L’Italia di Draghi, di stragi archiviate e sindacalisti assassinati.

Posted on 25 giugno 2021

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A quel tempo, in quella tarda primavera che sapeva già d’estate, sfogliando i principali giornali locali e nazionali sembrava quasi che l’Italia della “ripartenza” fosse affetta da due soli e indicibili problemi: la malamovida dell’ingrata e sfaticata gioventù italiana e la cronaca mancanza di personale causata dai generosissimi sussidi offerti dal possente e inguagliabile welfare italiano. In particolare tutti i problemi del paese sembravano generati dal cosiddetto reddito di cittadinanza che consentiva ad una sfaccendata popolazione di stare a casa sul divano col sussidio piuttosto che “mettersi in gioco cercando lavori probabilmente anche poco remunerati”. Queste ultime parole le aveva pronunciate l’11 giugno Guido Maria Barilla, erede dell’azienda di famiglia, una multinazionale del settore alimentare che negli ultimi tre anni pare avesse ricevuto circa 6 milioni e mezzo di euro di sussidi pubblici.

Ma la borghesia “stracciona” all’italiana era fatta così; si presentava come classe illuminata in un Paese abitato prevalentemente da una popolazione pigra e oziosa, proiettando lontano da sé stessa tutte le caratteristiche che la contraddistinguevano. Così parola “sussidistan” in Italia veniva associata automaticamente ed esclusivamente alla classe lavoratrice mentre, a ben guardare, sarebbe stata molto più calzante se indirizzata a questa classe di padroni che dai Benetton del ponte Morandi fino agli Agnelli-Elkann del trasferimento della Fiat di illuminato e illuminante non avevano proprio nulla.

L’Italia del 2021 era un luogo in cui le imprese avevano fretta di “ripartire”. Ripartire magari da quello sblocco dei licenziamenti deciso dal governissimo di Mario Draghi o dai freni tolti alle funivie o dagli orditori manomessi nelle filerie di Prato. Tutti indizi inequivocabili di come i padroni di sto Paese intendevano la ripartenza, come un orgasmo del profitto finalmente liberato da tutti quei lacci e lacciuoli che lo avevano contenuto. Lacci e lacciuoli che per la verità erano già piuttosto laschi e che inevitabilmente comprendevano anche le leggi stesse che lo Stato si era dato, leggi mai realmente applicate e che ora finalmente potevano essere calpestate come inutili orpelli ad ostacolo dell’assalto alla diligenza e del rapido accumulo di capitale.

“Ripartenza” secondo il vocabolario di allora significava la possibilità di licenziare all’occorrenza 40enni e 50enni con lunghi rapporti di lavoro alle spalle e a tempo indeterminato per sostituirli con giovani precari e con contratti a tutele crescenti – 30.000 posti a rischio nella sola Milano – significava lo sblocco degli sfratti – 5.000 nuclei famigliari a rischio nella sola Emilia-Romagna -, sindacalisti assassinati, arresti arbitrari, squadracce di picchiatori privati che attaccavano gli scioperi, assalti sino-n’dranghetisti nel distretto tessile di Prato – lo stesso dov’era morta la 22enne Luana, stritolata da un filare manomesso -, polizia dal grilletto facilenel solo mese di aprile erano morte tre persone a segiuto di controlli di polizia che nulla avevano a che fare con la criminalitàricercatori di storia indagati per “associazione sovversiva”, repressione ovunque e giustizia da nessuna parte.

Ma “Ripartenza” significava anche morti sul lavoro in continuo aumento, la ripresa di grandi opere grigie come la cementificazione e lo sgardo delle infiltrazioni mafiose sempre in agguato (senza contare che il decreto “semplificazioni” puntava a liberalizzare gli appalti e a smantellare i controlli sia quelli delle Sovrintendenze regionali che quelli dell’autorità anticorruzione). Non solo, la pandemia aveva espanso ancora di più la privatizzazione dello spazio pubblico ed eroso l’agibilità delle voci critiche e di ogni opposizione politico-sociale, in più il governo Draghi sembrava ancora godere di un sostegno a tratti religioso, la quasi totalità dell’intero arco parlamentare nonché la maggior parte dei giornali e degli anchorman televisivi lo incensavano con la stessa reverenza che gli antichi egizi riservavano ai faraoni.

