto i padroni, coccolati e incontrastati come in un paese del cosiddetto terzo mondo. «Siamo scioccati dal livello di sfruttamento sul lavoro in Italia. Parliamo di un paese avanzato e industrializzato, in cui la perdita di vite umane sul lavoro non è accettabile. Lo stesso vale per i conflitti ambientali» Erano parole che provenivano dalle Nazioni Unite queste, perché ormai per capire qualcosa del paese in cui si abitava bisognava staccarsi completamente da esso ed avvelersi di uno sguardo esterno.

L’Italia del 2021 era un luogo in cui le imprese avevano fretta di “ripartire”. Ripartire magari da quello sblocco dei licenziamenti deciso dal governissimo di Mario Draghi o dai freni tolti alle funivie o dagli orditori manomessi nelle filerie di Prato. […] “Ripartenza” secondo il vocabolario di allora significava la possibilità di licenziare all’occorrenza 40enni e 50enni con lunghi rapporti di lavoro alle spalle e a tempo indeterminato per sostituirli con giovani precari e con contratti a tutele crescenti – 30.000 posti a rischio nella sola Milano – significava lo sblocco degli sfratti – 5.000 nuclei famigliari a rischio nella sola Emilia-Romagna -, sindacalisti assassinati, arresti arbitrari, squadracce di picchiatori privati che attaccavano gli scioperi, assalti sino-n’dranghetisti nel distretto tessile di Prato – lo stesso dov’era morta la 22enne Luana, stritolata da un filare manomesso -, polizia dal grilletto facilenel solo mese di aprile erano morte tre persone a segiuto di controlli di polizia che nulla avevano a che fare con la criminalitàricercatori di storia indagati per “associazione sovversiva”, repressione ovunque e giustizia da nessuna parte.

Questo si scriveva all’inizio dell’estate prima che il dispositivo altlasciapassare cominciasse ad occupare tutta la scena ed a essere richiesto prima sui luoghi di svago, poi dal 15 ottobre, negli ambienti di lavoro dove, applicato ad un contesto di lavoro salariato, costituiva un precedente devastante e potenzialmente assai pericoloso. Il «green pass» non era una misura prettamente sanitaria. Lo sarebbe stato se chi si vaccinava – oltre a diminuire sensibilmente il rischio di non contrarre il covid nella sua forma peggiore e non finire così ad intasare le terapie intensive di un servizio sanitario nazionale costantemente indebolito da 40 anni di tagli – fosse diventato improvvisamente anche immune alla trasmissione del virus.

Purtroppo non era così, dunque questa la misura deveva essere senz’altro il frutto di altri ragionamenti come il forzare quanta più popolazione possibile al vaccinarsi (popolazione che già lo stava facendo anche senza la spintarella del «green pass»), scaricare verso il basso le responsabilità di una possibile nuova ondata e scongiurare una volta per tutte l’eventualità di nuove chiusure (eventualità che nemmeno durante la prima ondata era valse per gran parte del tessuto industriale del paese: basti ricordare Bergamo ecc. ecc, sigh!).

Dunque, ben presto, questo «green pass» nel Belpaese si era trasformato così in una sorta di amuleto, per gli uni e per gli altri. In un simbolo sul quale celebrare gli esorcismi del governo e dell’economia sulla natura da un lato, mentre dall’altro gli si potevano proiettare tutti i mali che affliggevano il tardo e funereo capitalismo contemporaneo. Il «green pass», da questo punto di vista, non era diventato altro che un esempio di ciò che gli antropologi chiamano “culti di crisi”; quando cioé la realtà diventa eccessiva e si trasforma in un qualcosa di troppo per essere sostenuta – e tra crisi climatico-ambientale, pandemia, crisi economica pluridecennale e governi sempre più dispotici, gli elementi in questo senso non mancavano di certo – allora sono necessari degli appigli ai quali appoggiare la realtà per sor-reggersi.

