#mobastacemento. Film sulla città neoliberista.

Posted on 19 settembre 2017

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Prologo
Campo lunghissimo.

Scrive David Harvey: “Un treno ad alta velocità fra Shangai e Pechino serve alla comunità degli affari e alla borghesia medio-alta, ma non rappresenta un sistema di trasporto economico che possa riportare a casa per il capodanno cinese i lavoratori provenienti dalle campagne. Allo stesso modo, grattacieli ad uso abitativo, comunità recintate, campi da golf per i ricchi e centri commerciali di lusso non aiutano certo a ricostituire una vita quotidiana dignitosa per le masse impoverite. Lo stesso problema si pone in India così come nelle innumerevoli città del mondo in cui si trovano grandi raggruppamenti di popolazioni marginalizzate, dalle periferie irrequiete di Parigi ai movimenti sociali che agitano l’Argentina, il Sudafrica e tutto il Maghreb. Il come affrontare la questione dei lavoratori impoveriti, precari ed emarginati, che ora costituiscono il blocco maggioritario e probabilmente più rappresentativo della forza lavoro in molte città capitaliste, potrebbe diventare (e in parte lo è già) un grosso problema politico, tanto che la politica militare in questo momento è focalizzata sui turbolenti e potenzialmente rivoluzionari movimenti urbani.” *


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Proveniamo da un estate nella quale i cambiamenti climatici si sono fatti intellegibili. Roghi, siccità, acqua razionata in varie parti del Paese, piogge torrenziali e alluvioni tragiche come nel recente caso di Livorno dove i morti sono stati nove. Abitiamo città insicure, vulnerabili, ambienti che mutano rapidamente e che fatichiamo a definire “nostri”, luoghi insalubri, pericolosi. A Modena, ad esempio, la qualità dell’aria che respiriamo (tossica) è ai livelli di Pechino ma la faccenda sembra destare comunque minore scalpore e discussione rispetto a qualche abitante che si riposa in un parco o su una panchina. Lo chiamano “degrado” ed è il metro su cui si tara il verbo della politica di questi tempi meschini. 22 Gríma Vermilinguo is in the house con parole velenose che hanno già prodotto città grigie, sospettose e tendenzialmente pericolose. Un assaggio della follia che ha appestato il cuore delle nostre città è ben riassunto da quanto accaduto recentemente a Roma.  In una capitale in piena crisi idrica gli idranti della polizia venivano azionati per cacciare le persone da Piazza Indipendenza (operazione di cleaning la definirà il Prefetto di Roma, Paola Basilone) dopo averle già sgomberate dallo stabile di via Curtatone. O ancora, in una Firenze di fine maggio, quel gran genio del sindaco Nardella decide bene che l’acqua vada impiegata per scacciare le persone dai sagrati delle chiese e dai monumenti.

expoLa città contemporanea è sempre più caratterizzata dallo iato che intercorre tra una sua ipotetica sostenibilità e gli interessi che la governano. Opere che si gonfiano come bolle finanziarie, che saranno già morte alla nascita o che rilasceranno dietro di sé un olezzo di corruzione decisamente penetrante. (Fatevi una gita al cantiere Tav di Chiomonte circondato da militari e filo spinato tanto per fare un esempio prototipico). Da Atene a São Paulo fino a Milano è sempre lo stesso copione che si ripete. Marchio di fabbrica di un ingranaggio che può essere osservato tranquillamente anche in provincia.

Il recente restyling della piazza principale di Tirana ad esempio, che ci è capitato di osservare ultimamente, assomiglia in maniera impressionante all’operazione già subita in città dall’ex parco Novi Sad, oggi Novi Park, con garage interrati e un nuovo look che ricorda da vicino quei localini che ogni tanto cambiano arredamento per restare attaccati al gusto del momento.

