
Nonostante, da anni, il paese fosse affetto da un morbo subdolo chiamato “giustizialismo” era veramente difficile parlare di “giustizia” nell’Italia del 2021.
Di giustizia sociale, nel discorso pubblico ufficale, non si trovava praticamente più traccia. Nessuno nemmeno più l’utilizzava quel termine. Sembrava che nel paese ufficiale si potesse spacciare legalmente soltanto il suo peggiore surrogato: il “giustizialismo”, mentre di“giustizia”, tout court, ormai si parlava solo in termini di astrazione. Una parola con la quale si potevano richiamare solo concetti lontani, ultraterreni, distanti, molto distanti, dall’universo del quotidiano; oppure, molto più spesso, la si poteva utilizzare per certificarne l’assenza facendola precedere da quel prefisso sinonimo di privazione“in–”. In–giustizia.
Una condizione che era innanzitutto il prodotto di qualcosa di tremendamente materiale, frutto di una trentina d’anni di cura liberista che aveva letteralmente aumentato a dismisura la forbice delle disuguaglianze. Una forbice che, inevitabilmente, si rifletteva anche su tutto il resto.
L’Italia del 2021 era un paese nel quale si rispolverava addirittura il vecchio confino fascista per contrastare e intimidire i lavoratori che osavano scioperare per richiedere i propri diritti. A quello che, sulla carta, era ancora un diritto costituzionalmente garantito, lo Stato rispondeva ormai con denunce, arresti e fogli di via, arrivando addirittura fino a vietare ai lavoratori di protestare contro il proprio licenziamento. Un’escalation repressiva che cominciava a ripetersi con cadenza così regolare – fogli di via erano stati dati a Modena, Prato, Milano, Piacenza, Tortona, Napoli e chi più ne ha più ne metta – tanto da diventare ormai prassi.
Gli ultimi in ordine di tempo erano stati annunciati a mezzo stampa dalla Questura di Piacenza per uno sciopero davanti ai magazzini di Amazon in occasione dello sciopero generale dei sindacati di base dell’11 ottobre. Che le istituzioni di quella stessa provincia fossero balzate di recente agli onori delle cronache per la vicenda della caserma Levante (sei agenti della Questura– quattro in servizio da anni alla sezione narcotici della Squadra mobile, uno alla Digos e uno all’Immigrazione) e del presidente del consiglio comunale di Fratelli d’Italia condannato per n’drangheta, poteva sorprendere solo un paese non immerso fino alle ginocchia nell’in–giustizia quotidiana.




L’Italia del 2021 era quel paese dove, ogni fottuto giorno, di media, morivano tre persone al giorno sul posto di lavoro. A morire erano i lavoratori, persone che avrebbero dovuto godersi la pensione già da qualche anno o giovanissimi con contratti di appena una settimana. Forse era a quel genere di “rischio” quello a cui alludeva il Presidente Mattarella quando ammoniva, all’inaugurazione dell’anno accademico dell’università di Foggia, di“Chiedere ai giovani di impegnarsi, di non tirarsi indietro, di accettare il rischio e di mettersi in gioco”. “Siam pronti alla morte. Siam pronti alla morte. L’Italia chiamò, sì.”
L’Italia del 2021 era quel paese che taglia i fondi per pensioni e sussidi, che cancellava di colpo in bianco gli assegni di invalidità e che si rimangiava tutti i buoni propositi dettati dalla pandemia di più sanità (in dieci anni erano stati chiusi 173 ospedali e 837 strutture di assistenza specialistica, 276 erano le strutture di assistenza territoriale pubbliche in meno, a fronte di 2.459 private in più, e il personale dipendente del Servizio sanitario nazionale era diminuito di 42.380 unità), più istruzione, più trasporti pubblici, mentre aumentava enormemente le spese militari e lo shopping di armamenti.