Appigli che però avevano anche risvolti estremamente concreti nella vita di tutti i giorni per milioni di persone, che non erano stati in alcun modo motivati ma semplicemente imposti dall’oggi al domani e che, molto probabilmente, non avrebbero tardato a presentare effetti collaterali che stavano già sedimentando sotto la cenere e che sarebbero dovuti essere tutti addebitati unicamente a una classe dirigente tanto predona quanto arrogante. Lo aveva notato, come al solito, molto bene Guido Viale a proposito dei vaccini: «E’ difficile capire l’attuale mobilitazione e soprattutto il fervore contro il vaccino anticovid di tanta “gente comune” senza tener conto della miseria intellettuale con cui era stata portata avanti la campagna per i 10 vaccini Lorenzin.»

Piccolo chiarimento, qua sopra non si è affatto contrari al vaccino, anzi si ritiene che sia uno degli strumenti principali per affrontare la pandemia, ma non si possono di certo negare tutti i dubbi e le incertezze che, soprattutto questi vaccini anticovid, possono suscitare, o peggio ridurre tutti questi timori e convinzioni in un grande calderone “antiscientifico”, “NoVax”,“scie chimiche”, “rettiliani” da “blastare” dall’alto della propria supposta superiorità intellettuale. Piccolo esempio: a inizio settembre si cominciava già a parlare di “terza dose” nonostante gli appelli delll’Organizzazione Mondiale della Sanità avvertissero che «La terza dose senza vaccinare i Paesi poveri poteva favorire le varianti».

Come si facesse poi a snobbare con tanta sufficienza tutti i timori di chi credeva che l’introduzione di un lasciapassare per poter accedere ai luoghi di lavoro non fosse proprio una bagatella non ci è dato in alcun modo saperlo. Certo le priorità sarebbero state anche e soprattutto altre: lo sblocco dei licenziamenti e degli sfratti, gli aumenti delle bollette e il carovita, i morti e le generali condizioni di sfruttamento sul lavoro denunciate anche dall’Onu, un Pnrr che sarebbe andato ad elargire soldi a pioggia per grandi opere inutili lasciando poco meno che le briciole a tutto il resto, una spesa militare sempre più in crescita, l’innalzamento dell’età pensionabile, una riforma fiscale a vantaggio delle imprese non dei lavoratori, una “giustizia” sempre più feroce e razzista con i deboli e supina coi potenti fino ad arrivare, e lo vedremo, ad una sorta di autorizzazione informale dell’omicidio.

E chissà che, utopia per utopia, tutta questa attenzione verso un provvedimento che era, di fatto, discriminatorio non potesse far mettere in discussione anche altri aspetti del capitalismo della sorveglianza che ci circonda: dalla polizia e da questa strana idea per la quale le forze dell’ordine sarebbero da considerarsi forze buone e non il nemico naturale di ogni proletario, dalle telecamere in ogni dove al comprendere che la sicurezza sociale era tutt’altra cosa rispetto alla sorveglianza, dalla comprensione verso chi non era in possesso di tutti i documenti in regola fino al ripudio più profondo dell’istituzione carcere e dei campi di concentramento ed espulsione per i cosiddetti cosiddetti calndestini. Utopia.

Lunedì della settimana scorsa, l’11 ottobre, durante lo sciopero generale dei sindacati di base che aveva interessato tutto il paese, molti di questi problemi erano stati sollevati e la giusta critica allo strumento del lasciapassare si era già fusa ed inserita in una prospettiva di riscatto sociale e di salvezza collettiva molto più ampia (sotto qualche foto dello sciopero generale del sindacalismo di base a Trento).