La speranza, in questo caso, per gli amici albanesi è che tutta l’operazione si discosti dal percorso di drenaggio finanziario avvenuto a Modena e non si riveli un grosso danno per le casse della collettività. Difficile anche solo immaginarla questa prospettiva. Lo spazio pubblico è ormai diventato una merce come tutte le altre, pronta ad essere venduta sul mercato al miglior offerente. Non solo, il processo semantico che si mette in moto per accendere queste ristrutturazioni urbane ha spesso caratteristiche simili. Si pesca direttamente dal linguaggio proprio del cittadinismo, che qualche contatto con la realtà lo detiene ancora, per poi stravolgerne il messaggio ed utilizzarlo per i propri scopi. Passato il verbo anche la contraddizione risulta meno evidente. Così si può costruire un parcheggio interrato sotto un parco motivandolo come intervento per la riduzione del traffico cittadino (un parcheggio?), l’allargamento di un’autostrada come un operazione essenzialmente green o la costruzione di nuove palazzine come parte integrante dell’impegno ad un consumo di suolo pari allo zero! Provate a dare uno sguardo all’inchiesta sul Passante di Bologna di Wu Ming e Wolf Bukowski, uscita su Internazionale in tre puntate (qua, qua e qua) per capire a modo le sfumature di certi meccanismi.1 Riprendiamo dallo scorso novembre: Il Comune di Modena sembra diventato una porta girevole esclusiva per interessi privati particolari ai quali appare indirizzata tutta l’attenzione che invece dovrebbe essere riservata alla collettività. Abbiamo di tutto: dalle concessioni che si allungano per motivi di bilancio privati alle salatissime mostre per le quali il denaro pubblico prende la via diretta dei finanziatori della campagna elettorale del sig. Muzzarelli. In fin dei conti è lo spazio urbano quello che ci stanno ridisegnando attorno solamente che, come realtà sociali, non siamo più previsti nel progetto. 

Sembrerebbe che certi progetti – vedi la costruzione delle nuove palazzine in zona Vacilio, che è poi lo sfondo principale di questi appunti – fossero rimasti congelati in un cassetto in attesa del momento più opportuno per mostrarsi. Forse il megaconcerto del Modena Park ha fornito alla giunta modenese quel capitale politico sufficiente a effettuare il tentativo. Eppure non tutto quadra esattamente nell’immagine da vetrina che vorrebbero spacciarci per “città” e le parole del sindaco, in questo senso, assomigliano di più a una minaccia involontaria che alla sua proverbiale arroganza; da Senza QuartiereInsomma è proprio vero, prendendo in prestito le parole del “primo cittadino” rivolte a un giornalista dell’AGI immediatamente successive al megaevento Modena Park a proposito del “Modello Modena” e della perfetta pianificazione che ha portato al buon esito finale:

Qui si parla di un motore che sarà pure a diesel ma quando si mette in moto non ne ha per nessuno”. 

Questa è la fantastica immagine della città dei motori, del bel canto e del duro lavoro. Questo è ciò che quotidianamente leggiamo sui giornali locali e di cui ascoltiamo le prodezze nei programmi radiotelevisivi. Ora però un paio di domande nascono spontanee, perché se tutto viene pianificato con scrupolosa precisione sorgono comitati cittadini che mettono costantemente in discussione i progetti urbanistici del Comune? Come può una città costruita a misura d’uomo essere la prima città in Italia (e per questo soprannominata capitale) in tema di sfratti per morosità? Come possono esserci lavoratori e lavoratrici che da circa un anno bloccano i magazzini delle ditte per cui lavorano denunciando il trattamento schiavistico che riserva loro il ‘meraviglioso’ mondo delle cooperative locali? Come può esserci una forbice sociale che lentamente si sta allargando creando diseguaglianza e precarietà?

Dopotutto basterebbe interrogarsi circa “la questione abitativa” a Modena nel suo complesso per capire esattamente che interessi particolari servano progetti di questo genere. DASMgSrWAAEyXzF In una città in cui un’abitazione su cinque è vuota (parliamo di circa 17mila case vuote tra Modena e provincia) e questo dato convive contemporaneamente con il poco gradevole titolo di “capitale italiana di sfratti e pignoramenti”, costruire altri 550 appartamenti, non di edilizia popolare, come è stata costretta a sottolineare recentemente l’assessore Vandelli, ma destinati ad un’ipotetica classe media è un affronto non solo alla decenza ma anche all’intelligenza.