Poi c’era la questione non proprio secondaria del Pnrr, con quella sigla che sembrava tutta agghindata in orbace, “Piano Nazionale Ripresa e Resilienza” quasi come una formula antica fatta passare per moderna grazie a una parolina magica “di successo, diventata gommosa”, “in un crescendo wagneriano e contraddittorio per cui si inneggia alla resilienza e al contempo alla rovina di una generazione perduta”.
E ad osservarlo da vicino, nel suo impatto sul territorio, questo Pnrr non c’era di certo da stare allegri.
Per Trento, ad esempio, il“Piano Nazionale Ripresa e Resilienza” prevedeva “il più grande progetto infrastrutturale della storia del Trentino”, quello cioé che “sotterraneamente”, veniva definito “circonvallazione ferroviaria di Trento”, un tunnel di 12 chilometri che in realtà non era altro che uno dei lotti funzionali alla realizzazione della linea ad Alta Velocità Verona-Brennero.
Un progetto che andava completato in fretta e furia entro il 2026, pena la perdita di 960 milioni di euro di finanziamento del Pnrr, ma del quale non c’era ancora uno straccio di progetto definitivo (o meglio, non era ancora disponibile) anche se erano già chiarissimi i termini del confronto “democratico” per l’approvazione (l’opzione zero non veniva nemmeno presa in considerazione come eventualità) della grande opera:“ci saranno 45 giorni per progettare il dibattito pubblico, poi 45 giorni di confronto”.
Un’opera che avrebbe “squarciato la città deturpandone l’assetto urbanistico per anni” senza la certezza che la nuova ferrovia ad Alta Velocità si collegasse realmente ad alcunché (l’entrata in funzione della Galleria di base del Brennero era appena slittata in avanti di 5 anni, dal 2026 al 2031 ed avevano cominciato a scavarla nel 2008). Tsè!
E per la città di Trent,o la Grande Opera avrebbe potuto rappresentare benissimo qualcosa di simile a quanto fatto negli anni trenta del ventesimo secolo dalla dittatura fascista, quando il regime decise di procedere allo «sventramento» del centro della città e del suo cuore medioevale. Il quartiere più antico della città scomparve così, “cancellato dal “piccone risanatore” del regime fascista” e che oggi riviveva soltanto come fantasma nel modo di dire dialettale“far en giro al sas”. In nome di un cosiddetto “risanamento”, allora, si cancellarono tanto edifici quanto relazioni umane, sparirono botteghe, calzolai, barbieri, osterie e i vecchi vicoli medievali della città vennero sostituiti da una piazza del Littorio (oggi Cesare Battisti) adatta solo alle parate e alle celebrazioni del regime; così come oggi, in nome di una cosiddetta“riqualificazione” o“rigenerazione urbana” si vorrebbe “squarciare la città e deturparne l’assetto urbanistico per anni”.
Città scippate letteralmente ai propri abitanti. Il tutto condito da un’opacità e una mancanza di trasparenza degne di un regime.
«Ogni volta che ci viene mostrato uno spizzico di progetto c’è un aumento delle preoccupazioni. Prendiamo la notizia degli immobili da demolire: prima erano 4, siamo poi saliti a 11 e adesso siamo a 15. E non si sa nemmeno quali siano» aveva commentato il presidente della circoscrizione Centro Storico Claudio Geat, così come dello stesso avviso era il suo omologo di Mattarello, Alessandro Nicolli: «Le persone non sanno cosa accadrà sopra alla propria testa, ed è evidente che hanno già deciso di fare l’infrastruttura, senza possibilità di confronto. Il presidente del consiglio Piccoli è stato eloquente con il suo “l’opera si farà”. E la frase è stata devastante per la democrazia».