Peccato solo che Mario Draghi non disponesse di quella bacchetta magica che tutti – commentatori, parlamentari e senatori, lecchini e giornalisti – gli attribuivano, né di ricette politiche differenti da quel liberismo sfrenato che le condizioni disastrose del paese avrebbero richiesto. Anzi. All’alba del 1 luglio (tra meno di una settimana) sarebbe scattata l’ennesima dichiarazione di guerra nei confronti dei lavoratori italiani (vecchi e nuovi) da parte di una Confindustria sempre più avida e feroce, coccolata e sussidiata dallo Stato. Erano 56 mila i lavoratori a serio rischio disoccupazione, contando solo i 99 tavoli di crisi aziendali aperti sulla scrivania di un ministro dello sviluppo economico – tale Giancarlo Giorgetti, il leghista che da giovane apprezzava i testi del terrorista nero Franco Freda che nemmeno si degnava di rispondere alle lettere dei timidissimi sindacati confederali italiani – ma nel complesso sarebbero stati indubbiamente molti di più. Impossibile fare stime. Ciò che era certo però era l’ennesima ristrutturazione del lavoro salariato italiano – quello che di suo produceva già un 12,2 della popolazione lavorativa considerata a rischio povertà – e che nell’immediato futuro avrebbe consentito ai padroni di sfruttare l’occasione offerta dal nuovo governissimo del Presidente per espellere chi, nel mondo del lavoro, poteva ancora godere di vecchi diritti e garanzie per sostituirlo con precarietà a tutele crescenti. La riforma degli ammortizzatori sociali promessa dal ministro del lavoro intanto – tale Andrea Orlando del Pd, lo stesso che dava il nome alla legge razziale del nostro tempo quella che aveva riaperto i lager in Italia, la Minniti-Orlando – non era ancora tutta in fase di gestazione mentre del salario minimo si erano proprio perse le tracce dai radar e, molto probabilmente, avrebbe fatto la stessa fine del tanto chiacchierato ddl Zan dopo l’intervento a gamba tesa del Vaticano, il quale era riuscito a rispolverare, nel 2021, un altro relitto dal regime fascista rimasto intatto fino ai giorni nostri, il Concordato.

Era questa più o meno la situazione dell’Italia nei giorni immediatamente precedenti e successivi alla morte di Adil Belakhdim, coordinatore 37enne del SI Cobas di Novara, ammazzato da un camion che aveva forzato un picchetto davanti alla Lidl di Biandrate, il 18 giugno.

Episodi – i tentavi di forzare i picchetti con automezzi -che erano diventati quasi consuetudine in un settore, quello della logistica, dove da un’indagine dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro del 2020 erano emerse irregolarità, per le imprese che vi opervano, pari al 71,46% (Ateco H).

Questi, ad esempio, erano solo alcuni episodi di cronaca sindacale registrati sulla stampa tra il 2012 e il 2016, l’anno della morte di un altro sindacalista, Abd Elsalam Ahmed Eldanf, schiacciato anche lui dalle ruote di un un Tir, sotto l’occhio vigile della polizia, come ai tempi di Scelba, in circostanze del tutto analoghe all’omicidio di Adil.

Allora in Parlamento stava arrivando una legge di riforma del diritto del lavoro (il Jobs Act) che prometteva l’introduzione di un contratto unico a tutele crescenti e che spacciava come innovazione l’abolizione dell’articolo 18. Una legge promossa dal Pd di Renzi volta a volta a flessibilizzare ulteriormente il mercato del lavoro e che serviva indubbiamente più per agevolare il licenziamento che per assumere. Ieri l’uccisione di Abd Elsalam Ahmed Eldanf, oggi quella di Adil, mentre un altro Presidente del Consiglio si apprestava a “sbloccare” una nuova fetta di licenziamenti – volti ad espellere, encore une fois, dal mercato del lavoro figure maggiormente tutelate per sostituirle con lavoratori flessibilizzati post Jobs Act – e il ministro del lavoro prometteva l’ennesima riforma degli ammortizzatori sociali, come cinque anni fa col Jobs Act che aveva introdotto la Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (Naspi).