“La domanda riguardo a che tipo di città vogliamo non può essere separata dalla domanda circa che genere di persone vogliamo essere, quali tipi di relazioni sociali ricerchiamo, quali relazioni con la natura apprezziamo, quale stile di vita desideriamo o quali valori estetici coltiviamo”.
David Harvey

La città immaginata da “questa gente qua”, che forse non è nemmeno stata immaginata ma “sputata fuori” come il risultato di interessi specifici di costruttori, cooperative e piccoli potentati locali, che l’hanno plasmata a loro piacimento e piegata al loro unico volere, altro non è che un deserto borghese fatto di centri commerciali, di poli culturali semivuoti presto riconvertiti a discount. È la città che si meritano e che avranno a misura di una borghesia fantasma ormai riconducibile esclusivamente a mera ambizione per masse sempre più sfruttate, frustrate, divise e incattivite. Un ambiente insostenibile.


Fuori campo. Bologna, la porta accanto. 

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“Mentre qualcuno vuole trasformare Bologna in una specie di boutique per foodie, XM24 e la scena locale lottano per restare nel mondo reale.”

Nei primi anni del millennio Bologna aveva un certo numero di luoghi occupati e autogestiti. C’era, ad esempio, il Bartleby: un collettivo studentesco occupava un grosso edificio in disuso in via San Petronio Vecchio, una storica via cittadina che incontra via Zamboni. Al Bartleby ci passavi le serate, ascoltando musica all’interno del cortile e chiacchierando e scambiando opinioni con le matricole o i ragazzi più grandi. Le tipiche cose che si facevano a Bologna, e la bellezza stava nel sentirsi importanti quando si era davvero ingenui. Poi c’era Atlantide, una roba strana che si trovava in Porta Santo Stefano. Bologna è circondata da porte medievali costruite verso il XIII secolo e attraversate dalle tipiche mura difensive che tanto andavano di moda ai tempi. Negli anni le mura si sono perdute ma sono rimaste in piedi le porte e i loro casseri, e i due casseri di Santo Stefano furono trasformati, tra le varie cose, in un bagno pubblico, una sede dei vigili urbani, una sezione di quartiere del Partito Socialista, una sede di un circolo anarchico. Agli inizi dei Duemila ci fu l’invasione di un manipolo di punk, queer, freak, anarchici. Luogo di politica attiva, la politica della strada, quella dei diritti inevitabili. Per me Atlantide era il luogo nel quale poteva finire che una domenica pomeriggio ti ritrovavi nel mezzo di un concerto di una band come i Dope Body. Non sono mai stato attivo politicamente, ho vissuto l’Atlantide come molti, approfittando cioè delle band della madonna che gli organizzatori portavano da quelle parti.

Succede che verso il 2010 una parte dei residenti della zona, probabilmente un culto di non-morti tenuto in piedi da un necromante leghista (o piddino) vede nell’Atlantide Occupata un virus da estirpare. Seguono cinque anni di tira e molla, finché un giorno non si presenta la polizia armata di cazzuola, malta e mattoni: è il 9 ottobre 2015 e la porta di Atlantide si trasforma in un muro. Non si è mai capito bene in nome di cosa mandarono avanti la loro battaglia, lo chiamano decoro. La notizia veste a lutto opinione pubblica e stampa in Italia e all’estero. Oggi in Porta Santo Stefano le cose più decorose che si possono trovare, oltre l’inevitabile silenzio, sono centinaia di blatte che si drogano di smog e rifiuti a onorare le parole del sindaco, Virginio Merola, che definì lo sgombero di quei fatidici giorni “un esempio” per il futuro. In effetti si tratta di un fulgido esempio di quartiere dormitorio, non-luogo nel quale puoi avvelenarti gli occhi e la mente con la televisione in santa pace tra le mura della cucina. Un luogo nel quale la musica al massimo la si guarda durante i provini dei talent show dopo cena. Nel 2013 anche il Bartleby viene sgomberato e poi murato, se ne fa carico l’Università, desiderosa di riappropriarsi dei suoi luoghi: manganellate celerine da una parte, uova marce che volavano dall’altra. La storia finisce con il Comune che riempie di mattoni e fantasmi l’edificio di via San Petronio Vecchio. Un’altra vittoria per le blatte. Nel giro di due anni la comunità dei non-morti si accresce. In realtà solo a livello mediatico, tenuta in piedi da logorroiche televisioni regionali e un quotidiano bolognese che si è dimenticato di fare giornalismo, del quale non faccio il nome, ma che potete intuire quale sia: una sorta di organo del partito del decoro.