E in un paese così non era più nemmeno necessaria una dittatura militare come quella che si installò in Cile, con un colpo di Stato, l’11 settembre del 1973 per imporre l’agenda neoliberale e le riforme economiche draconiane dettate dalle ricette dei cosiddetti“Chicago Boys”; gli economisti della scuola neoliberale americana, un cui esponenete, che fu anche ministro dell’economia durante la ditttatura di Pinochet, Pablo Barahona, riassunse alla perfezione in questa maniera: «Non ho dubbi che in Cile […] fosse necessario un governo autoritario – assolutamente autoritario – che attuasse le riforme». L’Italia del 2021, fortunatamente, era ben lontana dal regime criminale di Pinochet, anche se l’ideologia economica di fondo era la stessa. Tuttavia, non si poteva fare a meno di notare come anche l’avanzata democrazia capitalista italiana, svuotata dell’essenza, si stesse anch’essa piano piano spegnendo. Così, verso la fine di quell’anno, si poteva già assistere allo spettacolo di un Parlamento che plebiscitava unanimemente a favore del governo, mentre all’opposizione, solo formale, si erano già piazzati in esclusiva i post-fascisti fratellid’italia della Meloni e a votare ormai andava meno della metà della popolazione.
Senza contare che anche nel micro, laddove ancora si tentava di partecipare al gioco della“democrazia”, quest’ultima poteva semplicemente venire sospesa direttamente a favore di quei partiti che sostenevano, fedeli, il cosiddetto “sistema”. Era il caso di Bologna, del quartiere quartiere San Donato-San Vitale, dove alle ultime elezioni, qualche settimana fa, la lista di Potere al Popolo aveva preso più voti di Forza Italia ma era stata ugualmente la candidata di quest’ultima formazione ad essere proclamata eletta dagli uffici elettorali. Riflesso incondizionato, lapsus freudiano o vero e proprio dolo si trattava comunque di un fatto che, al di là delle retoriche – come aveva sottolineato molto bene l’ex candidata sindaco di Potere al Popolo – evidenziava quale fosse “lo stato della democrazia” in quella città e, di conseguenza, anche nel paese.
Dopotutto, anche quanto era accaduto nelle settimane immediatamente precedenti, in quelle giornate tanto dense quanto confuse fra l’assalto squadrista alla sede della Cgil di Roma del 9 ottobre, lo sciopero generale dei sindacati di base dell’11 e il blocco del porto di Trieste del 15 contro l’imposizione del lasciapassare verde era qualcosa di già visto (con le dovute differenze chiaramente: i socialisti non esistevano più così come i bolscevichi, nessuna rivoluzione aveva scosso il mondo di recente, forse l’unica era relegata ad un fazzoletto di terra in Medio Oriente circondata da nemici e terroristi, e fortunatamente le armi non erano così diffuse come allora) nella storia del paese.
Siamo nell’Italia del 1920, alla vigilia di importanti elezioni amministrative che si svolsero tra fine ottobre e l’inizio di novembre a poche settimane dalla strage di Palazzo d’Accursio.