La morte di Adil sembrava aver scosso il Paese (almeno per ciò che concerne l’attenzione mediatica) in maniera molto più profonda di quanto non avesse fatto l’uccisione Abd Elsalam. Anche il Presidente del Consiglio ne aveva parlato chiedendo di “fare piena luce” sull’accaduto. Su cosa poi ci fosse da “fare piena luce” non si sapeva, visto che i dati usciti dall’indagine dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro dovevano essere perlomeno noti anche negli ambienti governativi ed era da almeno un decennio che i picchetti nei settori della logistica venivano forzati in quella maniera. Non solo, come aveva giustamente scritto in una nota il Sindacato intercategoriale Cobas di Torino:

L’escalation di repressione e violenza che abbiamo visto in queste settimane, dagli arresti dei coordinatori sindacali del S.I. Cobas di Piacenza alle aggressioni con acido, mattoni e spranghe ai lavoratori della Texprint di Prato; dal licenziamento di centinaia lavoratori in FedEx-Tnt con la chiusura del magazzino-hub di Piacenza alle le squadracce di sgherri e guardie private assoldate per sfondare i picchetti operai picchiando i lavoratori con mazze e taser; dalle continue provocazioni e attacchi di capi e capetti nelle aziende alle cariche delle forze dell’ordine a operai, disoccupati e studenti davanti a Montecitorio; fino alle cariche poliziesche contro i lavoratori (anche lavoratrici incinte) in sciopero dai cancelli usando manganelli e lacrimogeni (di gas vietati dalla legge): tutta questa escalation reazionaria, è un chiaro pericoloso segnale del livello di scontro che padroni e governi hanno voluto raggiungere sia per colpire le lotte dei lavoratori della logistica ed annullare le conquiste del movimento operaio degli ultimi dieci anni, sia per attaccare ogni avanguardia di lotta e tutta la classe lavoratrice.

Se un osservatore esterno avesse guardato all’Italia con l’obiettivo puntato sui cancelli dei magazzini della logistica avrebbe fotografato un paese nel quale il conflitto capitale/lavoro stava ripiombando nel sangue degli anni ’50 di Scelba. Ma non si trattava solo della logistica, e i sindacalisti uccisi semplicemente perché richiedevano cose ormai dimenticate, tipo i propri diritti o cercare di far rispettare gli accordi già sottoscritti, non erano semplicemente due. In pochi se lo ricordavano, ma in appena cinque anni, in Italia, oltre ad Adil e Abd Elsalam erano stati uccisi anche Soumaila Sacko – ucciso a fucilate in Calabria dove faceva il bracciante nella Piana di Gioia Tauro – e Adnan Siddique – massacrato a coltellate per aver difeso alcuni braccianti vittime di caporalato a Caltanissetta.

L’autista che aveva investito volontariamente Adil Belakhdim era stato messo ai domiciliari praticamente già all’indomani dell’uccisione del coordinatore del SiCobas di Novara. Stessa sorte era capitata a chi aveva sparato a Soumaila Sacko, col Tribunale della libertà di Catanzaro che, nel novembre del 2020, aveva scarcerato il suo assassino dopo poco più di un anno di detenzione, nonostante una condanna di 22 anni per omicidio. Si trattava chiaramente una decisione temporanea ma comunque indicativa.

Sia ben chiaro, da queste parti riteniamo il carcere un’istituzione inutile e dannosa e che andrebbe abolita in toto, perché fallisce in tutti gli scopi che sulla carta dovrebbe inseguire, dalla rieducazione e dal reinserimento del condannato alla “tutela” della società, basti vedere ad esempio il fenomeno della radicalizzazione all’interno delle carceri europee anche per quanto riguarda il terrorismo che è fatto noto a livello europeo (Anis Amri che si lanciò sulla folla al mercatino di Natale di Berlino del 2016 si era “radicalizzato” durante la sua carcerazione in Sicilia). Lo facciamo notare solo perché ci domandiamo cosa sarebbe successo a parti invertite. Se un sindacalista durante uno sciopero avesse investito un crumiro molto probabilmente si sarebbe scomodata direttamente l’antiterrorismo e difficilmente sarebbe stato scarcerato il giorno dopo, anzi.