A Bologna si sogna una città nuova: una stazione ferroviaria d’acciaio luccicante, metropolitane alla luce del sole che collegano le periferie, creare un campus universitario in stile ‘mmeriga. Sono davvero dei sogni, perché per il più delle volte i progetti falliscono miseramente. Nel mentre, locali storici sono costretti a chiudere a causa di una totale scollatura tra ordinanze comunali ed esigenze commerciali.

Da: Come il punk hardcore ci salverà dalla gentrificazione.

Ricorda qualcosa? Novi Park ed Ex Manifattura Tabacchi proviamo a suggerire….


Figura intera. Mr. Degrado mesdames et messieurs!

21371346_1824188660932620_7783702284731409081_nBastava attendere e ci si sarebbe arrivati naturalmente. Era nell’ordine delle cose. Il mantra della sicurezza e del degrado pompato a reti unificate a qualsiasi ora del giorno e della notte sarebbe, prima o poi, stato utilizzato per giustificare qualunque cosa, persino tacciare di essere responsabili del “declino” e del “degrado” della città per la semplice opposizione all’edificazione di nuovi alloggi. “Avrete notato che lo schema è piuttosto spudorato: chi è contrario alla costruzione delle nuove case diventa complice del degrado e dell’insicurezza. Perché da una parte ci sarebbero l’immobilismo e la conservazione, mentre dall’altra uno sviluppo che per qualche ragione concorre a risolvere gli stessi problemi di cui si occupa la Polizia Municipale. Poco ci mancava che il sindaco mobilitasse a favore dei nuovi quartieri anche la cronaca delle violenze sessuali che negli ultimi giorni hanno comprensibilmente occupato le prime pagine dei giornali e dei notiziari, ma non ci vuole un detective a scorgerla nell’interlinea. Così, con il vento dell’insicurezza e del degrado nelle vele, le operazioni speculative che il nostro gruppo sta tentando di contrastare si trasformano improvvisamente in una politica necessaria e responsabile, resa ancora più urgente dai fatti di cronaca.” Da qua.

Ma come funziona dunque la faccenda?

Negli ultimi mesi sentiamo spesso parlare di “degrado”. Si parla di edifici vuoti occupati abusivamente, sottopassi riadattati a giacigli di fortuna, persone che bivaccano nei luoghi pubblici, che fanno capannello, d’estate fino a tardi, nelle piazze e sulle panchine; si parla di stazioni dei treni adattati a dormitori, binari e marciapiedi che diventano sede di ogni commercio, legale e illegale, di corpi, di sostanze e di prestazioni. Quando vanno via il posto è sporco. IMG_20170918_155638 L’attenzione si accende particolarmente in occasione di comportamenti specifici, che colorano di azione la categoria di degrado: il bivacco, la mendicità, in special modo se “molesta”, il consumo di birra sulle panchine dei parchi, l’urina sugli alberi e tra i bidoni, fino agli schiamazzi, lo spaccio, le risse. I protagonisti sono gli stranieri di arrivo recente e i rom; infatti degrado, in termini sociali, è un tema che viene immediatamente riferito alla presenza di “stranieri” nei territori di cui si parla, che siano i parchi, le strade, gli edifici vuoti, i quartieri, le piazze; la questione si intensifica laddove ci sono rivenditori “etnici”, che in realtà non hanno molto di etnico tranne il fatto di essere attività di imprenditori stranieri e soprattutto di vendere birre a 1€, mentre nei posti che non creano degrado le birre ne costano 5.

FB_IMG_1505798129653Quando si inizia a parlare di degrado, tutti i giornali rincorrono la notizia. Come agenti della buoncostume, tutti i giornalisti danno ampia rilevanza ad ogni caso segnalato. I cittadini che si oppongono al degrado vengono lusingati dall’attenzione dei media. I politici dicono che al degrado si risponde aumentando la sicurezza. Sicurezza significa intensificazione della sorveglianza, telecamere, repressione del crimine, aumento degli organici delle forze dell’ordine, nuove leggi che permettono di multare i mendicanti o di cacciarli dalla città per qualche giorno. Il concetto di degrado potrebbe anche non esaurire in modo così semplice la sua lettura. I cittadini che lamentano il degrado potrebbero lamentarsi della mancanza di investimenti pubblici per la manutenzione delle strade e del verde, di una programmazione delle attività economiche e che permetta di rivitalizzare socialmente e culturalmente i quartieri. Potrebbero lamentare l’assenza o la scarsità di servizi. Tutte queste possibilità sarebbero contemplate nel concetto astratto di “degrado”; molte cose possono infatti degradarsi: il tessuto relazionale di una comunità, l’andamento dei risparmi dei piccoli proprietari immobiliari, il rapporto tra cittadini e istituzioni. Invece qui vorremmo far notare che il concetto di degrado è al centro di un uso che ne valorizza alcuni aspetti e ne oscura altri. Si tratta di un’operazione, condotta da chi ha maggiore potere nella distribuzione di risorse in città, che trova appoggio da parte degli organi di informazione e permea il grande gruppo di funzionari del consenso che lavorano negli uffici, nei servizi e nelle questure.