Prima della guerra mondiale, Giolitti aveva l’abitudine di “manipolare” le elezioni parlamentari senza nessuno scrupolo e con pieno successo; egli pensò adesso che i fascisti gli sarebbero stati di aiuto per ridurre alla camera il numero di deputati del partito socialista. I fascisti erano ansiosi di “dare una lezione ai bolscevichi”: lasciamogliela dare dunque; una volta compiuta l’opera ci si poteva facilmente disfare dei fascisti […] Tutto quanto occorreva era di lasciare che questi capi militari equipaggiassero i fascisti con fucili, mitragliatrici, bombe e autocarri, e li mettessero sotto il comando di ufficiali in congedo e in licenza. Per quanto riguarda la polizia e la magistratura, era sufficiente che questi chiudessero un occhio sui disordini promossi dai fascisti e intervenissero soltanto quando si trattava di disarmare, processare e condannare chi cercava di opporre resistenza. […]
Un primo risultato dell’intesa tra Giolitti e i fascisti si vide a Trieste il 14 ottobre. Qui nel partito socialista prevalsero gli estremisti, che annunciaro un comizio di protesta in favore della Russia. […] La polizia vietò il comizio. Il quotidiano estremista Il Lavoratore invitò il proletariato a“scendere nelle strade contro il nemico.” Gli operai abbandonarono le fabbriche, e qua e là si ebbero scontri per le strade. I fascisti assaltarono la sede del Lavoratore e la distrussero appiccandovi il fuoco. La polizia si distinse per la propria assenza e come al solito lo sciopero generale fallì.*
“Fare di tutta l’erba un fascio”
Così come allora, anche oggi, se si fosse dovuto valutare il contesto politico dal racconto esclusivo che ne facevano i principali mass media, la “manipolazione” aveva avuto successo, avevano vinto i “moderati” che moderati non erano affatto, lo sciopero generale dei sindacati di base era stato di fatto oscurato e nel paese era tornata a calare la pace dei “competenti”, del “governo dei migliori”. Si poteva così proseguire nel fare regali alle aziende (con tagli delle tasse, defiscalizzazioni, investimenti infrastrutturali del tutto inutili come il Tav) a privatizzare e a demolire ulteriormente ciò che restava del welfare state e a protrarre ciò che di fatto era una guerra di una classe contro l’altra. Rimaneva soltanto da capire che tipo di paese sarebbe emerso da un periodo del genere e da un attacco senza precedenti alle condizioni materiali di milioni e milioni di lavoratori e se il principale sindacato italiano, percepito (al di là dell’attacco squadristico subito) dalla maggior parte dei lavoratori come un soggetto ormai “venduto” avrebbe proseguito o meno nel tacere sulla strada dell’immobilità e dell’acquiescenza col governo anche sul fronte dell’allungamento dell’età pensionabile e dall’ennesima contrazione del welfare.
Tutto questo però era quantomeno alla luce del sole. Era sufficiente volerlo vedere per accorgersene. Ciò che era più preoccupante semmai era che l’“in-giustizia” strutturale e materiale del paese cominciava a percolare nel profondo.
Questi tweet risalivano al 2016. A cinque anni di distanza, nell’Italia nella quale si parlava di“unità antifascista” governando con la Lega, molti processi di fermentazione stavano arrivando alla loro maturazione definitiva.
La condanna a 13 anni e 2 mesi a Domenico Lucano, più del doppio di quanto chiesto dai Pm, era un esempio lampante in questo senso. Un manifesto di Stato che ribadiva, ancora una volta e ufficialmente come l’Italia fosse un paese profondamente razzista, che ripudiava e reprimeva forocemente soltanto la solidarietà (altro che la guerra, per quella si potevano spendere tranquillamente 8.700 milioni di euro, come accaduto per quella fallimentare in Afghanistan, in barba alla Costituzione) lasciando sostanziale carta bianca alla violenza prevaricatrice e squadrista. Anche il recente assalto alla sede della Cgil di Roma, che di certo era stato un attacco squadrista con un obiettivo ben preciso e dichiarato ma che di violenza ne aveva sfogata poca poca visto che si era scagliata contro una sede vuota, non andava forse in quella direzione?
Ma anche dove questa violenza si manifestava fino alle estreme conseguenze l’atteggiamento dello Stato era eloquente. Sindacalisti assassinati e stragi archiviate puntellavano la cronaca recente,“linee del colore e un diritto penale del nemico che potevano essere seguite anche per la recente archiviazione per otto dei nove morti della strage del carcere di Sant’Anna”si scriveva solo qualche mese fa.
A questi indizi, tutti di per sé piuttosto significativi sullo stato di salute del paese, si doveva aggiungere quanto accaduto a luglio nella cittadina che rappresentava di più di tutte lo stereotipo dell’Italia piccolo-borghese, la cosiddetta“casalinga di Voghera”, un’espressione giornalistica che, dal dopoguerra, era diventata tanto sinonimo di “normalità” quanto sineddoche del paese.