La scarcerazione dell’assassino di Soumaila era un segnale. Così come era un segnale l’assoluzione dell’autista che aveva schiacciato col suo mezzo Abd Elsalam Ahmed Eldanf, uccidendolo, mentre dalla “giustizia” italiana arrivavano decreti penali di condanna per chi si era mobilitato per protestare contro quella morte. La vicenda di Abd Elsalam, che in molti inquesti giorni avevano rievocato, era finita col fratello della vittima finito in tribunale e “imputato di diffamazione per aver accusato il direttore della Gls di aver incitato il camionista ad uscire dai magazzini, nonostante fosse in corso una manifestazione”. (qua il video delle dichiarazioni imputate al fratello di Abd Elsalam).

Questo era il metro dell’in-giustizia quotidiana applicata nelle aule di tribunale dell’Italia post-fascista nella quale però, novant’anni dopo, era ancora del tutto in vigore il Codice Rocco.

Un’in-giustizia che dava ancora enormemente più peso – vent’anni dopo Genova – a una vetrina rotta che a una vita spezzata. Un’in-giustizia nella quale minorenni e giovanissimi potevano rischiare fino a 14 anni di carcere per “devastazione e saccheggio”, articolo del Codice Rocco, ça va sans dire, mentre l’uccisione di un sindacalista poteva essere derubricata a semplice incidente.

Senza contare che nell’Italia post-fascista degli anni ’20 si poteva finire in carcere per due anni – in carcere eh, non ai domiciliari – solo per aver parlato al megafono durante una manifestazione. Bastava poco. Bastava essere un’attivista NoTav, ad esempio, per far sì che molte delle garanzie offerte da uno stato di diritto venissero meno. Forse perché nelle impalcature giuridiche dei tribunali dell’Italia post-fascista più che uno stato di diritto cominciava a germinare una sorta di diritto penale del nemico.

Un tipo particolare di diritto – si scriveva tempo fa – differenziale, un binario parallelo che non distingue tanto tra i delitti (magari anche non commessi o semplici comportamenti) quanto piuttosto tra gli autori. Un diritto che separa il cittadino dal nemico (all’interno della stessa società e della stessa cittadinanza) e che vi riserva trattamenti molto diversi, che compie sostanzialmente una distinzione fondamentale tra il delinquente che conserva i suoi diritti e il «nemico» (feind) che li perde. Chi commette un reato verrebbe dunque trattato come persona titolare di diritti soltanto nella misura in cui esso rimanga in qualche modo «fedele all’ordinamento» al contrario, «chi non offre simile garanzia in modo credibile» perderebbe, di fatto, la sua qualifica di cittadino (bürger) e non potrebbe più pretendere di essere trattato come tale. Quest’ultimo sarebbe «il deviante in via di principio», cioè «colui che nega in via di principio la legittimità dell’ordinamento giuridico», intaccandone le fondamenta e, proprio per questo, non può più essere trattato come un cittadino, «ma deve essere combattuto come un nemico».

E tutto ciò lo si poteva osservare tanto nel trattamento istituzionale riservato agli omicidi dei sindacalisti quando all’ “inesauribile follia repressiva che manifestano gli apparati italiani” nei confronti dei reduci storico-politici degli anni ’70, della memori di quegli anni e della lotta di classe che l’aveva caratterizzata. Ma nell’Italia post-fascista cominciavano ad essere evidenti anche profonde cicatrici di “razza”; con “razza” intesa ovviamente come dispositivo biopolitico in grado di operare in termini molto materiali di un maggiore sfruttamento e una di discriminazione difficilmente sperimentabile da chi era nato con la pelle bianca, così come suggerivano molto banalmente anche i nomi e i volti dei sindacalisti ammazzati in Italia negli ultimi anni.