FB_IMG_1490167661054La prima operazione che si opera attraverso il concetto di “degrado” è quella di legare, in un unico nodo scorsoio, dei comportamenti, dei soggetti e dei luoghi. Il “degrado” è infatti necessariamente spazializzato: riguarda luoghi “pubblici” o luoghi in cui in generale tutti possono passare, vedere o in qualche modo “accedere”. Poi permette di fare riferimento a un preciso gruppo di persone senza indicare esplicitamente la caratteristica che li fa rientrare in una categoria comune. Cioè il problema non è che sono “stranieri” (altrimenti saremmo razzisti) ma che “creano degrado”. Poi ci sono i comportamenti, che sono in generale i comportamenti dei poveri. Come comprare cose che costano poco, passare il tempo libero in luoghi in cui non si paga per stare, svolgere prestazioni in ambiti di economia illegale o ai margini della legalità, sono le cose che fanno coloro che non hanno altre possibilità di raggiungere determinati obiettivi in altro modo. Scambiarsi beni e prestazioni voluttuarie, aggregarsi per passare il tempo libero, svolgere attività che permettano di arrotondare il reddito, rinsaldare la propria rete sociale, sono tutte categorie interpretative con cui possiamo guardare ai comportamenti “che creano degrado”, se teniamo in considerazione che a metterli in atto sono persone povere. Passare le notti d’estate sulle panchine a bere birre che costano 1 euro con gli amici assume un significativo aspetto di “scelta razionale” se consideriamo che l’alternativa è, per i più fortunati, tornare a dormire in case sovraffollate e umide, con gli impianti idraulici rifatti l’ultima volta negli anni ’60 e le zanzare.

Ma il concetto di degrado, all’interno di questa operazione, di cui alla fine arriveremo a capire il senso, permette di oscurare la questione della povertà e di riassumere tutti i comportamenti dei poveri dentro una categoria che dà ad essi una particolare visibilità: si tratta di atteggiamenti “morali”. Il “creare degrado” non è una situazione oggettiva ma un’azione. Un’azione di cui si vuole far intendere il carattere riprovevole. Se sei povero, infatti, è preferibile che tu non sia “visibile”, cioè che non adotti comportamenti che suscitano scandalo. Dei poveri infatti spesso si loda la “dignità”, la “riservatezza”, il senso di vergogna sommessa con cui vanno a chiedere aiuto alle parrocchie. Chi invece, nella condizione di povero, semplicemente “vive”, crea degrado. E’ già inevitabile che una certa parte di questi comportamenti sia nell’illegalità: la proprietà privata e i diritti ad essa connessi sono i primi a fare le spese delle spinte acquisitive di un povero.

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La sinistr-ahahahah a Modena!!

La battaglia in cui è impegnata oggi la politica è quella di ampliare questa fascia di illegalità, far coincidere la riprovazione morale nei confronti del degrado con l’illegalità da reprimere (e quindi le ordinanze, i DASPO, la repressione del crimine). Si ottiene un primo importante risultato: non è più in gioco la responsabilità politica di affrontare la povertà ma soprattutto di incidere su quei fattori processuali che legano la povertà alle condotte che chi vive in povertà mette in atto per sopravvivere. Per fare un esempio prendiamo un modo affine, quello della tossicodipendenza. Quando l’approccio sociale e medico nei confronti della tossicodipendenza era più aperto, le politiche pubbliche non erano impostate sulla “guerra alla droga”, ma sulla riduzione del danno. Si puntava ad intervenire, cioè, sulla dipendenza come un problema sanitario, con risvolti sociali, e non sul consumo come un crimine. Poi si è passati alla guerra alla droga, riempiendo le galere di poveri malati e, in definitiva, non incidendo affatto sul problema. Colpire i comportamenti dei poveri ha lo stesso effetto rispetto alla povertà.