E a Voghera l’omicidio di Youns El Boussettaoui ad opera dell’assessore leghista alla sicurezza di quella stessa città, Massimo Adriatici, era un fatto rimasto ai margini della cronaca politica nazionale, tra le calure estive e in alcun modo analizzato nella giusta prospettiva. Massimo Adriatici e i suoi colpi di pistola erano l’evoluzione istituzionale di Luca Traini (l’attentatore della strage di Macerata che nel febbraio del 2018 aveva sparato a sei migranti con l’aggravante dell’odio raziale e che era stato condannato dalla“giustizia” italiana ad una pena inferiore rispetto a quella combinata a Mimmo Lucano). Massimo Adriatici era la fermentazione di quel brodo di coltura di banalità, violenza e razzismo che era maturata fino a diventare “istituzionale”.

Martedì 20 luglio l’assessore, ex poliziotto, con deleghe “alla Sicurezza, Polizia Locale e Osservatorio Immigrazione” del comune di Voghera uccide a colpi di pistola Youns El Boussettaoui, 39enne con dei problemi, una moglie, un figlio e un padre residente a Novara. La vittima viene immediatamente descritta come un poco di buono che stava molestando una donna. Un po’ come le vittime di Macerata che non avevano fatto assolutamente niente ma che erano state raggiunte da dei colpi di pistola sparati per “vendicare” la morte di Pamela Mastropietro. «È stato ammazzato come un cane. Hanno detto che stava molestando una donna, ma lui non aveva mai fatto male a nessuno», aveva urlato di fronte alle telecamere una ragazza che lo conosceva davanti al bar dov’era stato ammazzato. Ovviamente nessuna donna era stata molestata dalla vittima, anzi, successivamente si scoprirà che era stata lo stesso Youns ad essere addirittura stato pedinato dall’ex poliziotto, assessore alla “sicurezza e all’osservatorio immigrazione” (deleghe che ricordavano un po’ le“squadre di protezione” di nazista memoria, “Schutzstaffel” o“SS”) per oltre una decina di minuti. Si scoprirà che qualche mese prima dell’omicidio la sindaca di Voghera, Paola Garlaschelli, in una chat della giunta con anche Adriatici, in riferimento ad alcune situazioni di ordine pubblico, aveva scritto: “Ma in tutto ciò il marocchino che chiedeva l’elemosina è annegato?”.
Altri frequentatori del bar La Versa, davanti al quale era avvenuto l’omicidio, descrivevano Youns El Boussettaoui, “il marocchino”, vittima dell’assessore come un «bravo ragazzo che chiedeva qualche soldo», «Un tempo lavorava, ha una moglie e un figlio e il padre a Novara. Nell’ultimo periodo stava in strada come senzatetto, soprattutto dopo che era morta sua madre» mentre dell’assessore si diceva: «aveva smesso di fare il poliziotto qui in città ma di fatto lo faceva ancora».
Il problema era che nell’Italia del 2021 se eri nato in Marocco, la tua vita vale meno di quella di un cane, per i media principali non avevi nemmeno un nome, ci vorra un po’ prima Youns El Boussettaoui e non solo esoltanto di un “marocchino di 39 anni“. Il problema era che in quell’Italia del 2021, per fascisti, notabili, politici e forze dell’ordine era in vigore, di fatto, un sorta di impunità quasi assoluta, quasi un’autorizzazione informale all’omicidio. Il problema, in quella fine di luglio, era che nessun media aveva ancora parlato esplicitamente di razzismo e che anche un omicidio rientrava ormai nella quotidianità del dibattito e della dialettica politica considerata “normale”.