Peccato che nel paese della politica ufficiale di quello sciopero non ci fosse rimasta quasi alcuna traccia, perché il sabato precedente, il 9 ottobre, alla vigilia di importanti elezioni amministrative alle quali si recherà a votare sì e no un elettore su due, a Roma, con la scusa della lotta contro il «green pass» veniva assaltata dai manifestanti la sede della Cgil. Alla guida dell’asssalto, un paio di facce note di Forza Nuova del calibro di Roberto Fiore e Giuliano Castellino, personaggi da sempre trattati con occhi di riguardo da magistrati e forze dell’ordine (qua sopra ad esempio si ricorda come ai neofascisti di Forza Nuova con caschi e spranghe venisse consentito di circolare liberamente in centro a Modena nel 2016, letteralmente scortati dalle varie “forze dell’ordine” mentre, a poca distanza, contemporaneamente, la guardia di finanza apriva le teste di alcuni antifascisti e il sindaco di Modena (Pd) se la prendeva, spostando il tiro, con alcune scritte antifasciste apparse sui muri prontamente rimosse dal comitato retake locale).

Dunque il 9 ottobre a Roma durante una manifestazione contro il «green pass» un corteo, staccatosi da una piazza gremita di gente normale e guidato da arcinoti fascisti, giungeva fino alla sede Cgil praticamente scortato dalle forze dell’ordine nonostante, già negli interventi di piazza, questi noti fascisti avessero annunciato le loro intenzioni.

Il fatto ovviamente oltre ad essere anomalo era anche estremamente grave e simbolico. Che un gruppo neofascista assalti la sede di un sindacato senza che le forze dell’ordine intervengano in alcun modo in un paese che in cinque anni aveva già contato l’uccisione di almeno quattro sindacalisti quasi senza conseguenze era un fatto piuttosto inquietante.

Peccato che in Italia anche i fatti piuttosto inquietanti partorissero risposte talmente inadeguate che esse stesse si trasformavano in fatti che lo erano altrettanto. Lo sdegno all’accaduto era pressoché unanime. Persino i post-fascisti della Meloni si sentivano colpiti da quanto avvenuto e strizzavano immediatamente l’occhio alle dietrologie e alle manovre oscure. Al contrario, il segretario della Cgil Landini, intervistato a Mezz’ora in più, ringraziava le forze dell’ordine, quasi a voler dichiarare chiuso l’incidente istituzionale e lanciava una grande manifestazione antifascista a Roma per il sabato successivo, in concomitanza, guarda caso, coi ballottaggi delle elezioni amministrative.

L’appello spassionato allo sciopero generale dei lavoratori della GKN (una delle poche parti rimaste ancora genuine in Cgil) non veniva nemmeno preso in considerazione.

Fuori i fascisti dalle nostre sedi e dalla società, riprendiamoci le piazze. Fuori dall’angolo in cui ci vogliono. Contro le crisi aziendali, per una legge sulle delocalizzazioni, contro una ripresa fatta di precariato, inflazione e bassi salari, contro le morti sul lavoro, contro le politiche pensionistiche. La più grande organizzazione dei lavoratori dichiari lo sciopero generale. Se non ora, quando?

Per il resto si assiteva ad coro quasi unanime sollevatosi a difesa della Cgil che ne certificava soltanto la sostanziale inoffensività, verso le classi dirigenti, di un sindacato disinnescato esponenzialmente da almeno vent’anni. Anche perché prese di posizione così immediate e corali non si erano di certo levate quando, ed era successo a più riprese negli ultimi anni, delegati e iscritti sindacali venivano ammazzati, denunciati, picchiati sia dalle forze dell’ordine che dai mazzieri assoldati dalle aziende, arrestati, allontanati con fogli di via, avvisi orali e minacciati della revoca del permesso di soggiorno solo per aver lottato per i propri diritti.

Si parlava di sciogliere le organizzazioni neofasciste (cosa che puntualmente non avverrà) e di limitare il diritto costituzionalmente garantito a manifestare, palla che, al contrario, verrà subito colta al balzo dal governo e applicata immediatamente, come da copione, ma “a sinistra”, sulla pelle, guarda caso, dei sindacati di base.

Dopo l’assalto fascista – assalto che, come al solito nello stile di questi servi dei servi dei servi, non aveva come obiettivo Confindustria o il Governo ma la sede di un sindacato che, per quanto ammanicato e sostanzialmente immobile, rapresentava ancora una l’unica organizzazione di massa della classe lavoratrice rimasta dal ‘900 – lo sciopero generale dei sindacati di base del lunedì successivo veniva così di fatto oscurato o tutt’al più diluito nel grande maremagnum “No Green Pass” = “NoVax” =“fascisti”.