Dissolvenza. da Mr. Degrado alla Gentrification.

“Il ruolo dello Stato e delle istituzioni locali in questo processo ha un doppio viso. Da una parte è caratterizzato da un generale laissez faire di facciata di fronte alla trasfigurazione di intere porzioni di territorio in quartieri della movida, ruolo minimale continuamente contraddetto da iniezioni di fondi nel mercato immobiliare e agevolazioni all’iniziativa privata (ad esempio con la liberalizzazione delle licenze). Dall’altra si presenta attraverso una sistematica e capillare opera di controllo e repressione, agita tramite le forze dell’ordine ma, specialmente, con una nuova normativa dal chiaro carattere securitario, mirante a eliminare tutte quelle situazioni che non rientrano nella “vita economica” prevista per il territorio in questione: occupazioni abitative, senza-tetto, graffiti, iniziative di socialità non autorizzate in spazi pubblici, tutte le situazioni ritenute contrarie al “decoro” – una parola, non un concetto, che fa ormai parte dell’arsenale tecnopolitico della governance – e che si pensa minino la costruzione di un’immagine di quartiere appetibile per i nuovi cittadini che si cerca di attrarre. È la territorializzazione dello stato d’eccezione.” Da qua.

Ma che cos’è questa povertà? Chi sono quelle persone di cui “gli stranieri che creano degrado” funzionano come una terribile sineddoche? 70.000 famiglie sotto la soglia di povertà in Emilia Romagna (dati Università di Modena e Reggio Emilia) vale a dire con un reddito medio annuo inferiore a 6.630 euro. Un mercato degli affitti che espelle continuamente famiglie: molte agenzie immobiliari ormai chiedono la busta paga se vuoi cercare una casa in affitto e sono tanti quelli che si sentono dire che non c’è offerta con redditi sotto i novecento/mille euro al mese. Coerentemente con questo dato, si sa ormai che Modena è capitale degli sfratti: uno sfratto ogni 172 famiglie residenti, secondo i dati dei sindacati, circa 3.000 famiglie che rischiano lo sfratto o hanno la procedura in corso. I fondi per il sostegno al reddito, gravemente ridotti, coprono una parte infinitesimale del bisogno. Di che tipo di popolazione stiamo parlando? Molto probabilmente disoccupati: Modena ha la maglia nera in regione per il tasso di disoccupazione giovanile ma anche di persone che lavorano, “lavoratori poveri”, sia che lavorino con un contratto risibile (che si è comunque costretti ad accettare per non uscire dalle liste di collocamento, dalle graduatorie degli assistenti sociali, ecc) sia che lavorino in nero. È la città “sommersa”, “sotterranea”, quella di cui “tutti parlano ma nessuno fa niente”, è quella che viene prodotta e riprodotto da questa situazione economica locale nonché globale.