E a leggere su quella chat – che trattava inevitabilmente di ciò che ormai veniva definito “decoro urbano”, dove ci si domandava “banalmente”se qualcuno era annegato così come ci si proponeva “banalmente” di “togliere le panchine“ per evitare che le persone ci bivaccassero sopra – tornavano in mente, come macigni, le parole del sindaco di Modena, Gian Carlo Muzzarelli, pronunciate a 30 ore di distanza dalla strage del carcere di Sant’Anna che, commentando la celere ripulitura dei muri della città, aveva detto che era stato “restituito il decoro e la dignità della città”, macchiata più da un paio di scritte sui muri che da nove morti. Allora la disgustosa assuefazione e la disumanizzazione operante a seguito dell’omicidio di Youns El Boussettaoui avevano la stessa origine e la stessa natura delle parole miserabili pronunciate dal sindaco di Modena dopo la strage del Sant’Anna.
E che dire del fatto che né i famigliari né il legale della famiglia di El Boussettaoui erano stati in alcun modo avvertiti dell’autopsia eseguita sul corpo di Youns. Non erano forse le stesse modalità (senza avvertire alcuna controparte) con le quali erano state eseguite anche le autopsie sulle vittime della strage del Sant’Anna? Non c’era un filo rosso che collegava le dinamiche di indagine su quest’omicidio a quanto era accaduto a quei 13 morti, vittime della rivolta nelle carceri del marzo precedente? E il testamento di quella strage e del sostanziale disinteresse pubblico che ne era seguito non cominciavano a debordare anche “fuori” da quei muri detentivi?
«Nessuno poi ha avvisato i famigliari dell’autopsia e questo è un fatto grave perché è un esame irripetibile. Abbiamo chiesto in procura le motivazioni per i quali non sono stati avvisati e il pubblico ministero ci ha detto che è stata una svista dei carabinieri.» aveva detto l’avvocato in un’intervista.
Ma le anomalie non erano di certo finite qua, perché la corrente alternata con la quale ormai si muoveva la macchina dalla“giustizia” italiana avrebbe riservato ben altre sorprese. Ad esempio, all’assessore leghista che a quanto pare giocava a fare lo sceriffo nella sua città, girando regolarmente armato di una rivoltella caricata con proiettili illegali “hollow point” cioé proiettili da guerra, era stato consentito pressoché di tutto. Se l’assassino non fosse stato un assessore leghista con deleghe “alla Sicurezza, Polizia Locale e Osservatorio Immigrazione”ed ex poliziotto, dopo aver sparato il colpo e ucciso Youns gli sarebbe stato consenti di continuare a girare sulla scena del delitto con la pistola ancora nelle mani? Perché questo è ciò che è avvenuto, Adriatici che non viene nemmeno disarmato dai carabinieri e si permette, il tutto davanti ai loro occhi, di minacciare e intimidire i testimoni con la pistola ancora in mano. C’è un video che lo testimonia e, ad affermarlo, è Marco Romagnoli uno legale della famiglia El Boussettaui: «Osservando le immagini che emergono da quest’ultimo video si rimane davvero senza parole. In primo luogo c’è un soggetto indagato che ha appena sparato a una persona e i carabinieri, senza ammanettarlo, gli consentono di passeggiare lungo la scena del crimine, di modificare potenzialmente elementi utili alla ricostruzione delle indagini: parla con i carabinieri come se nulla fosse successo, influenza palesemente il ricordo di un testimone». Immagini che avevano provocato anche la dura reazione dell’altra legale della famiglia, Debora Piazza: «Che vergogna vedere un indagato all’interno di una scena del crimine che la gestisce come meglio crede. Non solo parla con gli operanti come se fosse lui il capo, ma si avvicina anche ad un testimone oculare e gli dice quello che deve dire. Il tutto con il mio assistito sdraiato a terra appena attinto da un colpo di pistola che si sta lamentando, perché si sentono i lamenti nel video, mentre a breve morirà. L’unica cosa che posso dire è che schifo».