Quello stesso lunedì 11 ottobre, inoltre, mentre in tutta Italia centinaia di migliaia di lavoratori manifestano contro lo sblocco dei licenziamenti, contro lo sfruttamento sul lavoro, contro le politiche draconiane del governo e contro il lasciapassare, il leader del principale sindacato italiano si faceva fotografare assieme a Mario Draghi come a voler dire «non ti metteremo i bastoni tra le ruote», «siamo dalla stessa parte», «abbiamo già abdicato al nostro ruolo storico di sindacato, facendoci totalmente portatori degli interessi dello Stato, delle aziende e, per ultimo, se rimane ancora un po’ di spazio, dei lavoratori, un po’ come facevano i sindacati corporativi durante la dittatura».

Come se non bastasse, nelle stesse ore del siparietto governativo davanti alla Cgil, a Prato, durante lo sciopero generale – quello proclamato dai sindacati di base perché i confederali avevano congelato quell’opzione più o meno dal 2002 – squadristi di un’azienda tessile aggredivano tranquillamente con mazze e bastoni sotto gli occhi della polizia gli operai in sciopero. Non era un caso isolato in quella provincia, era già successo alla Texprint, alla Gruccia Creations, alla DS di Montemurlo e come al solito a finire sotto processo erano stati soltanto i lavoratori e non i loro aggressori, ma assalti simili si erano verificati recentemente anche nel lodigiano e in altri magazzini della logistica senza che nessuna forza istituzionale, sindacati confederali compresi, badasse troppo a quanto, da tempo, stava avvenendo negli interstizi del tessuto produttivo del paese e del cosiddetto “Made in Italy”.

Così lo squadrismo che tanto istituzionalmente si faceva finta di deprecare andava in scena quasi in contemporanea ma nel paese della commedia e della rappresentazione poteva accadere ormai di tutto. Si poteva parlare – «bla, bla, bla» come aveva sintetizzato perfettamente Greta Thunberg a proposito di clima – di “unità antifascista” governando assieme alla Lega, si poteva andare alla manifestazione di condanna dell’attacco fascista alla Cgil e applaudire al tempo stesso in Parlamento il Ministro dell’Interno che quell’assalto squadrista l’aveva di fatto permesso. La Cgil poi poteva portare in piazza i pallocini ma si guardava bene dal chiedere anche solo informalmente le dimissioni del Prefetto di Roma Matteo Piantedosi, ex capo di gabinetto di Salvini ecosì come quelle del Ministro Lamorgese nonostante le forze dell’ordine avessero praticamente scortato Forza Nuovo fin sotto la loro sede.

E i fasci di Forza Nuova non l’avevano di certo scelto a caso il loro obiettivo. Con una tensione tanto crescente quanto latente attorno alla questione «green pass», attaccare la sede di un sindacato ormai considerato“venduto” dalla stragrande maggioranza dei lavoratori, soprattutto dopo la cura Monti-Fornero, era un occasione più che ghiotta. E potenzialmente favorevole era anche l’occasione per il governo che poteva così distogliere un po’ l’attenzione mediatica dal caro bollette e dalla macelleria sociale che si preannunciava ed indirizzarla verso un nemico perfetto, tanto riconoscibile (i fasci di Forza Nuova) quanto sfuggente (i “No Green Pass”) ingigantito nei numeri e nella composizione e cominciare così a stringere ulteriormente le maglie per la repressione per ogni forma di dissenso.