Linee del colore e del privilegio che non erano sfuggite al gruppo di ricercatrici e ricercatori firmatari dell’appello per Adil “Chi preme sull’acceleratore?”:

Nei mesi del lockdown anche le nostre vite sono interamente dipese dal lavoro di magazzinieri, spedizionieri e facchini che ci hanno consentito di fronteggiare l’emergenza rimanendo a casa. È il lavoro vivo delle donne e degli uomini impiegati nel settore della logistica ad aver infrastrutturato e consentito il trasferimento delle nostre attività quotidiane e la didattica a distanza dei nostri figli nelle abitazioni private e sulle piattaforme, sono loro ad aver rifornito i punti vendita della grande distribuzione alimentare. Ma la “ripartenza” alla quale stiamo assistendo sembra voler ricacciare nell’invisibilità queste lavoratrici e questi lavoratori, incastrarli in un sistema di appalti e subappalti che abbassa i salari, intensifica il lavoro, frammenta le lotte. E quando le lotte comunque si danno, il tentativo è quello di sedarle ricorrendo al reclutamento di picchiatori troppo spesso lasciati agire indisturbati, ai ricatti e ora all’omicidio. Quella che in questo modo si vorrebbe ripristinare è l’invisibilità di una forza lavoro spesso migrante che viene svalutata, sfruttata e deprezzata al punto da rendere alcune vite più sacrificabili di altre.

Linee del colore e un diritto penale del nemico che potevano essere seguite anche per la recente archiviazione per otto dei nove morti della strage del carcere di Sant’Anna. Lo stesso carcere nel quale, nel 2017, venne rinchiuso per pochi giorni anche il coordinatore nazionale del sindacato di Adil, Aldo Milani del SiCobas, a seguito di una vile e goffissima operazione di polizia tesa ad incastrarlo.

Chi si rivoltò all’interno delle carceri, in quei primi giorni di quel terribile marzo 2020, non rimase, agli occhi dello Stato, di certo «fedele all’ordinamento». Quanto piuttosto venne considerato «il deviante in via di principio», cioè «colui che nega in via di principio la legittimità dell’ordinamento giuridico», intaccandone le fondamenta e, proprio per questo, non può più essere trattato come un cittadino, «ma deve essere combattuto come un nemico». E che l’unico fascicolo rimasto ancora aperto per le vittime di quella strage appartenesse all’unico italiano del gruppo non era di certo un dettaglio né una coincidenza.

Una decisione – quella presa di recente dal gip Andrea Salvatore Romito il quale aveva accolto la richiesta di archiviazione delle indagini presentata dalla procura di Modena – che era già stata ampiamente anticipata dalle parole di Giovanni Iozzoli apparse su Carmilla il 7 giugno, lo stesso giorno dell’udienza davanti al giudice per le indagini preliminari:

Lo status delle vittime non merita troppi approfondimenti investigativi. In questo caso, continuando nelle metafore cimiteriali, potrebbe essere l’ufficio del Gip ad assumere un ruolo tombale: l’archiviazione diventa la definitiva rimozione dal dibattito pubblico di un evento scomodo ed eclatante e alla morte fisica segue la morte civile delle vittime e del senso del loro morire. Un rituale laico di purificazione, dal carattere quasi esorcistico: le lotte nelle carceri, come quelle nelle fabbriche e in qualsiasi altro luogo di questa società attonita e instupidita, vanno sepolte sotto terra e dimenticate in fretta.

Nel motivare l’archiviazione il giudice Adrea Romito era riuscito a scrivere queste parole: «la vicenda ha trovato compiuta ricostruzione» […] «nelle relazioni redatte dalla polizia penitenziaria e dalla squadra mobile della Questura». La quadra mobile della Questura di Modena era la stessa che nel 2017 incastrò Aldo Milani e, come aveva scritto la giornalista che più di tutti si era occupata della strage Sant’Anna, Lorenza Pleuteri (qua le tre puntate dell’inchiesta circa i dubbi e le contraddizioni sulle morti dell’8 marzo 1, 2, 3)

Il fascicolo, aperto e chiuso contro ignoti e per i reati di omicidio colposo e morte come conseguenza di altro delitto, andrà a prendere polvere sullo scaffale di un magazzino (salvo ricorsi accolti o incroci con l’inchiesta su pestaggi e abusi, ancora in itinere).Non ci saranno nuovi accertamenti immediati, dunque, per una strage carceraria senza precedenti. […] La colpa, è la conclusione del giudice, è solo e tutta loro. Non c’è nessuno da perseguire. Nemmeno per la fine di Hafedh, per cui il gip spende qualche parola in più, in una ordinanza che liquida tutto in tre paginette. Non solo. Secondo il gip, con una decisione destinata ad aggiungere critiche alle critiche, sia Antigone sia il Garante nazionale dei detenuti sono «soggetti privi della qualifica di persone offese in riferimento ai reati ipotizzati». Non hanno cioè voce in capitolo. E le argomentazioni da loro presentate per opporsi alla archiviazione, precise e puntuali, non sono state prese in considerazione.