E se a sparare fosse stato chi si chiamava Youns El Boussettaoui e non un ex poliziotto-assessore-leghista con deleghe “alla Sicurezza, Polizia Locale e Osservatorio Immigrazione” le forze dell’ordine si sarebbero comportate alla stessa maniera, non disarmando nemmeno l’omicida, oppure avrebbero sparato direttamente senza fare troppe domande? E la magistratura in questo caso avrebbe inquisito Youns El Boussettaoui di “eccesso colposo di legittima difesa” come per Adriatici consentendogli un paio di mesi ai domiciliari per poi, a chiusura della prima fase giudiziaria, consentirgli la libertà o l’avrebbe sbattuto senza dubbio alcuno in carcere con ben altra tipologia accuse?
E che fine avevano fatto le immagini della telecamera di vidosorveglianza che avrebbero dovuto riprendere tutta la scena dell’omicidio, si domandava indirettamente anche Giuliano Santoro su il manifesto:
“Lì si trova una telecamera di sorveglianza, installata proprio dal comune in cima ad un palo della luce. Sarebbe di quelle che funzionano «a occhio di pesce», il cui campo di inquadratura è largo cioè 360 gradi. Fin dal primo giorno Debora Piazza e Marco Romagnoli, i due avvocati che difendono gli interessi della famiglia di El Boussettaoui, chiedono che il materiale prodotto da quella telecamera possa essere acquisito agli atti. O in alternativa chiedono di poter verificare lo stato dello strumento. Dalla procura però si è detto in un primo momento che l’obiettivo non ha funzionato. Forse perché sporco di pece o fuliggine. Forse perché ostruito da resina di alberi. Di fronte alla fotografia prodotta dai legali che evidenzia come la telecamera appaia pulita, dapprima è stato loro risposto che era stata ripristinata in un secondo momento, subito dopo l’omicidio. Poi che l’apparecchio non ha funzionato perché pieno di acqua. Allora gli avvocati sono andati a vedere lo storico del meteo di quei giorni di luglio e hanno scoperto che quella sera non pioveva da giorni. Non è l’unico mistero. Altri, che potrebbero coinvolgere anche altre persone, potrebbero venir fuori nei prossimi giorni. A partire da quando, alla fine del mese scadranno i sessanta giorni concessi dal giudice per la chiusura delle indagini e si procederà con l’iter. Sperando che la procura di Pavia non si trasformi in un porto delle nebbie”.
E le immagini mancanti erano anche quelle che avevano consentito alla Procura di Modena di archiaviare in fretta e furia le inagini sulla morte di 8 dei 9 detenuti morti nella strage del carcere di Sant’Anna.




Certo, a Modena allora l’impianto di videosorveglianza era andato distrutto, si disse, ma tutto l’impianto? Anche quello delle telecamere che riprendevano l’area esterna? Possibile che non ci fossero immagini dei cortili esterni, ad esempio, quelli dove la maggior parte dei testimoni denunciava pestaggi indiscriminati? E se era veramente così come mai il settimanale L’Espresso era“in grado di dimostrare l’esistenza di documentazione in cui si fa esplicito riferimento alla presenza di filmati delle videocamere interne”:
“In un’informativa del 21 luglio 2020, il Comandante di reparto dirigente aggiunto della polizia penitenziaria, M.P, rimette alla procura di Modena una nota preliminare riassuntiva dei risultati investigativi sino ad allora espletati sui reati commessi dai detenuti, in aggiunta ad allegati su supporto dvd. Affermando inoltre che “sarà possibile perfezionare l’informativa una volta completata la delegata analisi dei filmati del circuito di video-sorveglianza interno”. A questo si aggiunge il rimando presente nella richiesta di archiviazione, dove, nel ricostruire la morte di Athur Iuzu, si afferma che dei soccorsi prestati vi è traccia in un’annotazione “in cui vengono descritti gli esiti della visione dei diversi filmati relativi alla rivolta acquisiti nell’immediatezza dei fatti”. Interpellata da L’Espresso sul punto, la procura di Modena, guidata dal neo-insediato Luca Masini, non ha fornito risposta.”