Fossimo anche un minimo complottisti avremmo tutti gli elementi per sguazzare ed elaborare le tutte le teorie dietrologiche più strampalate. La fantasia di certo non manca ed è proporzionale alla credibilità (vedi foto a destra) fornita apiù riprese dalle istituzioni. Peccato che in questa storia tutti gli attori in campo si fossero comportati perfettamente secondo una logica ordinaria, ciascuno aveva seguito il proprio copione alla lettera senza alcuna anomalia. I fascisti avevano fatto i fascisti, servi dei servi dei servi assaltando la sede di un sindacato anziché quella di Confindustria, le forze dell’ordine avevano fatto le forze dell’ordine che, quando non erano troppo impegnate a difenderli direttamente i fascisti, di solito li scortavano tranquillamente fin sotto il loro obiettivo, Draghi aveva fatto Draghi, ed era andato a prendersi l’appoggio del principale corpo intermedio italiano in vista della finanziaria e di un inverno che si preannuncia piuttosto rigido promettendo poco e niente in cambio, il governo aveva fatto il governo annunciando di limitare ancor di più le manifestazioni e le libertà democratiche, la Peggiore Destra, cioè il Pd aveva sfruttato la palla al balzo per“restaurare la facciata non solo di alcuni sindacati, ma anche di una certa “sinistra” che di fatto governa da anni con la Lega e coi tecnocrati autoritari” e ai post fascisti della Meloni non era rimasto ninet’altro che il compito che storicamente gli riusciva meglio, il fare le vittime di un complotto ardito e organizzato da tutti contro di loro.

Eppure ormai era quasi commuovente la stucchevolezza con la quale, con estrema banalità, si poteva professare così tranquillamente il proprio antifascismo in un paese che aveva appena votato il ri-finanziamento delle milizie criminali libiche per il sequestro dei migranti, che condannava a 13 anni di galera Mimmo Lucano, che aveva un codice penale risalente al 1930 e un codice civile del ’42, che aveva ri-aperto i lager sul proprio territorio; un paese dove in meno di cinque anni erano stati uccisi quattro sindacalisti nel silenzio più totale e dove, da anni, squadracce armate al soldo dei padroni attaccavano lavoratori in sciopero senza alcun tipo di conseguenza. Un paese dove ormai la cosiddetta“sinistra”, imboccata dalla grande narrazione mediatica, in nome di una sedicente “unità antifascista” plaudiva e si compiaceva dello sgombero – con lacrimogeni, idranti e manganelli – del blocco del porto di Trieste da parte di lavoratori e solidali contro il «green pass», mentre chi aveva da poco re-introdotto il reato di blocco stradale (“punito con la reclusione da uno a sei anni e le pene sono raddoppiate se il fatto è commesso da più persone”) parlava apertamente di repressione. Infine, nel bel mezzo della finta bufera, il Ministro Lamorgese, dal Viminale, nominava Roberto Maroni – dunque un sostenitore della Bossi-Fini la legge che da quasi un ventennio incatena le persone straniere lavoratrici nel limbo dell’irregolarità e dello sfruttamento – a presidente della Consulta per l’attuazione del protocollo contro lo sfruttamento lavorativo in agricoltura e del caporalato.

E in un momento del genere allora, le uniche confuse parole che potevano continuare a ronzare ancora nella testa comunicando qualcosa erano quelle di quel celebre passaggio di Pavese ne La casa in collina:

“Era seria e rideva. – Lo siamo tutti, cara…” “Stavolta non possiamo prendercela con i giudici cattivi e gli sbirri manganellatori: stavolta stiamo facendo tutto da soli”

Tuttavia, al di là della totale decomposizione del discorso pubblico che continuava ad oscillare come un pendolo tra il macchiettistico ridicolo e la seria gravità erano altri i segnali che le cose stavano insudiciandosi fino a un punto di non ritorno.

Se c’era qualcosa che il fascismo italiano era stato sicuramente, oltre al non possedere alcuna filosofia ma soltanto una retorica, come ci aveva spiegato alla perfezione Umberto Eco –“il fascismo non era una ideologia monolitica, ma piuttosto un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni” era certamente il fatto che il regime di Mussolini era stata una dittatura profondamente ingiusta e diseguale.

Ed era esattamente nel campo della cosiddetta “giustizia” che cominciavano a scorgersi tutti i segnali di un progressivo e netto deterioramento della situazione …

continua …