Riprendiamo sempre da qua. “L’economia si è emancipata da tempo dai confini giuridici dello stato-nazione e il capitale ha ormai abbandonato il progetto di una società in cui tutti i cittadini vengono integrati grazie al mercato del lavoro. In poche parole, il capitale non cerca più di unificare il mondo sulla base dell’ideologia progressista che per un certo periodo del ‘900 ha orientato i suoi movimenti e, da alcuni decenni, ha intrapreso una sorta di ristrutturazione su base territoriale, ovvero si concentra localmente, facendo del territorio il mezzo dell’estrazione del plusvalore. Il mondo, per il capitale, non appare più  suddiviso in stati-nazione, ma in zone a forte estrazione di plusvalore e in zone più o meno abbandonate a loro stesse. Il mondo attuale è un mondo scisso: da un lato ci sono zone pacificate, smart cities e gated comunities o in via di divenirlo; dall’altro zone di guerra, periferie putrescenti e slums sterminati. Oggi, lo spazio metropolitano appare organizzata mondialmente attraverso questa geografia duale che non smette, a propria volta, di frammentarsi ancora e ancora. Ovviamente questi processi di ristrutturazione territoriale di carattere duale, pur seguendo uno schema simile in tutto il mondo, acquisiscono determinazioni diverse a seconda dei differenti territori in cui si attuano. Quindi, è a partire dal situare storicamente e geograficamente questi processi, che dobbiamo chiederci come funzioni questa geografia duale/polarizzante nelle metropoli dell’Occidente in frammentazione. […] È in questo scenario che ci interessa soffermarci su uno strumento che in particolare attraversa il processo di frammentazione urbana, orientandolo verso la pacificazione e la valorizzazione capitalista dei territori, ovvero la gentrificazione. Questo fenomeno, ben lontano dall’essere, come molti credono, connaturato e fisiologico all’evoluzione stessa della città, è ogni volta scatenato da decisioni governamentali in materia di pianificazione urbanistica, le quali stabiliscono diverse zone di intervento all’interno dello spazio metropolitano definendo, volta per volta, le modalità attraverso cui perseguirvi il maggior profitto, salvo poi delegare agli investitori privati il compito di portare a termine concretamente il progetto di rivalorizzazione. Le zone in questione sono principalmente ex quartieri popolari per i quali si delinea preliminarmente un profilo ad hoc di quartiere autenticamente popolare ma in stato di degrado, di semi-abbandono e in balia della microcriminalità, in modo da preparare il terreno, cioè l’opinione pubblica, all’operazione di “riconquista” dello spazio urbano e di “ritrovata civilizzazione” grazie alla decantata “riqualificazione del quartiere”. Il fenomeno della gentrificazione è da qualche anno sulla bocca di tutti e non staremo qui a dilungarci sul suo funzionamento generale; in sostanza consiste nella progressiva sostituzione degli abitanti di un quartiere popolare con una popolazione di classe media, giovane e dinamica, e in generale dotata di un maggior potere d’acquisto oltre che portatrice di un più elevato capitale umano-sociale, e tutto ciò appunto grazie alla riqualificazione dello spazio urbano e della valorizzazione del patrimonio immobiliare. Qui dobbiamo ritenere un importante assioma del capitalismo contemporaneo: senza capitale umano niente gentrificazione, senza spazio adeguato niente capitale umano.

La via è stretta. Se non si ricollocano nelle caselle più appropriate tutti gli “sventramenti” urbani, le denunce d’abbandono o le critiche dei meccanismi di speculazione immobiliare e di consumo del territorio, se non si guarda in faccia il vero volto del nemico allora sarà un attimo ricondurre giuste istanze nell’alveo più sicuro della lotta al degrado e della guerra tra e contro il povero. banksy-canvas-prints-maid-sweeping-stuff-under-the-carpet-wall-uk-73cm-by-50cm-1r161m Non è poi così difficile nascondere la devastazione territoriale prodotta dagli ingranaggi dello sviluppo urbano dentro uno schema di degrado/sicurezza/sviluppo. Certo, gentrifiazione o la “riqualificazione del quartiere” hanno poco a che vedere con la costruzione di 550 appartamenti in zona Vaciglio (hanno molto a che fare invece con la riqualificazione dell’ R-Nord e della zona attorno a viale Gramsci già da qualche mese entrata, guarda caso, al centro del ciclone mediatico in tema di  sicurezza) ma come “suggerito” anche dalle recenti insinuazioni del Sindaco il binomio degrado/sicurezza è il metro sul quale tarare ogni discorso politico ed, in fin dei conti, di questi tempi, in città fa molto più rumore qualche scatto rubato di extracomunitari in un parco rispetto ad un’aria, fuor di metafora, perennemente irrespirabile.