Fin da subito era chiaro che la veridicità o meno dell’effettiva distruzione completa dell’impianto di videosorveglianza in quei giorni sarebbe sicuramente venuta a galla durante i processi ai detenuti considerati responsabili della rivolta. Processi di cui, a Modena, non si sapeva praticamente nulla.
“Il carcere è l’armadio in cui il potere, lo stato, il mercato, il capitale nascondono i propri scheletri. Viviamo in un mondo pieno di solitudine dove uno può morire solo e nessuno se ne accorge”
Nicoletta Dosio, 26 ottobre 2021
Che le vite in Italia avessero pesi specifici differenti lo si sapeva, che la forbice tra questi pesi però cominciasse a pendere così tanto spudoratamente a favore di una sostanziale ingiudicabilità da un lato e a far salire, dall’altro, il braccio della bilancia verso una così ampia e “normale” disumanizzazione delle vittime era un dato che non poteva più essere sottovalutato.
«C’è solo una motivazione pronunciabile, la bancarotta, se non dell’intero sistema della giustizia, quantomeno del tribunale di Viterbo» aveva denunciato recentemente Stefano Anastasia dopo la decisione di un gip di fissare a quattro anni di distanza la decisione di archiviare o meno un procedimento penale relativo al suicidio (dubbio) di un detenuto.

“Hassan Sharaf è morto suicida nel carcere di Viterbo nel 2018. Si è tolto la vita impiccandosi nella cella d’isolamento dove si trovava da due ore. Il 9 settembre, nemmeno due mesi dopo, sarebbe tornato in libertà. Al Garante dei detenuti in visita al carcere aveva dichiarato di aver paura di morire, mentre all’avvocata Simona Filippi aveva raccontato di essere stato picchiato dalle guardie penitenziarie, mostrando segni di percosse in diversi punti del corpo. Sul caso della morte di Sharaf, il Garante Stefano Anastasia aveva presentato immediatamente un esposto. Sul caso era stato aperto un fascicolo per istigazione al suicidio: Hassan, infatti, sarebbe stato preso a schiaffi da due agenti prima di essere trasferito in cella d’isolamento. Poi, la richiesta di archiviazione da parte della Procura, cui la famiglia del 21enne si è opposta con tutte le sue forze. Adesso, tre anni dopo quel suicidio, la notizia che l’udienza contro l’archiviazione del caso è stata fissata al 2024.” da fanpage

Il paese reale era ormai questo, quello dove la vita di un ventunenne valeva a malapena il costo delle carte e dei timbri del tribunale, se faceva di nome Hassan, mentre la vita di un assassino, ex poliziotto-assessore alla sicurezza-leghista, da 130.000 euro di reddito annuo, valeva la “sorveglianza dinamica delle forze dell’ordine” che gli era stata fornita su “decisione del Ministero dell’Interno nel timore di «azioni dimostrative», ritorsioni e vendette.”
In un paese così, allora, dove erano le vite stesse quelle che cominciavano ad avere, tanto di fatto quanto giuridicamente, pesi specifici così differenti era veramente così semplice potersi dichiarare tranquillamente antifascisti? O quando tutto questo era ormai diventato “normalità” forse era un po’ troppo tardi per la solita ricetta del «meno peggio» che ci aveva già condotti direttamente al «peggio»?
Sicuramente il tipo di paese che sarebbe emerso da un periodo come quello che si stava vivendo sarebbe stato forgiato più dalla materialità e dall’impellenza delle rivendicazioni che stavano ribollendo confusamente all’interno del corpo sociale, piuttosto che dalle “piccole” ferite di “ingiustizia” quotidiana che ne riempivano la cronaca. Però, forse, se si volevano cercare effettivamente delle coordinate del momento storico che si stava abitando, probabilmente anche a quelle storie si sarebbe dovuto prestare maggiore attenzione.
* Gaetano Salvemini – Le origini del fascismo in Italia Lezioni di Harvard – Feltrinelli 2015 –
Posted on 27 ottobre 2021
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