Ovviamente l’archiviazione era stata applaudita subito dal sindacato di polizia penitenziaria Sappe, lo stesso che aveva denunciato Ilaria Cucchi per istigazione all’odio [sigh!] e che si era spinto fino al punto di chiedere addirittura l’abolizione della figura del garante dei detenuti. E la gravità della decisione presa dal gip Adrea Romito, messa nero su bianco in tre paginette scarse datate 16 giugno, la rilevavano le stesse parole di giubilo del Sappe:  

«Ciò che abbiamo ancor più apprezzato è il fatto che il Gip abbia dichiarato inammissibili gli atti per l’opposizione, presentati da Antigone e dal garante nazionale, poiché, scrive il Gip, “trattasi di soggetti privi della qualifica di persone offese, in riferimento ai reati ipotizzati. Possono anche sentirsi offesi, ma rimane un fatto personale, senza alcuna rilevanza giuridica. E’ un passaggio importantissimo, perché questi signori, spesso e volentieri contro la polizia penitenziaria, sono ormai come il prezzemolo in ogni minestra. Sono interventi anche nel giudizio di legittimità costituzionale, davanti alla Corte, rispetto all’abolizione dell’ergastolo ostativo. Qual è l’interesse dell’ufficio del garante, rispetto a tale questione? Riteniamo che questa figura andrebbe abolita, per quanto riguarda la competenza sulle persone detenute in carcere, già poste sotto la competenza del magistrato di sorveglianza.»

Erano ancora poche tuttavia le voci che si levavano contro l’archiviazione. A Modena il Comitato verità e giustizia per la strage del Sant’Anna aveva scritto in una nota:

Non si può archiviare così. Non è accettabile che una strage come quella del Sant’Anna venga liquidata in questa maniera, con tre paginette scarse e la volontà palese di mettere la parola “fine” sul “caso carcere”, così come l’ha definita vergognosamente una testata locale lanciando la notizia dell’archiviazione. Il “caso carcere”, 9 morti di cui 8 già archiviate dopo appena un anno da quanto accaduto. Una strage carceraria senza precedenti nella storia repubblicana e alcun paragone a livello europeo seppellita in fretta e furia. Otto vittime, tutte di origine straniera, per le quali verosimilmente non si saprà mai ciò che realmente è accaduto loro. E loro – delle vittime stesse – e di nessun’altro è la responsabilità della loro morte per il Tribunale di Modena che nella giornata di oggi è riuscito a scrivere, con questa decisione, una pagina nerissima non solo per la città ma per l’intero Paese. Rimangono la rabbia, il dolore e la consapevolezza che in Italia alcune vite valgono meno di zero, che la giustizia è una chimera e che lo Stato, quando vuole, ha totale licenza d’uccidere. Nell’avallare la richiesta d’archiviazione, oggi, il gip Andrea Salvatore Romito è riuscito ad affermare che sia Antigone sia il Garante nazionale dei detenuti sono «soggetti privi della qualifica di persone offese in riferimento ai reati ipotizzati» smentendo senza pudore decisioni analoghe ma di segno opposto prese da altri tribunali. Una volontà d’archiviare che sembra mossa esclusivamente dalla volontà di insabbiare. Come comitato riteniamo l’archiviazione di oggi non solo vergognosa ma anche pericolosa per la salute complessiva del Paese e delle sue istituzioni cosiddette “democratiche”. Proprio per questo continueremo a tenere vive le fiammelle della ricerca, della memoria e della verità su quella strage.

Come nel marzo scorso quelle morti sembravano non interessare a nessuno, eppure come per l’azione dell’acqua che scava la roccia, goccia dopo goccia…

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Causale: “per Adil Belakhdim, assassinato durante uno sciopero”

Adil Belakhdim