Sempre da qua. A questa normativizzazione crescente viene affiancata una tendenziale militarizzazione del quartiere, propagandata come soluzione definitiva ai problemi che si vogliono fisiologici al territorio ma che sono ovviamente tra gli effetti della gentrificazione in atto, ovvero i problemi legati al massiccio spaccio di sostanze illegali che si impone nel quartiere per completare l’offerta di quelle legali offerte dai localini alla moda che ora monopolizzano il paesaggio urbano e il settore commerciale della zona. L’azione di polizia opera da una parte una sorta di sanificazione sociale a colpi di ordinanze, divieti, daspo urbani, militarizzazione e sgomberi, e dall’altra, a livello più capillare, apre la porta all’odio sociale verso il “ più povero”, lo spacciatore fuori dal localino, il nomade che rovista nel cassonetto, il migrante che vende merce contraffatta o il senza tetto che dorme sulla panchina al parco. Il quartiere rigenerato sarà infine abitato da esseri con una dentiera smagliante, un corpo ammiccante, una professione inutile e un ricco portafoglio. […] l’oggetto del governo non è il territorio in quanto tale ma la popolazione che vi si trova dispersa e i loro rapporti interni. La gentrificazione è dunque una questione governamentale perché agisce non tanto sulla geografia di un quartiere, quanto sui legami e sulle forme di vita – sulle abitudini, sulle condotte, sui modi di pensare e di fare – che abitano un territorio, che sono il territorio. Il processo di gentrificazione non è un processo lineare, che vede la semplice distruzione della vecchia forma di vita e la sua sostituzione con una nuova, ma qualcosa di più complesso: agendo su quest’intimo legame tra le persone, e secondariamente tra le persone e il territorio, la gentrificazione elimina le condizioni di possibilità perché le vecchie forme di vita possano continuare a esistere e riprodursi nel quartiere. […] La gentrificazione, quindi, è un dispositivo di governo delle popolazioni che fa agio sulla trasformazione dei territori, un dispositivo che produce nuove soggettività e nuove forme di vita a partire dalla separazione di ciò che era unito – la comunità storica del quartiere e i suoi legami –  e dall’unificazione di ciò che era separato – la nuova smart people e i vecchi abitanti resilienti. Tutti, infine, unificati virtualmente attraverso i nuovi dispositivi di controllo e messa a valore del territorio – poiché ormai ogni dispositivo è allo stesso tempo mezzo di produzione e di polizia, di consumo e di controllo.

IMG_20170919_085204Quando chi ci governa parla di “capitale sociale” sta ironicamente evocando uno “spettro”, quello delle nostre vite e delle nostre relazioni sociali utili giusto come valori di uso e scambio per essere capitalizzate e considerate dannose al di fuori di questo rapporto. Non vi è, di questi tempi, nessun progetto, nessuna pianificazione che abbia in qualche modo tenuto presente le priorità della vita umana, di un bios sociale; l’unico disegno, l’unico “quartiere” è ormai dettato esclusivamente dagli unici padroni del profitto e dell’accumulazione. Non è più possibile ignorare come, oggi, il divenire mafia del Capitale sia entrato definitivamente nella sua fase più acuta. Senza appoggi istituzionali né simpatie troppo estese comincia a penetrare nell’intimo quella consapevolezza (perennemente in stato di scarsità) che nessuno farà “il lavoro di resistenza” al posto nostro e che il Futuro, con la F maiuscola, occorrerà forgiarlo con le nostre mani. Fortunatamente non siamo soli al Mondo e sono in molti, in un’altra città, in un altro Paese, in un altro continente, coloro i quali hanno già intrapreso questo cammino.

Per portare avanti le lotte dei lavoratori, l’organizzazione di quartiere si è rivelata tanto importante quanto quella sui luoghi di lavoro”.
David Harvey

Giovedì 21 settembre si svolgerà una biciclettata l per dire NO al nuovo progetto edilizio che sorgerà sulle aree F. in zona Vacilio. Qua l’evento Facebook.

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La pagina Facebook del Comitato mobastacemento, la petizione da firmare ed infine la pagina del comitato con la mappatura degli edifici abbandonati in città.

Sabato 23 e Domenica 24 settembre, invece, presso il centro sociale Stella Nera, si terrà una due giorni di festa e incontri per mettere “da pARTE il cemento” e per dire No alla costruzione di un nuovo comparto edile in zona Vaciglio.

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Titoli di coda.
Da un primo piano a un campo lunghissimo con la vista che si perde all’orizzonte.

Potranno pure sembrare battaglie di retroguardia quelle che riguardano il destino urbanistico della città ma oggi opporsi agli investimenti per le infrastrutture o ai progetti di ristrutturazione urbana significa sfidare apertamente il progetto neoliberale di saccheggio della città, del territorio, la deterritorializzazione delle esperienze nonché una privatizzazione degli spazi che presuppone la cancellazione di una componente sociale della città che prima o poi riapparirà ma solo come schiava di nuove forme di consumo e intrattenimento.

Qualcuno ricorderà cosa accadde a fine maggio 2013, a Istanbul, a seguito di una protesta contro la costruzione di un centro commerciale che sarebbe dovuto sorgere sopra un parco cittadino? No, le battaglie per il diritto alla città non sono affatto di retroguardia.

David Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città., Ombre Corte 2012.